giovedì 29 dicembre 2016

I libri del mio 2016

In un momento in cui quasi tutti, giustamente, si lamentano del 2016 io quasi mi vergogno. In quest'anno di terremoti, attentati, disastri ferroviari, morti che hanno lacerato il nostro immaginario, mi sento quasi in colpa a ricordare il mio.
Mi limito qui al mio anno da lettrice. Quest'anno ho letto molto e ho letto bene, sopratutto per merito del gruppo di lettura che mi ha fatto scoprire o riscoprire dei classici e mi ha dato l'opportunità di ragionare con altri persone di quanto letto, rimpallandoci idee e suggestioni. Alcuni dei libri più importanti, quelli che mi hanno dato più suggestioni, li avevo già letti, ma ragionare su di loro nel 2016 ha fatto acquisire loro tutt'altro valore.
Per certi versi i libri totalmente nuovi che più mi hanno colpito del 2016 sono opere "minori" rispetto a certi mostri sacri affrontati nel corso dell'anno, ma vincono sul piano dell'emotività. Sono dei gran bei libri, assai diversi tra loro, che mi hanno commosso e a distanza di mesi mi rendo conto di tornare spesso con il pensiero a quelle pagine. Non posso quindi che consigliarvene caldamente la lettura, in modo che i miei libri del 2016 possano diventare i vostri libri del 2017.

3° – La forma fragile del silenzio di F.I. Pigola
Quando si legge il libro di qualcuno che si conosce si è sempre un poco in imbarazzo. Con Fabio andavo sul sicuro, eppure non pensavo di trovare una storia così toccante da dover a volte interrompere la lettura. La storia di un adolescente musicista alle prese con la sordità non ha nulla del pietismo che di solito connota le "storie di ragazzi con handicap". È delicata, dolce e sincera. Da leggere.






2° – Il figlio del cimitero di N. Gaiman, anche nella versione a fumetti.
Mi è piaciuto così tanto che ho letto sia il romanzo originale che la versione a fumetto. In entrambi i casi alla fine ho pianto. Ho, come comprensibile, fatto il pieno di storie di adozione, sull'adozione, intorno all'adozione e questo romanzo, che voleva essere una versione dark de Il libro della Giungla, li batte tutti. 
Un bambino sfugge all'eccidio della sua famiglia e si rifugia in un cimitero dove i fantasmi decidono di adottarlo. Un vampiro sarà il suo tutore. Una serie di racconti segue la crescita del figlio del cimitero dai primi mesi all'adolescenza.
Da leggere a qualsiasi età, per qualsiasi motivo.



1° – Venere privata di G. Scerbanenco.
È probabile che se non scrivessi gialli questo non sarebbe al primo posto. Così come stanno le cose, però, è stato una folgorazione. Il giallo italiano come vorrei che fosse. Scritto in modo elegante, senza paura di affrontare temi tosti e di portare alle estreme conseguenze le scelte dei personaggi, non privo di ironia.
Stile e temi tosti.
Da leggere!



Questi sono i miei libri dell'anno, quali sono i vostri?
Un augurio a tutti per un 2017 di ottime letture!

Prima di lasciarvi vi segnalo la seconda parte della mia intervista su Inkbooks che trovate qui!

martedì 27 dicembre 2016

Seguendo la cometa 7 – Visite mediche e corso informativo

Tutti sopravvissuti alle abbuffate natalizie?
Pronti a una nuova puntata di Seguendo la Cometa? I disegni sono, come sempre della nostra bravissima Viola!
Di seguito anche la versione aggiornata di "Corso Informativo", che avete già visto in bozza.


mercoledì 21 dicembre 2016

Cose che danno gioia.


Essendo a casa, quest'anno avrei dovuto arrivare super preparata al Natale e invece... Ma come ieri non era ottobre? E sopratutto, dove sono volati i primi venti giorni di Dicembre?
In realtà per una volta non sono in ritardo con la tabella di marcia. L'albero è fatto, anzi due, che in casa quello grande non ci stava e l'abbiamo messo sul pianerottolo e i regali sono pronti al 98%.
È proprio la mancanza di frenesia a stupirmi. La mancanza di quel senso di spossatezza tipico di questi giorni, del tour del force colloqui/pagellini/cene di Natale/incombenze varie.
La mia rilassatezza è dovuta al 90% alla pupattola (e potrebbe finire da un momento all'altro, domani il temuto vaccino portatore di febbre e irritabilità). Nonostante (o a causa?) la nostra impreparazione cresce bene e gioiosa, forse lei non sa che potrebbe non dormire la notte o piangere per un nonnulla e noi le nasconderemo queste informazioni il più a lungo possibile.
Un bambino, però, obbliga anche a concentrarsi sull'essenziale. Al di là del fattore lavoro (immagino che l'anno prossimo di questo periodo sarò tutto meno che rilassata), obbliga a dei ritmi definiti e a una riduzione dello spazio personale che non sempre è un male. Bisogna scegliere cosa fare del poco tempo a disposizione, perché non vada sprecato. Dare spazio a ciò che da davvero gioia a scapito di ciò che si fa per convenzione. Per una come me, che cerca sempre di fare tutto e farlo bene, è sempre stato difficile dire no. Il risultato era che quei pochi no indispensabili a volte venivano visti come tradimenti o delitti di lesa maestà nell'ottica del "ma come, da loro sì e da me no?".
Adesso non ho più tempo e voglia per queste paturnie né credo che una buona madre debba sacrificare del tutto se stessa per correre dietro al mondo. Tutto ciò che non è indispensabile deve essere fatto perché dà un valore aggiunto, non un carico. Non credo che questa nuova filosofia di vita dove viene prima la filastrocca da mimare con le mani della mail a cui rispondere mi faccia male, tutt'altro. Alla fine, se devo fare un augurio di cuore per questo Natale è RIPRENDETEVI IL VOSTRO TEMPO PER LE COSE CHE VI DANNO GIOIA.
La nostra vita è adesso. Per quanto sembri retorico, alla fine il fiore che si schiude, il sorriso in un volto amato, lo scodinzolio di un cane o le fusa di un gatto sono unici. A volte non si può fare a meno di correre, è necessario tralasciare qualcosa per arrivare a qualcos'altro, nessuno lo sa meglio di me. Ma che sia un cento metri o una maratona, ogni corsa deve avere un traguardo, deve esserci un motivo che ci spinge ai blocchi di partenza. Correre per correre, a meno che questo stesso atto non ci dia gioia (da podista come negare questa possibilità?) non ha molto senso.

Per la serie, cose che mi danno gioia, eccovene tre.
1 – La foto con Sanderson fatta a Lucca Comics, finalmente in mio possesso.

2 – Rispondere alle domande che Celeste ha posto sul suo blog e che mi sono sembrate bellissime.

Descrivi la tua personalità come un genere letterario (sii specifico quanto vuoi). 
I miei generi sono il GIALLO e il FANTASTICO e un motivo ci sarà. Ho nel mio animo un sottofondo di inquietudine, uno sguardo disincantato sul mondo che mi porta a guardare negli occhi gli angoli bui dell'animo umano, anche se spero sempre che alla fine la giustizia, il bene, l'ordine nel mondo, quel che volete voi prevalga. D'altro canto non ho perso e non voglio perdere la capacità di stupirmi, di immaginare un mondo altri, di uscire di casa e sperare di incontrare un drago...

Associa alle quattro stagioni quattro libri che hai letto (e motiva la scelta!)
INVERNO: Il giovane Holden, letto da poco, un freddo interiore che è anche esteriore, un Natale che incombe quasi come una maledizione, uno dei libri più invernali che abbia mai letto.
PRIMAVERA: la primavera è una stagione di bellezza che nasconde lati oscuri, perfezione ingannevole. Tutto ciò mi riporta all'antica Grecia, dove l'apollineo nasconde sempre il dionisiaco e scelto Le ultime gocce di vino di Mary Renault
ESTATE: l'estate è quella dei ragazzi che si affacciano all'adolescenza e scoprono, anche qui, l'oscurità, quindi scelgo due horror che rimandano all'estate IT di King e L'estate della paura di Simmons
AUTUNNO: l'autunno ha atmosfere nebbiose e indefinite, la vedo più come la stagione del raccolto  e del ritorno a casa e per questo scelgo La luna e i falò  di Pavese.

Il personaggio letterario (o i personaggi) in cui ti rispecchi di più.
Amo di più i personaggi in cui NON mi riconosco. Se devo scegliere uno che un po' mi assomiglia... Forse il medioevalista detective protagonista della saga degli evangelisti di Fred Vargas.

Sei catapultato nel mondo dell’ultimo libro che hai letto. Quanto ti è andata bene? Chi sei e cosa fai?
Poteva andarmi peggio, la Parigi anni '50 di Zazie nel metrò. Faccio la turista e vado a vedere la spettacolo in cui Gabriel si esibisce come ballerina.

Un topos narrativo che ti ha stufato e uno che vorresti leggere più spesso.
Dai libri vorrei sempre essere stupita, quindi niente topi, grazie.

La tua bevanda preferita durante la lettura.
Ultimamente una tisana alla fragola che da assuefazione.

Il tuo antagonista o i tuoi antagonisti preferiti.
Difficile, così come è difficile avere un buon antagonista. A parte i classici, Dracula in primis, mi ha colpito molto l'Imperatore-Dio della saga dei Mistborn di Sanderson, tutt'altro che scontato.

Qual è secondo te la parte più importante di un libro?
Essendo una che abbandona la lettura, le prime 50/100 pagine.

Il libro che ti ha fatto ridere di più.
Pratchett! A me guardie più di tutti. 

Un libro o un autore popolare che non riesci ad apprezzare.
Ehm, già nominata qualche post fa, passo...

Consigliami un libro!
Celeste, fa brutto se ti dico che la mia antologia potrebbe piacerti?

3 – In tema natalizio vi segnalo il GiveAway di Inkbooks, tramite cui potete vincere il mio libro La spada, il cuore e lo zaffiro o altri libri davvero belli (che onore avere il mio tra questi!). Trovate tutto qui
Il blog non chiude per le feste, ma tra vaccini, visite di controllo e doverosi festeggiamenti potrei non postare più prima di Natale, anche se spero ci scappi una puntata nuova di "Seguendo la cometa". Inizio però ad augurarvi
SERENE FESTE DI NATALE, PIENE DI COSE CHE SAPPIANO DARVI GIOIA

domenica 18 dicembre 2016

Piovono libri – Zazie nel metrò


Il libro del mese del gruppo di lettura ci ha portato questa volta nella Parigi post bellica, frenetica e surreale di Zazie nel metrò di Queneau.

Ricordavo con immenso piacere un brano di Zazie letto l'ultimo anno del liceo in lingua originale e quindi, pur sapendo che non mi aspettava una lettura semplice, non vedevo l'ora di cominciare la  versione integrale.
In realtà ho fatto una fatica immane a entrare nello spirito del libro e a trovare quel piacere adolescenziale. In parte questo è dovuto sicuramente a una traduzione italiana ormai obsoleta, in parte, forse, a una mente ormai troppo normata che ha faticato a fidarsi delle mille capriole linguistiche e contenutistiche di Queneau. Zazie nel metrò è un romanzo sperimentale e, forse, in quest'epoca di precotti letterari, ci siamo disabituati alla sperimentazione. Ho dovuto riabituare il mio palato, prima di arrivare a gustarmelo.

Zazie è una preadolescente che la madre affida allo zia Gabriel, di Parigi. Ben lungi dall'essere l'adorabile bambina che Einaudi ha messo in copertina all'edizione attuale, Zazie la sa lunga sugli uomini e i loro desideri, vorrebbe fare la maestra per torturare i bambini e, indispettita dal non poter andare in metrò a causa di uno sciopero, non vede l'ora di fuggire dalla sorveglianza dello zio, salvo poi tornare interessatissima per scoprire se Gabriel sia o non sia "ormosessuale".
Zazie si muove in una Parigi di personaggi indefiniti. Indefiniti in quanto non descritti e in quanto loro stessi privi di una loro identità. Si travestono tutti quanti, dallo zio Gabriel, omone che di professione fa "la ballerina col tutù", alla zia Marceline, che sul finale appare con ben altra identità, fino al misterioso personaggio che importuna ogni donna del racconto, che continua a tornare con nomi e identità sempre diverse, ma che ammette di aver dimenticato il proprio. È forse lui la metafora di una Parigi post bellica, i cui invasori tedeschi sono ora orde di turiste, che continuamente si mostra e si traveste, ma ha dimenticato la propria identità.
Il tutto è narrato in un linguaggio che mescola trascrizioni fonetiche di modi di dire, elementi gergali a termini raffinati in un amalgama di alto e basso e una confusione di stili che rende come non mai la frenesia di una metropoli in trasformazione. Non manca, come ha fatto notare una delle lettrici, una solida base classica. Se tutti sono o rischiano di essere solo maschere, non possiamo che essere in una tragedia e della tragedia Queneau rispetta le unità aristoteliche e non lesina neppure i riferimenti Shakesperiani.
Forse questa è la chiave di lettura che più mi ha colpito, emersa al gruppo, Zazie come una tragedia moderna i cui personaggi non sono in cerca di un autore (Gabriel a un certo punto ipotizza di essere fantasia di un romanziere), ma di un'identità in un mondo divenuto un frullatore di lingue e di valori e dove tutti sembrano ossessionati solo dal sesso.
Personalmente ho molto amato il contrasto tra Zazie, ragazzina perduta, che forse è quasi stata violentata e ha visto la madre uccidere un uomo, che copre con la volgarità le sue insicurezze e zio Gabriel. Di tutti i personaggi del romanzo lui è l'unico ad apparire risolto e soddisfatto, omone che ha scelto di fare come lavoro "la ballerina" e ha trovato un equilibrio che a tutti gli altri sembra mancare.
Ho apprezzato anche il continuo giocare col non narrato. All'inizio era indispettita dalla mancanza di descrizioni che mi facevano perdere tra i vari personaggi, ma è sul "vedo non vedo" che si gioca tutto. Stessi personaggi che si propongono sempre con nomi diversi, versioni di fatti non descritti che il lettore non può né accettare né confutare, attese non ripagate, ribaltamenti magistrali di ruoli. Tutto questo, del resto è dichiarato già nel titolo, dato che Zazie sul metrò non ci va mai.

Quella che proprio non ho capito è la scelta di Einaudi. Innanzi tutto mettere in copertina una bimba deliziosa di massimo cinque anni che ha davvero poco a che fare con Zazie. E poi il mantenere una traduzione che ha indubbie punte di genio, ma ormai è datata. Io ho letto in libro in una vecchia edizione (dalla copertina ben più onesta), corredata da una nota del traduttore, Fortini, in cui questi dichiara di essersi ispirato al linguaggio di Gadda. Effettivamente, nella nostra tradizione, non c'è che Gadda da associare a questo plurilinguismo spinto, tuttavia ho trovato questa versione davvero superata. In parte lo stile di Gadda è così unico che a volerlo spalmare su quello di Queneau ne risulterà inevitabilmente un'operazione artificiosa. In parte è proprio vecchia, con riferimenti linguistici ormai al limite dell'incomprensibile per noi che gli anni '50 non li abbiamo vissuti. Servirebbero almeno delle note.
Abbiamo letto anche la versione fumettosa del romanzo, proposta da edizioni Lizard-Rizzoli, che presenta una traduzione diversa, molto più scorrevole e godibile e personalmente ho rimpianto di non aver potuto leggere integralmente il romanzo con questa traduzione.

Problemi editoriali a parte, Zazie nel metrò non è comunque un'opera immediata. È enormemente più sperimentale e spiazzante di qualsiasi cosa scritto di recente che io abbia letto. Non è, però, pur essendo stata scritta da Queneau, un esercizio di stile. Io ritengo che più si chiede al lettore in termini di attenzione e più si deve offrire in termini di spunti e godimento intellettuale. Per quel che mi riguarda Zazie ha mantenuto le promesse.
Voi lo avete letto, cosa ne pensate?
Vi siete imbattuti in opere sperimentali? Quali? Cosa ne pensate?

sabato 17 dicembre 2016

Seguendo la cometa – Moduli illustrato da Viola

Ecco "moduli", che era già stato pubblicato in bozza, nella splendida versione illustrata da Viola e nella sua posizione naturale, dopo l'illustrazione della procedura.

giovedì 15 dicembre 2016

Il bisogno del pubblico che sta dietro al successo dei best seller – scrittevolezze

Sono reduce da giorni un po' stancanti, non tanto per la pupattola, che è dolce è paziente, quanto per i lavori in casa, con il loro inevitabile corollario di piccoli disagi. Dal trapano che fora il muro del salotto mancando di poco il divano con "scusi, signora, pensavamo che fosse più spesso", alla corrente che va e viene, al rumore. La pupattola, povera, per tre giorni è stata senza pace, ogni volta che tentava si abbioccarsi ecco capitare qualcosa. Neppure fuori casa ha avuto tregua, con tanto di guasto al passeggino. Ieri finalmente i muratori hanno finito i lavori grossi e la pupattola sta ronfando rincorrendo il sonno perduto, mentre io sono alla terza pastiglia contro il mal di testa.
I ragionamenti fatti in questi giorni, sono stati senza dubbio lesionati dai martelli pneumatici, come tutto il resto, ma cerco comunque di renderne conto.

Tutto è partito dal commento di Helgado al post precedente, in cui esprimeva il proprio disappunto per chi critica gli autori di successo, a partire dai mostri sacri della letteratura.
Ho pensato al fatto che non solo criticare piace a tutti, ma che a volte ci sentiamo davvero nel giusto a farlo. Alzi la mano chi non ha mai pensato, di fronte a un libro di successo: "Io l'avrei scritto meglio!", "Io ho scritto un romanzo migliore di questa schifezza!"
La cosa buffa è che, almeno se parliamo di successi commerciali, nella maggior parte dei casi abbiamo ragione. Il libro best seller di cui tutti parlano non è nulla di speciale, ha una scrittura mediocre e noi avremmo fatto di meglio. Solo che in quel caso c'è stato un lavoro di promozione di cui noi non abbiamo beneficiato.
Però...
Innanzi tutto se ben guardiamo ci sono libri che hanno moltissima promozione e che si rivelano dei flop colossali e grandi successi che partono in sordina e crescono oltre ogni aspettativa. Ora si fa fatica a ricordarselo, ma Harry Potter non uscì con chissà quale promozione, per un editore al tempo non enorme. Quindi cosa, cosa succede?
Mi posi la domanda al tempo del di Twilight e, avendo alunne che stravedevano con i più imbarazzanti vampiri della storia della letteratura, girai a loro la domanda. Quello che emerse mi stupì. Un vampiro è per sempre. È immortale e immutabile, standoci assieme devi rinunciare alla possibilità di evolvere e forse alla tua anima, ma poi è per sempre. Come Bella, queste ragazze erano per lo più figlie di divorziati, sballottate tra una casa e l'altra, vedevano le sorelle maggiori con fidanzati che andavano e venivano e nessuna certezza lavorativa. Bella, che sarà in eterno giovane, nessuna necessità di lavorare e un ragazzo che la amerà per sempre, aveva su di loro un fascino che forse neppure l'editore che aveva lanciato il romanzo poteva immaginare.
C'era un bisogno di stabilità sentimentale che, quasi sicuramente per caso, la serie dei vampiri vegetariani ha intercettato.
Stessa cosa per le Cinquanta Sfumature, fine operazione commerciale con tanto di favoletta sull'autrice per quello che ne so studiata a tavolino che va però a intercettare un bisogno di rivalsa erotica, la rivendicazione di un amore che sia insieme favolistico e carnale che evidentemente c'era. Molte recensioni hanno evidenziato che le scene hard sono scritte bene, senza i voli pindarici per cui erano famosi gli Harmony più "forti" e senza scadere nel porno puro e semplice. Io non me ne intendo molto in materia, ma mi pare che abbia offerto un prodotto che non c'era, un romanzo non così spinto da doverti vergognare di avere in casa, ma che chiama le cose con il loro nome e che rispondeva a un bisogno o a un desiderio del pubblico.
Questo non ha nulla a che vedere con la qualità letteraria. Personalmente ritengo che Twilight sia scritto malissimo (non mi uccidano gli estimatori), a metà del secondo volume volevo sparare a me e decapitare tutti i protagonisti e ho trovato le descrizioni di raro imbarazzo. Ma capivo perché le mie alunne lo adorassero. 
In questi casi si successo letterario planetario, sopratutto quando poi l'autore non è in grado di ripetere il miracolo, c'è tanto di accidentale e non previsto. C'è, sempre, un libro che arriva al momento giusto per rispondere a un bisogno del pubblico. Non il libro migliore per rispondere a quel bisogno, ma quello arrivato al momento giusto.
Io ho da anni il dente avvelenato contro Licia Troisi che incarna tutto quello che io non voglio in un fantasy e che, mannaggia a lei, ha avuto un successo enorme, mai più ripetuto. Come persona mi sta anche simpatica, ma nel profondo penso che sì, io avrei fatto di meglio. Tuttavia riconosco che ha riempito un vuoto che nel mercato italiano c'era, è arrivata al momento giusto e il pubblico si è riconosciuto nelle sue storie.
Più ci penso e più mi rendo conto che se un romanzo ha un grande successo, c'è un motivo. Spesso non è un motivo letterario, ma un riuscire, spesso per caso, a intercettare i bisogni di un pubblico. Svilire le qualità letterarie di questi libri ha poco senso, perché spesso non avevano già in partenza chissà quali velleità. Né ha senso svilire il pubblico che li apprezza. Anche perché a volte noi stessi siamo quel pubblico. Alzi la mano chi non ha mai apprezzato neppure un best seller o un romanzo generazionale. Harry Potter non è il più bel romanzo per ragazzi che abbia letto, ma mi è piaciuto un sacco. Mi ci sono riconosciuta per dei motivi che forse non erano così chiari né nella mente dell'autrice né in quelli dell'editore, che magari non hanno a che fare con i meriti letterari, ma sta di fatto che, a suo tempo, ho fatto notte leggendo i romanzi del maghetto, invece di preparare gli esami universitari.
Un best seller può non piacerci, può non essere un gran libro, ma quasi sempre intercetta i bisogni o i desideri di un pubblico vasto.
Quando denigriamo un best seller o il suo pubblico tendiamo a dimenticarci che anche noi abbiamo amato almeno un best seller, siamo stati quel pubblico e vorremmo quel pubblico su cui sputiamo.
(E, comunque, poi l'invidia è un sentimento umano ed è sacrosanto anche odiare quel best seller che noi avremmo scritto meglio, sia chiaro).
Voi cosa ne pensate?

lunedì 12 dicembre 2016

Sulla consapevolezza di far letteratura – scrittevolezze


Come scrivevo nel post Il testo di canzone come testo letterario, il mio commento al nobel per la letteratura di quest'anno, non posso dire di conoscere davvero Bob Dylan. In questi giorni, devo dire, ho fatto un po' di compiti a casa. Attendendo la pappa notturna della pupa, verso l'una, guardo parecchi documentari, Sky Arte, il mio compagno d'attesa preferito, me ne propone parecchi a temi musicale e non è mancato neppure quello sul novello nobel. Pensando anche al film Io non sono qui (bello ma impegnativo), mi sono fatta del buon Bobby l'idea di un uomo di rara antipatia, ma che quando tocca penna e chitarra (o anche solo una delle due cose) ha un tocco magico. Del resto il genio è difficile che vada a braccetto con la simpatia.
Quest'impressione è stata se possibile rafforzata dal suo comportamento in occasione del premio. Non è andato a ritirarlo senza addurre spiegazioni, con un atteggiamento che trasuda spocchia (poi, chissà, non è un ragazzino, magari ha dei guai di salute che non vuole divulgare). Però ha mandato al suo posto la gran dama del rock, che ha stile in abbondanza per entrambi, Patty Smith e ha scritto un discorso di rara immediatezza e dai non pochi spunti di riflessione.
Da vero autore di canzoni, ha il dono della concisione e arriva subito al punto (se volete leggerlo, uno dei tanti articoli che lo riporta è questo).

Tutto ruota sul cosa sia la letteratura, cosa il fare letteratura e la consapevolezze degli autori.
Si sorride al passaggio in cui Dylan sottolinea che forse Shakespeare, scrivendo l'Amleto non avesse come primo pensiero "diventerà un'opera immortale?" ma "rientrerò nelle spese? Dove lo trovo un teschio da usare come oggetto di scena?". Si sorride, ma probabilmente ci ha azzeccato.

Quanto può essere davvero consapevole un autore del valore letterario o artistico di ciò che sta producendo?
La storia è piena di autori che sono morti senza ottenere il giusto riconoscimento per essere poi magari rivalutati postumi. Vi dice niente il nome Morselli
Quando pensiamo a casi simili tendiamo a focalizzarci sulla cecità di chi stava loro attorno e non sull'autostima distrutta di questi autori che sono morti convinti di non valere niente.
C'è anche chi era assai consapevole del proprio valore, peccato poi sia passato alla storia per opere che lui stesso considerava minore. Il caso più eclatante è il buon Petrarca che puntava tutto sulle sue opere in latino, mentre secoli dopo siamo ancora qui a studiare le sue poesiole in volgare. Per non parlare del fatto che Dante era molto più preoccupato, probabilmente, per la politica e l'esilio che non per la Commedia.
le vie della letteratura sono spesso imperscrutabili, sopratutto per chi le traccia.

Questo mi porta a una serie di considerazioni che si possono riassumere come:
L'ultimo problema che dovrebbe porsi un autore è la propria importanza letteraria
Perché non sta all'autore stabilirla. Sta alla platea dei lettori, in un arco di tempo un essere umano non può sperimentare. 
Il problema che un autore dovrebbe porsi è fare il proprio lavoro creativo al meglio, perseguendo con tutto se stesso i propri fini comunicativi e cercando di arrivare a un pubblico.
Tutto il resto non gli compete.
Per questo mi irrito quando trovo autori, affermati o esordienti che fossero, che si atteggiano a grandi letterati. Loro sì che fanno letteratura e noi, buoi, non li capiamo, loro sì che perseguono fini più alti, invece che compiacere il pubblico (cosa che, ad esempio, secondo me al buon Shakespeare stava anche a cuore). Mi irritano, lo ammetto, i sedicenti poeti vati di ogni tempo o chi ha la ricetta pronta per l'alta letteratura.
Tra i più grandi letterati di ogni tempo c'è chi si è occupato non poco di accontentare il pubblico o il mecenate, chi è morto povero e sconosciuto, chi era apprezzato solo da pochi, chi era estremamente consapevole dei suoi mezzi e chi si sarebbe messo a ridere se gli avessero detto che lo avrebbero studiato a scuola.
L'unica cosa che li accomuna è l'impegno che ci hanno messo nel completare le loro opere, che poi è l'unica preoccupazione letteraria che un autore dovrebbe avere.
Voi cosa ne pensate?
O siete sicuri del vostro posto nell'Alta Letteratura?

sabato 10 dicembre 2016

Seguendo la cometa 6 – Procedure


Questa volta Viola ha davvero superato se stessa, dando ai miei scarni appunti una forma che era proprio quella che la mia testa aveva in mente.
Mi raccomando, cliccate sulle immagini per vederle a dimensione intera per apprezzare ogni particolare.
Per come ho vissuto io la cosa, il Piemonte, le informazioni sono corrette e spero anche che queste vignette possano aiutare chi ha voglia di saperne di più sulle pratiche adottive in Italia. 
Ho deciso di posticipare la vignetta "Moduli", di cui avevo già pubblicato la bozza, perché mi sembra più sensato partire dall'illustrazione del percorso.

Per "l'angolo della pubblicità" vi segnalo invece la bella analisi del mio libro La spada, il cuore e lo zaffiro fatta da Andrea Cabassi, qui, a cui va il mio enorme GRAZIE.

martedì 6 dicembre 2016

Il fascino discreto della forma passiva

Dopo la mia accorata difesa degli avverbi in -mente mi sento di scagliare una lancia anche in favore di un'altra specie grammaticale minacciata, la frase passiva.

Basta ascoltare come parlano i ragazzi per rendersi conto che l'uso del passivo nel linguaggio delle nuove generazioni è quasi scomparso. Quando proprio un esercizio li obbliga a scrivere una frase passiva escono esperimenti molto creativi, ma che poco hanno a che fare con la grammatica italiana.
Poi ci si mettono anche i guru della scrittura, sopratutto americani a sconsigliarne l'uso nelle narrazioni. È involuto e appesantisce inutilmente la prosa. Il capofila, in questo, è il buon King, che io assai stimo, ma con cui a volte dissento. Oltre tutto non sono così sicura che questi diktat pensati in una lingua si possano applicare fatti e finiti in un'altra.
La frase passiva è, inutile negarlo, più involuta e pesate di quella attiva. Per dire lo stesso concetto usa più parole, cosa che è considerata ormai quasi da tutti un male assoluto in narrativa.
Il suo scopo, però, è focalizzare l'attenzione del lettore sulla persona, l'animale o la cosa che subisce l'azione.
Qualcuno aveva lasciato una rosa rossa sul comodino a fianco del letto
Concentra subito l'attenzione su "qualcuno" e il mistero che rappresenta.
Una rosa rossa era stata lasciata sul comodino a fianco del letto
Porta la nostra attenzione sulla rosa rossa, che come tale avrà un significato. Il mistero su chi l'abbia lasciata permane, ma siamo più consapevoli dell'importanza della rosa. Abbiamo ben chiaro che è rossa e già la nostra mente ha escuso la nonna come autrice del gesto.

Gli assassini avevano accoltellato l'uomo al cuore
Lo trovo quasi una mancanza di rispetto nei confronti della vittima. Perché concentra tutta l'attenzione sugli assassini, che visualizziamo nell'atto di accoltellare l'uomo, anche se di fatto l'azione è già avvenuta. È come se si parassero tra noi e la vittima, occupando tutto il nostro campo visivo.
L'uomo era stato accoltellato al cuore dagli assassini
Ha un effetto diverso. In questo caso non visualizziamo l'azione, ma il suo effetto. La vittima a terra (presumibilmente), con la lama del coltello che spunta dal petto. Nella nostra immagine mentale gli assassini possono anche non esserci. Tutta l'attenzione è sulla vittima.
A ben vedere si tratta di uno slittamento dell'attenzione non da poco, tanto che io utilizzerei le due frasi in contesti diversi, a seconda se voglia dare più attenzione a chi agisce o a chi subisce l'azione.
La prima frase quando siamo concentrati sugli esecutori:
Gli assassini hanno accoltellato l'uomo al cuore. Solo a un primo sguardo sembra opera di un solo uomo. I lividi al collo e ai polsi della vittima dimostrano chiaramente, mio caro Watson, che erano almeno in due. Uno lo teneva fermo mentre l'altro colpiva.
A Holmes della vittima importa poco o nulla, a lui importa capire l'enigma che l'omicidio comporta e trovare gli assassini. La frase in forma attiva gli viene naturale alle labbra, perché la sua attenzione è concentrata sugli esecutori.
L'uomo era stato accoltellato al cuore, su questo pochi dubbi, considerata la lama che ancora sporgeva dal torace. Notai subito che si trattava un professionista benestante, un avvocato, forse un medico, a giudicare dagli abiti...

La frase passiva, almeno nella lingua italiana, l'unica che conosca abbastanza da pronunciarmi, crea sfumature di significato differenti, focalizzato l'attenzione in modo diverso da quanto fa quella attiva. È di certo più pesante, ma ha uno scopo preciso. Come tutti gli strumenti specializzati va usata a proposito, solo quando serve, proprio come non si usa un cannone per colpire un fringuello.
Però difendiamola (insieme ai poveri avverbi in -mente). A forza di semplificare la prosa a volte penso che ci verrà proposto di scrivere romanzi solo con gli emoticon. 
Voi cosa ne pensate?

domenica 4 dicembre 2016

Mio caro focoso amante

Mio caro focoso amante,
tu che segue il tuo istinto e che nulla ti può fermare, tu che sei giovane dentro e che conosci il potere della nostalgia.
Io capisco tutto questo, davvero. La difficoltà di ritagliare nelle vostre vite un istante di passione, riassaporare quelle emozioni che solo gli adolescenti gustano piene, quando non hanno l'età per apprezzarle davvero. 
Ti immagino nel prepararti, la mente già al dopo, l'auto lustra con tutta la sua cilindrata e le decine di migliaia di euro che ci hai investito ben in evidenza. Lei che sale al tuo fianco nel luogo convenuto. Ormai ha un'età per cui non deve fingere imbarazzo o timidezza, siete pronti entrambi ad assaporare il gusto della trasgressione. Il piacere di fare tutto come se aveste diciotto anni ancora.
Però, io mi chiedo...
Mio caro focoso amante, lo so che che hai una vita piena e l'occasione va presa quando arriva, tempus fugit e compagnia bella, ma alle 15,30 di una domenica pomeriggio ti apparti con la tua bella, in auto, come quando avevate diciott'anni?
Mio caro focoso amante, io lo capisco che il macchinone a imboscarsi rischia di rovinarsi e tu l'avevi lavato per l'occasione e poi se ti ripresenti nella tua vita con il fango su tutta la fiancata qualche domanda la gente finisce per farsela, ma, e non dirmi che non avevi progettato tutto, non era il caso di fare prima un sopralluogo? Giusto per trovare un posto che appartato lo fosse davvero? Giusto una curva dopo la strada asfaltata?
Mio caro focoso amante, se proprio lì dovevi andare, io capisco che la natura chiama e al cuor non si comanda, ma magari parcheggiare un poco al lato strada? Solo un poco?
Perché, mio caro focoso amante, se alle 15,30 del pomeriggio tu ti imboschi sulla sterrata principale, occupandola tutta, non puoi poi guardare male il podista che per passare ti si arrampica sul parabrezza, vedendo inevitabilmente assai più di quando avrebbe voluto.

Con la speranza che le nostre strade non si incrocino, letteralmente, più.
Mamma podista. 

P.S: e poi, suvvia, lo capisco l'effetto nostalgia, ma siamo a dicembre. Lei mi sembrava piuttosto infreddolita, non era meglio una cara vecchia stanza in un motel? Così finisce anche che lei, più che innamorato, ti ritenga spilorcio.

(Questo non è un racconto, ma uno spaccato del mio pomeriggio)

mercoledì 30 novembre 2016

Intervista a Brandon Sanderson


È finalmente on-line l'intervista allo scrittore Brandon Sanderson, che ho incontrato a Lucca Comics, corredata dalle belle foto esclusive di Massimiliano Malerba (autore di quella qui sopra).
Dell'aspetto emotivo dell'incontro ho già parlato qui.
Ora è tempo di entrare nel cuore delle storie e dei mondi di questo autore. Penso che Brandon Sanderson sia uno di quegli scrittori che ha tanto da insegnare a chiunque ami scrivere, a prescindere dal genere che predilige. Questo per vari motivi. È abbastanza giovane da ricordarsi quando era lui stesso un aspirante scrittore (non c'è libri in cui non ringrazi il docente di uno dei corsi che ha seguito) e sa cosa significa cercare di districarsi tra le mille indicazioni contrastanti. È un gran lavoratore, con idee ben chiare in testa, sa cosa vuole fare, come lo vuole fare e non ha problemi a raccontarlo. Ha il dono della divulgazione. Non tutti sanno trasmettere i propri segreti del mestiere, a prescindere dalla propria bravura. Avete in mente Michelangelo? "Come si scolpisce maestro?" "Guardi il blocco di marmo e tiri fuori la statua che c'è già dentro, figliolo" (e grazie tante, maestro, immagino rispondesse tra sé l'aspirante scultore). Brandon Sanderson, invece, sa scrivere, ma anche insegnare a scrivere.
A questo proposito vi segnalo questo bel post dell'amico Andrea Atzori che racconta la lezione di scrittura tenuta da Sanderson sempre a Lucca.
Pronti e preparati?

Per me questi sono giorni particolarmente strani. Con l'adozione nessuno ha certezze sui tempi. Così cerchi di farti un'idea della tempistica pensando di andare all'estero e ti trovi invece con una splendida pupattola da nazionale prima, però, che la sua cameretta non solo sia pronta, ma costruita. Così i lavori per l'ampliamento che pensavamo di avere tutto il tutto il tempo per fare sono partiti da quattro giorni, da cui i miei commenti sui martelli pneumatici come ninna nanna. Quindi ho internet a singhiozzo, perché ogni due per tre qualcuno si attacca all'impianto sbagliato e fa saltare la corrente, inoltre ci sono momenti in cui casa viene invasa dalla polvere e io e pupattola dobbiamo fuggire (per fortuna oggi la giornata è splendida e siamo fuggite al lago). Quindi mi scuso con Viola, Michele, Marina e Helgado per le risposte tardive (o il non essermi accorta proprio di cose inviatemi), purtroppo da cellulare non mi trovo molto bene a lavorare.

Se internet mi assiste, però, questa sera sarò in radio insieme agli altri amici di Rill:
Oggi, mercoledì 30 novembre, dalle 21 alle 21.30, RiLL sarà ospite della trasmissione Cosplay on Air, sull'emittente Radio Dimensione Musica. Parleremo del Trofeo RiLL, di SFIDA e delle antologie di racconti, insieme ad alcuni "nostri" autori: Antonella MeceneroMaurizio Ferrero e Alain Voudì.
Potete ascoltarci in FM sulle frequenze 103.1 – 88.5 – 100.8 MHz (se vivete a Bologna, Modena, Pistoia e provincia) o in streaming: qui

lunedì 28 novembre 2016

Seguendo la Cometa illustrato da Viola!


Quando ho iniziato a postare "Seguendo la Cometa" tante persone si sono proposte di illustrare le mie bozze o di mettermi in contatto con dei disegnatori. Grazie davvero a tutti quanti. Il blog è, me ne rendo conto sempre più, una cosa meravigliosa che permette di far circolare le idee, mettere in contatto le persone, dare spunti e creare sinergie.
Viola non si è fatto scoraggiare da nulla, neppure dal fatto che io, persa dietro alla pupattola e ai lavori di ampliamento della casa (e, sì, pensavamo proprio di partire per il paese in cui devi stare almeno tre mesi e quindi di avere un sacco di tempo per allestire casa a misura di bambino, indovinate qual è il paese) ci abbia messo un sacco a vedere i suoi disegni, rispondendole per altro all'inizio a monosillabi.
I suoi disegni sono splendidi. Non solo io mi rispecchio perfettamente nella Tenar/fumetto, ma anche lo stile è esattamente quello che avevo in mente.
Non ho davvero parole per ringraziare Viola, spero che siate voi a farle i complimenti che merita qui o sulla sua pagina fb.
Spero davvero che questa collaborazione possa continuare perché penso che per me sia un onore poter lavorare con lei.
Intanto vi ripropongo le puntate precedenti illustrati (a iniziare da queste tavole, perché sono belle e già ottimizzate per il blog, che qui la corrente va e viene e la connessione ora c'è e poi chissà).

Vi segnalo anche una bella intervista in cui parlo de La spada, il cuore e lo zaffiro. La trovate qui

venerdì 25 novembre 2016

I demoni di zia Matilda – Racconto inedito completo

Racconto che frullava in testa da un po', scritto durante una nanna insolitamente lunga della pupattola (favorita, parrebbe, dai martelli pneumatici dei muratori che lavorano dall'altra parte del muro...).

I DEMONI DI ZIA MATILDA

Ci sono parenti che non ti ricordi neppure di avere, fino a che un giorno qualcuno ti telefona per dirti che sono morti.
Sinceramente, ero convinto che zia Matilda fosse trapassata già da un pezzo. Nei miei ricordi zia Matilda non solo è sempre stata vecchia, ma decrepita. E non è una questione di memoria che distorce. A quanto mi ha detto l’avvocato, se ne è andata serenamente all’età di 110 anni e considerando che non ho ricordi di lei precedenti ai quattro o cinque anni, non l’ho mai vista sotto gli ottanta. A gli occhi di un bambino di cinque anni una vecchia di ottanta ha già un piede e mezzo nella fossa. Forse non solo agli occhi di un bambino. Ho il sospetto che parecchi parenti in attesa di eredità l’abbiano preceduta dall’altra parte…
Io non la vedevo almeno da dieci anni, ma c’è stato un periodo, quand’ero bambino, in cui la frequentavamo spesso.

Unica sopravvissuta della generazione di mio nonno, ci teneva a tenere i rapporti con nipoti e pronipoti. Era il tipo di prozia dalle guance piene che faceva le torte di mele e lo zabaione col marsala, che a Natale rinunciava alla pensione per mettere cinquantamila lire nella busta di ciascun pronipote. 
Abitava in una vecchia cascina, in paese, con il giardino, l’orto e il pollaio e per noi bambini di città andarla a trovare voleva dire cercare i lombrichi sotto le pietre da dare alle galline, impastare torte di fango e far diventare i pantaloni verdi d’erba sulle ginocchia. Ci fu un momento nella mia infanzia in cui zia Matilda fu davvero molto amata, per la disperazione di mia madre che non capiva come solo in un’ora nel cortile della zia riuscissi a distruggere tutto ciò che avevo indosso. 

Nel fondo del giardino di zia Matilda c’era il capanno degli attrezzi. Nessuno di noi bambini c’era mai stato e di solito era chiuso con una catena e un lucchetto. Dentro c’era conservato il becchime per le galline e, dato che uno dei nostri divertimenti preferiti era nutrire il pollame, quando era il momento aspettavamo religiosamente fuori mentre la zia entrava, si chiudeva la porta alle spalle, prendeva la giusta quantità di mais e grana verde e tornava fuori. Avremmo giurato, però, che, dentro il capanno, la zia parlava con qualcuno. Persino noi bambini, però, sapevamo, che dopo una certa età si diventa tutti un po’ strani…

Una volta mi capitò di sentire i miei che parlavano di lei.
– Com’è che non si è mai sposata? – stava chiedendo mia madre.
– Be’, sai, ha i suoi demoni…
Poi la conversazione proseguì a voce così bassa che non riuscii a seguirla.
Da quella volta mia madre insistette perché io non mi trovassi mai da solo con la zia. Chiesi spiegazioni, perché non era facile. Se ad esempio ero fuori a giocare con i cugini e mi scappava, entravo in casa e zia Matilda mi accompagnava in bagno. Mia madre non addusse spiegazioni particolari, ma ribadì che non dovevo farlo e basta. Piuttosto la tenevo fino a che non scappava anche alla cugina Caterina, allora potevamo entrare tutte e due in casa e andare in bagno a turno. Quindi capii che non potevo stare da solo con la zia perché “aveva i suoi demoni”…

Arrivò il giorno in cui, fatalmente, mi trovai da solo a casa della zia. Mia madre aveva non so che impegno e mio padre, non sapendo dove piazzarmi, aveva optato per la vecchia parente. Conoscendo le fisime di mamma, però, si era assicurato che ci fosse anche Caterina, ma arrivati là scoprimmo che la cugina era stata trattenuta a casa da un malanno improvviso. Mio padre, preso alla sprovvista, adottò una soluzione tipica.
— Ricordati di dire a mamma che Caterina c’era – mi sussurrò prima di andare.
Io per un po’ rimasi in ansia, temendo che la zia mi spingesse in un forno dopo essersi assicurata che ero abbastanza cicciottello o facesse una qualsiasi delle altre cose che potevo attribuire a una signora “che aveva i suoi demoni” e fui un poco deluso quando invece zia Matilda mi propose di andare a giocare fuori mentre lei preparava una variante di zabaione al cacao. Forse ero ancora troppo magro per essere cucinato.
Da solo, però, era tutto meno divertente e finii per bighellonare in cortile senza neppure troppa voglia di sporcarmi. Come accade nelle fiabe a questo punto, scoprii che il lucchetto del capanno era stato dimenticato aperto.
Da dentro provenivano dei rumori. Una sorta di frinire e fruscii di qualcosa che si muoveva. Ne usciva un’odore strano, che riconobbi come alcolico. 
Inutile dire che misi dentro la tesa. 
Quello che vidi fu un animaletto dall’aspetto simile a quello di una scimmia, ma ricoperto da penne rade, come la gallina che tutte le altre beccavano, intento a succhiare del liquido trasparente da una bottiglia. Con le zampe posteriori prensili teneva già pronta una ciotola che sembrava contenere del vino rosso.
Un altro animaletto simile, ma dal pelo fulvo e con due cornini ritorti da ariete che spuntavano dalla fronte stava invece fumando tre sigarette. Lì vicino un altro dall’aspetto vetusto, con la pelle cascante, stava impilando delle vecchie monete in torri ordinate. Fu il primo a vedermi e si girò digrignando i denti gialli, ma ancora affilati.
Feci un passo indietro, urtando, credo, un rastrello, che cadde percuotendo un secchio di latta. Mi girai di soprassalto.
Dietro il secchio caduto stava una quarta creatura. Questa aveva seni prosperosi, ma attributi decisamente maschili, anche se forse vi era anche una piccola vulva, cosa che all’epoca non ero in grado di appurare. Si toccava con le mani sia i seni che il pisello in un modo che non avevo mai visto fare e che pure mi affascinava. Il volto scimmiesco, ma a suo modo affascinante, aveva un’espressione di piacere che io di certo non avevo mai avuto, neppure con lo zabaione.
– Vieni via, sei un po’ piccolo per farci amicizia.
La voce di zia Matilda ruppe l’ipnosi in cui ero caduto e con vergogna mi resi conto che stavo infilando le mani nei pantaloni.
– Vieni, è ora di merenda – continuò la zia, con dolcezza.
– Chi sono? – chiesi.
Ne avevo visto un altro. Aveva messo un piccolo cappio attaccato a una trave nel soffitto e sembrava intenzionato ad impiccarcisi, zia Matilda, però, non sembrava preoccupata. Aveva in mano una bottiglia di grappa che con naturalezza mise in mano alla creatura spennacchiata, in sostituzione a quella già svuotata.
– I miei demoni – rispose, tranquilla. – Un sacco di gente ne ha uno addosso, ma non lo sa trattare a dovere. Io li tengo bene e non permetto che vadano in giro a saltare su chicchessia.
Di colpo non mi interessava più.
– Andiamo a giocare a rubamazzo, zia? – proposi. – Però ci puntiamo dei soldi. La busta di Natale. Se vinco io mi ci metti due cinquantamila dentro, se perdo ti do la mia collezione di figurine dei calciatori. Potremmo anche giocare a tris, io punto la mia macchinina nuova, quella che cambia colore se la metti nell’acqua calda, tu cosa ti giochi?
La zia mi fissò con attenzione, senza tuttavia riuscire a farmi smettere di parlare. Avevo una voglia matta di tornare a casa a giocare. A dire in vero non avevo voglia di giocare. Avevo voglia di vincere. Vincere cose.
– Ecco, immaginavo. Sciò! Via! Torna a cuccia – gridò, con lo stesso tono con cui scacciava le galline.
Dalla mia spalla scese un’altra di quelle creature, magra e con gli occhi furbi. Aveva in mano delle carte e mi accorsi che ne era rimasta una sulla mia spalla. Un due di picche.
– Andiamo a far merenda – disse la zia.
Io annuii. Non avevo più voglia di giocare.
– Dove si trovano i demoni? – chiesi.
– Un po’ ovunque, sulle spalle delle persone più impensabili – rispose la zia. 
Sospirò e parve soppesarmi.
– Più avanti, magari, ti spiegherò come prenderli senza farti male. Per ora, però, sarà il nostro segreto.
Io annuii. Adesso che il Demone del Gioco era sceso dalla spalla tutta la mia attenzione era rivolta all’imminente zabaione.

Come pattuito, raccontai che Caterina era stata con me tutto il pomeriggio. Tornai ancora da zia Matilda, ma trovai sempre il capanno chiuso. Qualche volta, furtivo, mi ci avvicinai. Sentii ancora l’odore della grappa del Demone dell’Alcool e persino i versi osceni e affascinanti di quello della Lussuria, ma non ci entrai più.
La primavera seguente a papà fu offerto un lavoro lontano e ci trasferimmo. Nonostante i buoni propositi, finimmo per andare a trovare sempre meno zia Matilda.
Una volta, un paio di anni dopo, sentendo parlare di un uomo vittima del demone dell’alcool chiesi se il demone avesse le piume. Tutti mi guardarono in un modo così strano che ritenni in caso di non parlarne più.
In effetti ho raccontato questa storia a una sola persona. 
Anche se con il passare degli anni ci ho pensato sempre meno non l’ho mai dimenticata del tutto e ogni tanto, crescendo, ho finito per chiedermi cosa fosse successo davvero in quel capanno. La mia ragazza, ai tempi dell’università, studiava psicologia. Quando le raccontai dei demoni di zia Matilde mi disse con dolcezza, ma senza troppi giri di parole, che ero stato abusato e la mia mente aveva creato la storia degli animaletti a forma di scimmia per proteggersi. Che ora i ricordi stavano emergendo e avrei dovuto farmi aiutare, se volevo diventare un adulto sereno. In caso contrario la cosa mi avrebbe rovinato la vita. 
In effetti rovinò quella relazione. Io non avevo nessuna voglia di farmi psicanalizzare e non mi sentivo addosso alcun trauma e la mia ragazza continuava a insistere che invece dovevo parlarne, farmi ipnotizzare, che lei voleva aiutarmi ma non sapeva come fare. Ogni volta che ci vedevamo finiva col piangere per il mio supposto trauma e alla fine la mollai. Decisi che probabilmente mi ero immaginato tutto e non volli più né pensarci né parlarne. Da allora, probabilmente, non parlai più di zia Matilda.
Fino a questa mattina.

Mi ha telefonato un avvocato di Milano, un tizio piuttosto importante, non il genere di frequentazione che avrei attribuito a zia Matilda. Mi ha informato del decesso e ha spiegato che nel testamento la zia aveva specificato che gli immobili sarebbero andati a me, mentre i risparmi e i, suppongo pochi, gioielli, agli altri pronipoti. La casa, il terreno e il capanno, quindi, sono miei.
– È successa una cosa strana, però, che forse è bene che sappia – mi ha raccontato l’avvocato, prima di passare alle istruzioni legali. – Sua zia, nonostante l’età, era ancora autonoma. I vicini, non vedendola da due giorni, hanno chiamato i carabinieri, che l’hanno trovata morta nel capanno. Infarto, nulla di sorprendente, considerato tutto. La cosa strana è che i due carabinieri hanno portato fuori il corpo, chiamato chi di dovere, ma non sono rientrati in caserma. Uno si è suicidato quella sera stessa, dopo aver perso al casinò di Lugano tutti i suoi averi e l’altro ha accoltellato un vecchio amico di sua moglie, convinto che ne fosse l’amante.
– Appena usciti da capanno di mia zia, eh? – ho mormorato.
– Già…

mercoledì 23 novembre 2016

Seguendo la cometa 5 – Paese che vai...

In un mondo in cui non riusciamo a metterci d'accordo sull'utilizzo di una presa elettrica universale, vi lascio immaginare cosa sia districarsi tra le regole riguardanti l'adozione internazionale... 
Tutte le informazioni sono reali, almeno lo erano due anni fa, e riguardano i paesi dell'elenco, quindi potete divertirvi ad associare il giusto paese con la sua regola, più o meno formalizzata. Sul "simpatico", poi abbiamo un po' il dente avvelenato, perché è un paese che abbiamo preso in considerazione, sulla carta i requisiti c'erano, ma no, non eravamo "abbastanza".

PARLANDO DI TUTT'ALTRO
Oggi mi è arrivato un rendiconto su cui non speravo più. Nel 2016 i miei guadagni relativi al diritto d'autore dovrebbero aggirarsi intorno agli 800 euro, 1000 se le ultime cose che devono arrivare hanno venduto molto più del previsto. Quest'anno non ho partecipato a concorsi e considerando che l'antologia è appena uscita, si tratta di romanzi già fuori da almeno un anno o racconti in digitale. Che sia poco o tanto dipende da come lo guardi, suppongo. Pochissimo se uno ci deve vivere. Considerando che si tratta di romanzi editi da più di un anno o di racconti pubblicati in digitale al (giusto) prezzo di un cappuccino io ritengo comunque di portarmi a casa, oltre a dei bonifici che schifo non mi fanno, la consapevolezza che non tutti gli editori spariscono con la cassa dopo la pubblicazione e il fatto che tutte le spese (editing, impaginazione, distribuzione...) le hanno sostenute gli editori.
Quindi grazie a INTERLINEA, DELOS BOOKS e DELOS DIGITAL.  
(Mondadori ha pubblicato quest'anno un mio racconto che però era stato contrattualizzato prima e Wild Board è, giustamente, all'inizio del suo cammino con me come autrice.)
Lo so che "hanno fatto solo il loro dovere", ma di questi tempi, in questo mondo, la correttezza non è, purtroppo, scontata.

Per quanto riguarda invece LA SPADA, IL CUORE E LO ZAFFIRO, vi segnalo una recensione che però è MOOOLTO spoilerosa (dice cose che mi hanno fatto molto piacere, ma leggete a vostro rischio e pericolo) su IntercoM Scienze Fiction Station

domenica 20 novembre 2016

Piovono libri – Il giovane Holden

Questo mese il libro prescelto dal gruppo di lettura è stato Il giovane Holden. Romanzo dal formato assai congeniale, facilmente leggibile anche con la pupattola in grembo (commento della pupattola: "questo libro fa addormentare, mamma", commento di mamma: "ottimo motivo per leggerlo, quindi").
Libro generazionale, celeberrimo, che ha dato il nome anche alla scuola di narrazione che io pure ho frequentato, ma che non avevo mai letto. Non si tratta di uno di quei libri che non ho mai letto per caso, si tratta di un libro che ho, fino a questo momento, evitato con cura e dedizione. E perché mai?
Ebbene, al gruppo di lettura si è capito che c'è chi è stato Holden o si è sentito vicino ad Holden e chi Holden non lo è mai stato. Per me è pure peggio. 
Io sono, da sempre, il professore di storia.

Partiamo dall'inizio. 
Edito nel 1951, Il giovane Holden è forse tutt'oggi il libro migliore che descrive la crisi adolescenziale. Holden è un sedicenne che, appena prima di Natale, viene cacciato, per l'ennesima volta da scuola. Non volendo affrontare subito i propri genitori, finisce per vagare da solo per New York, alla ricerca (vana) di qualcuno che lo possa capire.
Lentamente emerge il dolore mai superato per la morte del proprio fratello minore, il senso di inadeguatezza nei confronti di una famiglia di vincenti, di un fratello maggiore sceneggiatore e in generale l'insofferenza per l'ipocrisia del proprio mondo altoborghese.
È, senza dubbio, un romanzo epocale, che entra nella mente di un adolescente mostrandola per quello che è, confusa, arrabbiata, ossessionata dal sesso, piena di desiderio e di repulsione per il mondo degli adulti. Holden è un'anima ferita che non sa dare un nome a un proprio dolore, che si aggira alla ricerca di un'anima amica, senza trovarla. Cerca in continuazione un contatto, chiama persone, amici, conoscenti, vecchi professori, sperando che qualcuno possa dargli, più che un conforto, una spiegazione per questa cosa confusa che è la vita. 
Come si vede dalla fotografia, il titolo italiano non ha nulla a che vedere con quello originale. Concordo che l'originale fosse intraducibile, ma è un peccato. Si tratta della storpiatura di un verso di una filastrocca e suonerebbe più o meno come "il prenditore nella segale" e fa riferimento a uno dei momenti più toccanti del romanzo, in cui Holden si immagina come colui che salva dei bambini in un campo di segale, impedendo loro di cadere in un burrone

Se è un bel libro, ed è un bel libro, allora qual è il mio problema con lui?
Nelle primissime pagine, prima ancora di lasciare la scuola, Holden va a trovare l'anziano prof di storia e commentano insieme il tema improponibile scritto dal ragazzo. A cosa pensava Holden mentre il prof spiegava? Alla possibilità che in inverno un tir portasse via le papere da un laghetto di Central Park.
E io ho pensato: come i miei alunni! Io spiego e loro pensano alle papere! Hanno la testa piena di piume!
Questo è il mio problema. Io sono il prof, non Holden. 
Sono stata un'adolescente infelice? Certo. Ma la rabbia indiscriminata, acritica e autolesionista di Holden non l'ho mai provata. Holden non analizza, non cerca cause o soluzioni, procede a tentoni, sperando che giunga qualcuno a salvarlo, non in grado di sapere non si dice ciò che vuole, ma neppure ciò che non vuole. Dice di odiare l'ipocrisia, ma non ne cerca le cause né aspira a una vita che ne sia priva, se non come mero sogno irrealizzabile. Non ha alcun ideale a cui tendere, nessuna aspirazione da raggiungere 
Leggendo questo libro, suppongo, ci si dovrebbe riconoscere in Holden. Io ci riconosco i miei alunni più snervanti. Quelli che mentre spieghi sembrano seguirti ma, nel migliore dei casi, pensano alla loro (o alla tua) vita sessuale. Quelli che si inventano le scuse più improbabili per i compiti non consegnati o fanno solo quello che a loro piace. Quelli che, perché a loro è capitato qualcosa di brutto, pensano che tutto il mondo sia colpevole. Quindi, invece di immergermi in Holden, pensavo sempre di più a quanto fosse difficile rapportarsi con lui, a quanto fosse snervante, a quel santo del suo amico che va da lui in piena notte solo per venir trattato male e che tuttavia si sforza di dare al ragazzo dei buoni consigli. 
Per carità, mi ha anche rassicurato. Non sono i ragazzi di oggi, evidentemente gli Holden ci sono da sempre. Come dice lui stesso non è colpa del professore di storia, tu puoi spiegare nel modo migliore del mondo, ma se questi pensano alle papere...

Da decenni, quindi, conoscendone spannometricamente la trama, me ne sono tenuta lontana per evitare di guardare con gli occhi del professore di storia chi diceva di sentirsi o essersi sentito come Holden.
Voi l'avete mai letto? Vi siete mai sentiti Holden (tranquilli, non vi do 3 se mi dite di sì)?

giovedì 17 novembre 2016

In difesa di una specie minacciata: gli avverbi in -mente


Ho finito il racconto ambientato durante la grande peste. Non è il mio racconto migliore, non riesco a trovargli un titolo e alcuni passaggi sono farraginosi. Però l'ho finito, cosa che a dire il vero mi ha stupito. Quindi sono passata alla revisione, pronta a cancellare l'inutile e in cacofonico come un cacciatore ben appostato. Ho stanato le prede previste, ripetizioni, ridondanze, incongruenze. 
Poi l'ho visto, rintanato verso in fondo, farsi piccolo nella speranza (vana) di non essere scorto.
Rispose distrattamente
Ah!
Io pronta ho imbracciato il mio ipotetico fucile, preparata a fare fuoco.
Ma, un attimo, come sostituirlo?
Innanzi tutto, il concetto era importante?
Beh, sì.
Il mio protagonista viene interpellato su una questione che non gli interessa mentre sta sfogliando un libro e pensando ad altro. Non corbellerie, gli hanno appena ammazzato il fratello. Per educazione non può non rispondere, ma, che diamine, non gliene frega un accidente, almeno all'inizio.
Quindi?
Rispose, distratto?
Che poi è una forma contratta per dire rispose in modo distratto che è come dire rispose distrattamente. Tanto vale mettere distrattamente.
Certo, c'è l'opzione rispose soprappensiero che, però, non è proprio la stessa cosa. A me dà l'impressione (sicuramente soggettiva e imperfetta) di uno che abbia la testa tra le nuvole. Lui è distratto da cose più importanti, almeno nella sua percezione.
Quindi, con un senso di colpevolezza dato dal lavoro non svolto fino in fondo, l'ho lasciato. Nel mio racconto, ho pensato, ci sono 36500 battute, ci sarà pur posto anche per un avverbio in -mente.
E lui mi ha guardato, come un ultimo lupo sopravvissuto su montagne troppo antropizzate. Mi ha fatto una tenerezza infinita.

Dopo tutto è così, no? Una volta si riteneva che il lupi fossero nocivi, dei nemici giurati delle greggi e dell'uomo e solo poi abbiamo capito che, se esistevano, erano necessari. Indispensabili all'ecosistema.
Ora, siamo tutti d'accorto che troppi predatori nuocciano, così come troppi di qualsiasi cosa. Se ci sono troppi lupi in un bosco presto le prede scarseggeranno con danni a catena per tutta la foresta. Gli avverbi in -mente sono ingombranti, nemici riconosciuti di tutti gli scribacchini. Però, come i lupi, esistono. Se esistono, se la nostra lingua li usa da secoli, sarà, suppongo, perché hanno uno scopo. Se fossero così rimpiazzabili, anzi, se fosse giusto ed elegante farlo, la nostra lingua li avrebbe già espulsi. La nostra lingua, del resto, ha già espulso cose in apparenza molto meno inutili degli avverbi in -mente, come il genere neutro, presente in latino (per non parlare del delizioso duale greco). Loro, invece sono sopravvissuti. Ho il sospetto, badate bene, il sospetto, non la certezza, che siano utili.
Non devono muoversi a branchi. Forse non sono come i lupi, dopo tutto, forse più come i grandi felini. Ne basta uno ogni tot mila battute, di più distruggerebbero il loro ecosistema-testo. Ma qualcuno, ogni tanto, che male può fare? Di più, non è che uno ogni tanto sia anche bello da incontrare, come il fugace passare di una tigre? In due tigri nessuno vorrebbe imbattersi, ma avvistare una singola tigre che si aggira nella foresta...
Quando leggo cose come si sistemò gli abiti in modo affrettato o i libri posati in modo disordinato mi irrito. Perché mi sembra evidente che l'autore o il traduttore, terrorizzato all'idea di incappare nella tigre, abbia preferito evitare. Mettendo due parole invece che una. Ecco, a me mettere due parole invece che una non piace. Non se posso evitarlo. Per non fare una ripetizione quasi tutto è lecito, ma così, gratuitamente
Avrei potuto scrivere, è ovvio, in modo gratuito. O cercare un'altra perifrasi, o magari un'altra parola. La lingua italiana, però, mi offre gratuitamente. Se esiste, avrà uno scopo. Ad esempio stare qui, in questo post (esempi a parte dovrebbe essere l'unico).
Sta così male? È così irrimediabilmente cacofonico? Ecco, forse irrimediabilmente potevo evitarlo. Quello l'ho messo per simpatia. Lo ammetto, come i lupi e le tigri gli avverbi in -mente mi stanno simpatici.
Considerateli animali pericolosi, ma rari, da salvaguardare. Hanno bisogno di un habitat arioso e sono bestie solitarie, quindi hanno bisogno di un ampio testo intorno senza competitori. Sono ingombranti, pericolosi, come le tigri.
Voi cosa ne pensate? Non sarete per lo sterminio, spero...