Lunedì qui in Piemonte iniziano le scuole. Il mio futuro lavorativo è ancora incerto, anzi direi che non si capisce nulla. Per la prima volta c'è la speranza di avere l'ambito ruolo (chi sa dove, però...), ma anche la paura di aver ancora una volta perso il treno giusto. Insomma, c'è più delirio del solito. Quindi, almeno per il fine settimana, spostiamoci in un altrove!
Quello che segue è un mio racconto molto, molto vecchio, sicuramente ingenuo, ma che sento ancora mio. Buona lettura.
ELISANDRE
Pane, croste di formaggio e, annusò con cura, carne. Sì. Ossa con ancora del buon lesso attaccato.
Attese che le luci sparissero, poi si intrufolò nel buco tra le assi della cinta. Cauta, si appiattì dietro una siepe, in attesa di individuare la ciotola. Eccola là, vicino al muro, appena riempita dalla donna grassa. C’era un unico problema, dalle dimensioni della ciotola anche il cane doveva essere grosso, molto grosso.
- Grrr… Grrrr…
Appunto.
Si girò di scatto. L’animale era già lì, tutto denti e bava.
- Aishante! – disse usando l’unica Parola che conosceva, l’ultima in assoluto che le era stata rivolta.
Trattenne il fiato, ma anche questa volta funzionò. Il cagnone si afflosciò, addormentandosi all’istante. La ciotola era sua.
***
- Non riesco proprio a capire.
La padrona della locanda, tutta rotondità e sorrisi, era di quelle che non riescono a fare nulla se non accompagnate dal suono della propria voce. Morn se ne era già accorto la sera prima, quando la cena gli era stata servita con contorno di commenti sul clima, i briganti e la politica dell’impero.
- È la terza volta che trovo Ringhio addormentato – diceva adesso, mentre gli porgeva il pane. –Devo scuoterlo per svegliarlo. A che serve, dico io, un cane da guardia se poi quello dorme?
Morn prese il pane e non disse nulla, sorridendo alla stanza in generale. La quale, nelle persone di altri sei o sette avventori, non ricambiò. La gente era abituata a diffidare da chi viaggiava armato di tutto punto, con tanto di spada, e, se il simbolo del Tempio sul medaglione che portava al collo poteva essere una vaga rassicurazione, era troppo vaga. Lui scosse il capo e tornò alla colazione.
Ringhio, però, non aveva pregiudizi: venne a scodinzolargli appena fuori dalla locanda. Del cane da guardia, nonostante la mole, non pareva avere l’indole, placido e ciondolante com’era. Morn aggrottò la fronte. Troppo ciondolante. Sembrava ubriaco, o drogato.
Mi sono assuefatto all’intrigo. Se qualcuno avesse drogato quella notte il cane per entrare in casa e rubare, la padrona se ne sarebbe già accorta. E lo avrebbe fatto sapere a tutti.
Il suo cavallo, invece, era in perfetta forma, confermando l’ottima impressione che la stalla gli aveva fatto la sera prima.
- Ah, signore, siete voi – lo raggiunse il proprietario. – Se non avete fretta, per domattina vi sistemo quel ferro.
- Sto tornando alla Casa del Tempio, a Tear-Nil, non ho fretta, sarà un piacere fermarsi un giorno - Senza omicidi.
Poi, per puro riflesso, chiese:
- Avete subito furti, negli ultimi giorni?
- Furti? No, grazie al Cielo. Spariscono solo le fragole, nel mio orto. Mia moglie dice che è uno spiritello – rispose l’uomo e subito impallidì.
Farsi servire da spiritelli era una prova di stregoneria e negli ultimi tempi gli inquisitori si erano fatti un po’ troppo solerti. Negli occhi dello stalliere si leggeva chiaro in dubbio: il paladino non poteva interpretare la sua frase come…
Morn non era interessato ad interpretare alcunché. Si limitò a ringraziare, dare una pacca al cavallo e uscire.
Era stanco. Tre settimane di inchiesta sulla morte della duchessa d’Erkos con due inquisitori dal rogo facile lo avevano stremato. Un giorno di riposo sarebbe stato davvero un piacere.
L’estate si era adagiata placida sul villaggio dai tetti di paglia tra i colli e il torrente. Era la stessa indolenza feconda di api e di frutta delle estati della sua infanzia, lassù alla tenuta.
Un ragazzetto dai calzoni strappati e una bambinetta immusonita uscirono di corsa da un cortile inseguendo un’oca sfuggita al controllo. Morn rimase ozioso a guardarli, poi, vedendo dove si dirigevano, trattenne il fiato. Non verso il fiume! Riuscì a trattenersi dall’urlare. I bambini avevano agguantato la starnazzante fuggitiva ben prima della riva e il torrente era talmente basso e sonnolento da non costituire alcun pericolo.
***
Allungò la mano e sfiorò le dita bagnate, ma solo le gocce rimasero chiuse nel suo pugno.
- Elisandre!
Morn si trovò con gli occhi sbarrati nella sua stanza, alla locanda, con tutte le lenzuola buttate per terra. Ricadde sul cuscino, sperando di non aver urlato e strinse il medaglione.
Morn Allen d’Alkeidos, paladino del Tempio. Tutto quello che era da pagare è stato pagato, tutto quello da perdonare, perdonato.
Cercò di ascoltare dentro di sé la voce del Padre Superiore, ma il suono arrivava confuso, poco confortante.
Sconfitto, si alzò in piedi. Aprì la finestra e lasciò che l’aria della notte gli schiaffeggiasse il viso.
Nel cortile sotto di lui, Ringhio pattugliava il territorio. Morn lo intravide correre verso il cespuglio di camelie e poi arretrare, perplesso. Si udì un sibilo e l’animale cadde a terra.
Una piccola sagoma nera attraversò il cortile.
Il cane russava, colando bava dalle fauci semi aperte. Acquattato dietro la camelia, Morn scrutava l’intruso intento al suo pasto furtivo. Poi, mentre la creatura (un demone? Uno spiritello?) spolpava un osso, si mosse per catturarla.
La sagoma si girò di scatto.
- Aishante! – gridò una vocetta acuta.
Rapido, Morn strinse il medaglione. La rosa che vi era incisa brillò per un istante.
- Non funzionano i tuoi trucchi con me – commentò l’uomo, brancando la creatura, che, dal canto suo, scalciò e morse tutto ciò che gli capitò a tiro.
Almeno non è un demone.
Se un demone avesse azzannato con tanto impeto il suo bracciale, gli avrebbe spezzato l’osso. Invece l’essere si ritrasse, disgustato dal contatto col metallo. In quel momento la luce crescente dell’aurora illuminò il volto scuro, sporco e contratto di una bambina di forse cinque anni.
- Aishante? – mormorò il paladino, perplesso, facendo attenzione a non conferire potere alla Parola.
- Dormi! Perché non dormi? – gridò la bimba, al culmine della frustrazione, con una vocetta roca e incerta.
Gli occhi azzurri erano carichi di lacrime.
Alla fine fu Morn a rubare in cucina una fetta di torta che la bambina, legata ad un albero, divorò in un battito di ciglio.
In tutti i suoi quarant’anni, Morn non aveva mai visto un tale connubio di volontà e disperazione. Né aveva mai incontrato una bambina sotto i dieci anni in grado di usare la Lingua, neppure tra i Coyranà. La piccola, sotto i brandelli di quella che era stata una delle vesti rosse dei nomadi, era di una magrezza estrema. Sotto strati di sporcizia vi erano graffi che si stavano cicatrizzando, ma la rabbia che bruciava negli occhi di zaffiro era lungi dall’essersi calmata.
Se questa furia conoscesse una parola di morte, potrebbe usarla!
Ma, evidentemente, conosceva solo quella per addormentare, che tentò un altro paio di volte di scagliare contro il paladino.
- Come ti chiami? – le chiese Morn, quando lei ebbe finito di spazzettare la torta.
- Avwiarymel.
Sterminatrice, nell’antica lingua Coyranà.
C’era da aspettarselo.
In quel momento la porta della locanda si aprì e la padrona uscì ad attingere l’acqua.
- Ringhio, Ringhio! – chiamò, cercando il cane.
– Lasci dormire la sua bestia - la fermò Morn. - Ho trovato il colpevole dei suoi sonnellini.
La donna si girò verso il paladino, poi il suo sguardo cadde sulla figuretta magra legata alla quercia e urlò.
- Una strega!
- Una strega?
Forse una potenziale, la più malmessa che Morn avesse visto.
- La guardi, pelle e capelli scuri, occhi chiari. È una strega Coyranà, uccidetela subito, finché lo si può fare.
Morn sbatté gli occhi. Certo, tra i nomadi Coyranà la magia scorreva forte e questo aveva indotto qualcuno ad approfittarne, scatenando la paura della gente. E la campagna contro la stregoneria che gli inquisitori stavano conducendo non era certo un inno alla tolleranza.
Maledetti inquisitori.
Alle urla della locandiera, alcuni degli ospiti si erano affacciati dalle finestre e tre vicini facevano capolino dalla recinzione. Tutti guardavano il cucciolo di strega.
- Vanno uccise da piccole, prima che possano uccidere noi!
- Signora, è una bambina – ribadì Morn, esasperato.
- Per ora – commentò un vicino.
- Hanno fatto bene quelli di Fontescura, gliela hanno proprio fatta vedere ai sudici nomadi che si erano accampati da loro.
- Ah. – fece Morn.
- Bruciamola, è così che vanno trattate le streghe, no?
La piccola sterminatrice, intanto, se ne stava appiccicata alla quercia, gli occhietti azzurri sbarrati. Morn fece un passo indietro, per mettersi proprio davanti a lei.
- Bene, signori – disse, con una mano sull’elsa della spada. – Sono un paladino del Tempio e mettersi contro di me è eresia. Qualcuno vuole provare?
***
- Lasciami andare! – gridò la bambina.
- Sicuro, appena troviamo un posto per farti il bagno.
Dove la corrente non sia forte…
Quella di Morn era stata una ritirata in piena regola. Con la spada tra lui e i villici era arretrato fino alla bimba, che si era caricato in spalla. Così, con il fagottino scalciante sulla schiena, era riuscito a guadagnare la stalla e il cavallo. Adesso che l’idilliaco villaggio era lontano, alla piccola urgeva un bagno. Nelle leggende, le pulzelle da salvare non puzzavano mai.
Alla fine trovarono una polla al giusto grado di sonnolenza e la piccola sterminatrice fu inzuppata e strigliata a dovere.
- Allora, da dove vieni, bonsai di strega? – le chiese, dopo averla asciugata e rabbonita con una striscia di carne secca.
- Non lo so. Da in giro. Andavamo in giro con le tende.
- Che ne è stato della tua famiglia? – riprovò Morn.
La bimba si incupì.
- Eravamo rimasti in pochi – disse infine. – Solo io, mamma e i nonni. Con gli zii avevano litigato, non erano voluti venire a sud. Ci eravamo accampati nella radura vicino al villaggio, come sempre. Una notte mamma mi ha svegliato. Si sentiva rumore e lei diceva che erano zoccoli. Poi mi ha detto che dovevo nascondermi tra i cespugli. Subito. Io non volevo lasciare Tippy, la mia bambola, e la mamma si è arrabbiata. Mi ha detto la Parola, quella che fa dormire.
Mi sono svegliata che era giorno ed ero sotto i cespugli. Continuavo a tossire e c’era fumo. Il campo stava bruciando. Credo che siano bruciati tutti, i nonni, la mamma e Tippy. Ho urlato, ma non è venuto nessuno. Sono scappata via, non volevo bruciare.
Anche gli altri, prima, mi volevano bruciare. Perché?
- Nessuno ti brucerà. Non lascerò che lo facciano – disse Morn.
Rispondere alla domanda era troppo difficile.
La bambina annuì solennemente alla promessa e poi si raggomitolò come un gattino esausto nella coperta che lui le aveva dato.
Morn rimase a guardarla. Avrebbe dovuto trovarle una bambola. Una casa. Avrebbe dovuto trovarle una casa. E una bambola. Morn ricordava che Elisandre non faceva un passo senza la sua bambola.
Tre giorni dopo, quando giunsero al monastero, la bambina aveva fatto amicizia col cavallo e sedeva in sella davanti a Morn con in mano Tippy due. Era solo un sasso ricoperto di stoffa su cui erano stati disegnati due occhi e una bocca col carbone, ma se la bambina l’aveva promossa a bambola, bambola era.
Morn lasciò la Sterminatrice a guardia del cavallo, nel cortile, e andò a parlare con i monaci.
- Un’orfanella Coyranà, certo che l’accoglieremo, abbiamo già in cura una decina di bambini. – disse il priore, un vecchio incartapecorito come un fico lasciato troppo al sole.
- Credo abbia una certa predisposizione per la magia. Vorrei che avesse la migliore educazione, vi farò avere i fondi necessari.
Il fico secco annuì
- Se è cresciuta con gli eretici, la nostra prima preoccupazione deve essere quella di epurarla di ogni comportamento deviante.
Epurarla?
- È una bambina.
- Per questo confidiamo di riuscire a salvarle l’anima.
In cortile, la bimba osservava perplessa gli orfanelli dai capelli rasati che, nei loro grembiulini neri, seguivano in fila per due un monaco verso una cappella. Morn le si avvicinò e si abbassò fino ad avere gli occhi alla sua altezza.
- Questa sarà la tua nuova casa, piccola.
Lei sbatté gli occhioni.
- Non ho mai avuto una casa, non la voglio.
- Ti farai degli amici, qui. Ti tratteranno meglio di quanto potrei fare io.
Lei gettò un’occhiata agli orfanelli che entravano nella cappella.
- Amici?
- Devo andare – disse Morn.
Si alzò in piedi e, mentre lo faceva, la bimba tese la mano verso di lui, proprio come aveva fatto Elisandre in giorno in cui erano andati a giocare lungo il fiume, nonostante il divieto dei genitori, e lei era scivolata nell’acqua.
Erano trent’anni che ogni notte Morn cercava di afferrare quella mano e non vi riusciva.
Senza guardare la bambina, sistemò la sella, salì a cavallo e uscì dal cortile.
Riuscì a percorrere quasi un miglio.
Tutto quello che era da pagare era stato pagato. Ah, sì?
Adottare un’orfanella, scoprì Morn, era più facile che affidarne una ai monaci. Era anche arrivato in tempo per salvarle i riccioli.
- Mi hanno tolto Tippy! – gridò lei, mentre allungava le braccia e lui gliele afferrava forte con entrambe le mani.
- Te ne troverò un’altra, più bella – Assicurò il paladino, mentre la issava in sella.
Quella sera, quando si accamparono, Morn posò le mani sulle spalle della bambina e la guardò dritta negli occhi.
- Se vuoi stare con me, - disse – devi avere un nome che io possa pronunciare.
Elisandre.