Fb ha finalmente scoperto che sono diventata mamma.
Dico finalmente, perché prima, basandosi sui miei interessi aveva stimato la mia età intorno ai 98 anni e mi proponeva, come "post sponsorizzati" metodi per tenere il cervello attivo nonostante l'età, rimedi ai malanni della vecchiaia, consigli su come non rompersi il femore, per non parlare delle pubblicità delle case di riposo (giuro).
Ora invece, dopo un momento in cui mi ha preso per una direttrice d'orchestra (!), pubblicizzandomi corsi d'aggiornamento e riviste specializzate, mi propone ogni sorta di articolo di pedagogia. Grata del cambiamento, li leggo avidamente, senza negarmi i commenti degli altri utenti.
Lì, come altro e non solo per quanto riguarda i pupi, vedo un grande ritorno del "era meglio una volta".
Era meglio una volta quando i bambini erano seguiti dalle mamme, che stavano a casa e avevano tempo da dedicare.
Era meglio una volta quando giocavano nei cortili.
Era meglio una volta quando si mangiavano cibi più sani.
Era meglio una volta quando i maestri si facevano rispettare.
Era meglio una volta quando tutte queste "malattie" (di solito si parla di disturbi specifici dell'apprendimento) non c'erano.
Come dicevo non riguarda solo l'educazione dei pupi. Il "era meglio una volta" sembra un mantra tornato di moda (o forse non era mai passato di moda, ma ora sono più sensibile).
Ma siamo sicuri che fosse davvero meglio una volta?
La premessa a questo discorso è che forse la mia ottica è sfalsata dal fatto che io vivo in campagna. Le mie amiche di città in effetti mi raccontano di bambini che non sanno più giocare all'aperto e non sanno come sia fatta una mucca. Io vivo in paese, i bambini giocano a calcio per le strade o nei cortili, rimaniamo bloccati dai greggi in transumanza e compriamo carne e formaggio dal pastore. Quindi mi assumo la responsabilità di parlare da una posizione che non vive (per scelta) alcune problematica.
Comunque...
Era meglio una volta?
Innanzi tutto una volta quando?
Negli anni '70/'80 quando le isole pedonali non esistevano, le auto erano più inquinanti, l'aria era peggio di adesso e le norme in fatto di additivi alimentati erano meno restrittive? Negli anni '70/'80 ci siamo mangiati le peggio cose, sguazzavamo nell'inquinamento assai più di adesso. Ne eravamo meno consapevoli, quello sì. Molte delle famiglie avevano già entrambi i genitori lavoratori e quindi le cure che questi potevano dare ai pargoli erano più o meno le stesse di oggi. Meno, perché gli elettrodomestici erano meno e meno efficienti, quindi la casa dava ancora più da fare alle madri. Da bimba degli anni '80 posso dire che si passava da un estremo all'altro, dalla riproposizione di modelli pedagogici obsoleti all'introduzione di nuovi modelli in modo un po' troppo ideologizzato (sono figlia di una femminista militante che mi ha cresciuto secondo le sue convinzioni, so di quello che parlo). È questo il periodo in cui "era meglio"?
Le famiglie degli anni '50 e '60 hanno creato il '68 e i ragazzi di quella generazione hanno espresso fin troppo bene il disagio per il modo in cui erano stati cresciuti...
O forse parliamo di un passato più sognato che vissuto, idealizzato, l'indefinita "epoca dei nostri nonni"?
Ecco, allora guardiamo con un occhio un poco più storico come sono cresciuti i nostri nonni.
Mi baso sulla mia storia famigliare, ma solo perché, complice una madre borghese fuggita con un operaio, così ho un campione assai diversificato.
I miei nonni paterni erano contadini poveri. I bambini crescevano senza padre, perché i padri andavano a lavorare lontano come manovali. In Svizzera o in Germania se andava bene, se no oltre oceano. Alla faccia dell'indispensabile della figura maschile di riferimento. I paesi erano popolati quasi solo da donne e da bambini (già allora le donne vivevano di più, quindi di nonni erano rarissimi), gli uomini tornavano a casa una/due volte l'anno e ripartivano.
Le donne dovevano farsi carico della casa, degli animali domestici e dei campi. I bambini, una volta svezzati, erano lasciati per lo più a loro stessi e alla cura di quelli più grandi. Più grandi e più responsabili assai relativamente, mia nonna è rimasta famosa per la sua affermazione "io il fratellino lo curo, ma poi quando lo mangiamo voglio la parte migliore". A quattro anni potevi badare alle oche, poi passavi alle capre e alle mucche. Chi viene da un'infanzia simile la ricorda bellissima. Salvo poi ricordare anche gli amichetti morti, di malattia o incidente.
Io la frase "meglio un figlio morto che la mucca morta" l'ho sentita raccontare da mio nonno, che si vantava (giustamente) di aver cresciuto tutti e cinque i figli. A nessuno delle generazioni precedenti era andata altrettanto bene. Inutile dire che l'istruzione era un fatto del tutto secondario, cosa che non permetteva a nessuno di cambiare vita. Non era cattiva volontà, tutt'altro, mio nonno si è stremato per far studiare almeno l'ultimo figlio, ma per quelli prima vigeva la regola (sacrosanta) che appena possibile bisognava contribuire alle necessità della famiglia. Mio padre, che pure legge moltissimo e si è dato un gran da fare per colmare le sue lacune, soffre tutt'ora per questa istruzione mancata che lo ha posto per tutta la vita in una posizione di inferiorità rispetto a chi poteva vantare un titolo di studio.
La famiglia di mia madre era, prima della guerra, altoborghese (poi la ditta è fallita e i sopravvissuti sono tornati tra i comuni mortali).
I padri si occupavano del lavoro, erano figure autoritarie e distanti. Di mamme amorevoli i ricordi di nonni e prozie ne rammentano pochissime. I figli dovevano. Dovevano essere all'altezza dei padri e portare avanti il buon nome della famiglia. I figli maschi andavano in collegio, le figlie femmine avevano un'istruzione minima, perché oltre non serviva (mia nonna materna e mio padre avevano rimpianti simili riguardo allo studio) e dovevano prepararsi alla loro vita da adulte. Se c'era più di un figlio e/o più di una figlia qualcuno doveva per forza diventare prete o suora. Mia nonna ricordava con tristezza la sorella morta di tetano, ma la sua morte era anche legata allo scampato pericolo del convento, mentre di suo fratello a volte commentava che era un peccato fosse l'unico maschio, perché se la sarebbe cavata meglio come prete. La scelta data ai figli sul loro destino era tra il minimo e il nullo.
Quanto a mio nonno, i suoi ricordi del collegio rivaleggiano con le più angoscianti pagine di una certa letteratura per ragazzi. In uno ha rischiato la morte per polmonite a causa del freddo e della cattiva alimentazione che, a detta dei preti che gestivano il posto, dovevano temprare il suo fisico e il suo carattere. Essendo lui l'unico figlio di un industriale è stato recuperato dalla famiglia... Solo per essere spostato in un altro collegio (però al mare, dove il clima gli avrebbe giovato)!
È chiaro che generalizzare non fa bene, sicuramente ci sono state famiglie amorevoli e felici che hanno cresciuto ottimamente i loro figli. Di certo nella famiglia di mio padre, nonostante le carenze alimentari (la pellagra era assai diffusa) e i pericoli di una vita così brada i figli erano più felici e si sentivano più amati.
Però, ecco, è questo il "Una volta" di cui stiamo parlando?