domenica 24 aprile 2022

Le cose crollano - l'alba della letteratura africana moderna


 Non finirò mai di ringraziare il gruppo di lettura che quasi ogni mese mi butta fuori dalla mia confort zone e mi porta a leggere libri che non solo io da sola non avrei mai scelto, ma di cui a volte ignoravo persino l'esistenza. A volte mi schianto contro queste letture come una canoa sugli scogli, a volte mi si aprono dei mondi. Questo è un libro del secondo gruppo.

Chinua Achebe
Le cose crollano 

Appare nel 1958 questo romanzo che, pur essendo scritto in lingua inglese, racconta per la prima volta al pubblico occidentale cosa sia stato per un villaggio del corso del Niger l'incontro con la cultura europea.
Chinua Achebe scriveva, io credo, principalmente per la propria gente, per raccontare un mondo ancora vivo nella memoria dei più anziani, ma destinato a sparire per sempre, sostituito non solo dalla modernità, ma, sopratutto, da una narrazione eurocentrica. Quel tipo di narrazione che dice in primis agli africani stessi, che gli europei hanno portato la civiltà e la scienza facendoli uscire da uno stato di natura primitivo in cui vivevano come animali.

Achebe ci porta quindi in un villaggio igbo dove facciamo la conoscenza con Okonkwo, un personaggio sfaccettato e tutt'altro che primitivo. Figlio di un uomo debole e povero, Okonkwo vuole infatti diventare uno stimato capo villaggio, essere un emblema di successo e virilità. È ossessionato dall'idea di mostrarsi debole ed è quindi inflessibile con tutti, anche con se stesso. È violento con le mogli, ma allo stesso tempo ama teneramente la figlia più cagionevole, è incline a scoppi d'ira, ma si sottomette senza proteste alle leggi del clan. Seguendo l'ascesa di Okonkwo entriamo nel suo mondo. Si tratta di una società tribale perfettamente funzionante. Il mondo degli uomini e quello delle donne hanno sfere d'influenza diverse. Coltivazioni maschili e coltivazioni femminili, culti e leggi differenziate. Una società che non si può definire "primitiva", ma è stratificata e complessa. Ha durezze difficilmente comprensibili per noi, i gemelli che vengono abbandonati nella foresta, le dispute tra clan risolte con il sacrificio di un ragazzo. D'altro canto una donna maltrattata può ricorrere contro il marito o anche ripudiarlo. Il tocco del grande scrittore fa sì che tutta questa parte non sia per nulla noiosa. Il romanzo conta meno di duecento pagine, e l'autore riesce a prendere il lettore per mano e fargli percepire come assolutamente naturale il mondo di Okonkwo. I numerosi termini in lingua igbo sono ben contestualizzati e quasi non è necessario utilizzare il glossario finale.

A causa di un omicidio involontario Okonkwo rimane in esilio sette anni. Al proprio ritorno scopre che i missionari bianchi sono giunti nel suo villaggio. E le cose crollano.
I missionari, esattamente come gli abitanti del villaggio, sono sempre descritti come individui. C'è chi cerca di capire la cultura locale, chi si pone come autorità superiore, chi impone leggi che neppure vengono spiegate. Non è uno scontro violento, non è un'invasione. E tuttavia le cose crollano ugualmente. Tutta la società tradizionale si basava sul sacro, erano gli dei e gli oracoli ad amministrare la giustizia e a regolare i conflitti. Se la sfera del sacro viene messa in discussione anche la violenza non è più arginata. Crollano i tabù. Persino il serpente sacro può essere ucciso. Achebe è molto attento a non distribuire merito o colpe. I gemelli vengono salvati, i fuori casta vengono accolti nella chiesa, ma tutta la società tradizionale non può che soccombere, e Okonkwo con essa.

La lettura di questo romanzo mi ha profondamente affascinato e ne è evidente l'importanza storica. È stata la prima volta che nel panorama letterario in lingua inglese un africano raccontava la propria gente dal proprio punto di vista. I personaggi de Le cose crollano non sono eroi, non sono vittime e non sono selvaggi. Sono semplicemente persone, esponenti di una cultura altra che finirà schiacciata dal colonialismo. Il tutto è raccontato con una prosa estremamente scorrevole e moderna. Tutti noi del gruppo di lettura abbiamo approcciato il libro con un certo timore. L'età del testo e la distanza culturale ci faceva temere in classico "mattonazzo" e invece ce lo siamo bevuti tutti d'un fiato. Achebe è un grande scrittore, di quelli in grado di rendere accessibile qualsiasi narrazione. A tutto si aggiunge l'urgenza comunicativa. Abbiamo discusso sull'intento dell'autore. Probabilmente ne aveva più di uno. Achebe scrive negli anni '50 di eventi di sessant'anni prima, di un mondo già scomparso di cui stavano sparendo gli ultimi testimoni. C'è, per certi versi, la stessa urgenza delle testimonianze della seconda guerra mondiale, la consapevolezza che quello era l'ultimo momento utile per raccontare qualcosa di cui si rischiava di perdere la memoria per sempre. È un libro necessario. Lo era quando è stato scritto, ma lo è ancora.

Voi lo avete letto?
Che rapporto avete con la letteratura africana?


Se invece volete leggere qualcosa di decisamente più disimpegnato, ecco il nuovo capitolo de L'assedio degli Angeli

martedì 12 aprile 2022

Caro scrittore che per la prima volta stai partecipando a un concorso letterario


 Caro scrittore che stai per mandare il tuo racconto per la prima volta a un concorso,

Come vedi ti chiamo "scrittore" e non "aspirante scrittore", perché lo sei già. Lo so che lo sei già. Dobbiamo solo accorgercene noi. Con noi non intendo un noi generico "noi lettori" ma "noi pre giuria dei concorsi letterari". Chi siamo?

Siamo il tuo primo ostacolo da superare, quelli che dobbiamo stabilire se il tuo racconto non sia l'uno su mille che ce la fa, ma l'uno su dieci/venti/trenta che ha la possibilità di farcela.

Il concorso a cui stai per spedire il tuo racconto non ha una pre giuria? Cambia concorso.

Devi sapere, dunque, che i concorsi seri sono conosciuti come tale e quindi la gente partecipa. A centinaia. A diverse centinaia. Serve quindi che qualcuno inizi a separare il grano dalla pula in modo da arrivare a una rosa di finalisti (cinque, dieci, venti, dipende dai casi e dai concorsi) tra i quali la giuria, quella vera e spesso titolata, sceglierà il prescelto. L'Eletto. Siamo, quindi, il livello 1 del videogioco, il mostro appena fuori dalla locanda, il primo ostacolo che il tuo racconto dovrà superare. Per quanto il goblin zoppo sia molto più trattabile di un drago, è comunque il primo mostro da superare. Non lo puoi eludere o ingannare. E anche la sua affettacani arrugginita (tipica arma in dotazione al goblin zoppo) i suoi danni li può fare. Quindi lascia che il goblin stesso ti dia qualche consiglio.

La grammatica ti è amica. Hai la grande idea innovativa? Benissimo. Facciamo dal secondo racconto. Magari anche dal terzo. Tutti i pittori d'avanguardia sono partiti dall'accademia. Lo so, la colpa è nostra, non della tua geniale istanza di rinnovamento della lingua. Ma capiscici. Al centoquattresimo racconto ci parte l'embolo al terzo congiuntivo sbagliato. Di fronte alla punteggiatura atipica non riconosciamo il genio. I nostri vicini, però, potrebbero riconoscere la bestemmia.

È questo il concorso che stai cercando? Cioè, è molto interessante la tua introspezione esistenziale che parte da quella volta che ti sei reso conto di essere andato al lavoro con i calzini spaiati. Ma se il concorso è sul giallo devi darci un giallo. Al centosessantesimo racconto il mistero del calzino scomparso e tutta la sua metafora dello smarrimento interiore ci prende poco. Siamo gente grezza. Se il racconto è horror dacci un horror, se è fantascienza, fantascienza. Siamo gente gretta, che predilige l'ovvio e il prevedibile. Certo. Ma comunque da noi dei passare.

Qual è l'occhio che sta guardando? Chi racconta la storia? Tu? Il demiurgo onnisciente che sta sopra le pagine? Benissimo. Un narratore impersonale che segue i personaggi come un documentarista neutro che deve guardare il leone inseguire la gazzella senza tifare per l'uno o per l'altro e senza conoscere l'esito della caccia? Benissimo. Siamo dentro la testa di un personaggio e guardiamo il mondo con i suoi occhi nonostante la terza persona? Benissimo. Siamo il personaggio, è il suo sguardo che vediamo, la sua voce che sentiamo, in una sorta di estatica comunione mistica? Benissimo. Ma il minestrone no. Le montagne russe narrative in cui da dio onnisciente in tre righe ci incarniamo in uno sguardo per poi rifletterci in un altro e infine frammentarci in infinite identità? Grazie, no. Lo so, lo so, ci sono sperimentazioni, ci sono grandi scrittori. Facciamo al secondo racconto, dai. Questa volta no.

Dacci un finale che sia un finale. Il finale aperto, apertissimo, in cui sta al lettore capire chi è l'assassino, fino magari a sospettare di essere lui stesso il carnefice? Bello, ma facciamo al prossimo. L'horror vago e inquietante, così vago e inquietante che forse c'è un mostro in cantina, forse in cantina c'è un cimitero indiano, forse la cantina esiste solo nella mente del personaggio, forse il personaggio è la cantina, forse il lettore alla fine deve capire di essere una cantina? Bello, ma facciamo al prossimo. Il super paradosso temporale in cui forse il figlio ha partorito il nonno, l'uomo del futuro è stato l'avo fondatore che ha inseminato un ominide per dare origine ai sapiens, ma magari è tutto un sogno dovuto alla peperonata? Bello, ma facciamo al prossimo. Non è un racconto, ma il primo capitolo della tua grande saga in dieci volumi in cui tutto sarà chiaro all'ultima pagina delle cinquecento tre del tomo conclusivo? Abbi pazienza. Un racconto è un racconto, una cosa piccola e finita in sé. Può avere tante chiavi di lettura, un finale moderatamente aperto, ma non può essere un antipasto di un banchetto che non mangeremo mai. Siamo gretti e limitati, dici? Beh, cosa ti aspetti da un globlin zoppo?

Dacci una storia, uno sguardo o un personaggio. Possibilmente tutto di questo, ma almeno una cosa. Cosa ci rimane in testa a lettura finita? Cosa ci farà ricordare proprio il tuo racconto tra le centinaia? Basta un guizzo, un lampo d'emozione, un personaggio per cui tifare, un motivo per girare pagina. Perché ti dirò la verità. Al duecentosedicesimo racconto siamo stanchi. La tentazione di leggere solo le prime dieci righe è enorme. Siamo pigri, dici? Beh, siamo al duecentosedicesimo, direi che siamo stanchi. Siamo umani. Quindi se il tuo genio sta nel narrare la noia in modo noioso, beh, forse riuscirai ad annoiarci. Tieni desta la nostra attenzione e forse riuscirai a passare.

Dopo tutto noi siamo goblin zoppi un po' particolari. Quello che desideriamo è essere sconfitti da un racconto degno. Che ci rimanga dentro anche mesi, anni, dopo la lettura. Qualcuno a cui inchinarci e da far passare. Qualcuno di degno di andare ad affrontare i draghi.

Buona fortuna!



Piccole note finali per i lettori abituali.

Portate pazienza, ho poco tempo per tutto, compresa la web sfera. Vi penso, vi leggo anche se spesso non commento.

Per chi volesse, ecco un nuovo capitolo (ancora non passato al vaglio di nessun goblin zoppo) de L'assedio degli angeli