lunedì 29 luglio 2019

Morali alternative per fiabe classiche


Mentre l'estate avanza, le vacanze, finalmente, si avvicinano, il cucciolo d'uomo cresce e si inoltra nell'età della fiaba.
In auto ascoltiamo l'audioracconto de La bella addormentata, mentre a casa va forte il libro di Biancaneve, insieme a Cappuccetto Rosso, la prima che ha amato, e Il gatto con gli stivali, che ho scoperto di non aver mai conosciuto davvero prima.

Racconto dopo racconto, è sempre più difficile bloccare l'intervento non richiesto del marito, che si diverte a escogitare morali alternative per le fiabe, politicamente scorrette e irriverenti.
Eccovene una selezione.

La bella addormentata
Morale 1° – ricordati sempre di invitare alle feste anche chi ti sta antipatico.
Morale 2° – tieniti lontana dal lavoro, sempre. Se avesse oziato, invece che provare fuso e arcolaio, Aurora non si sarebbe fatta nulla.

Cappuccetto rosso
Mastica sempre bene ciò che mangi, la nonna tutta intera e viva nello stomaco non è stato un affare.

Biancaneve e i sette nani
Morale 1° – Se vuoi ammazzare qualcuno serviti di un professionista e non di un cacciatore al risparmio.
Morale 2° – Avvelena sempre bene le tue mele

I tre porcellini
Tutto quel parlare di paglia e di legna è un invito alla porchetta.

Hansel e Gretel
Con tutto quell'investimento in mazapane ci stava anche un paio di occhiali e i marmocchi non te la facevano con un osso di pollo...


lunedì 22 luglio 2019

Storie dell'altra me


Ho pensato un po' a se scrivere questo post oppure no.
Se parlare del mio turpe segreto di scribacchina.
Se fosse interessante condividere qualche ragionamento su questo oppure no.

Allora, il mio turpe segreto.
Negli ultimi ho scritto e pubblicato un sacco di fanfiction.
Perché?
Perché volevo. Perché dovevo, suppongo. Per giocare, provare, sperimentare.

Perché volevo
Perché si scrive una fanfiction? Beh, per creare un seguito a qualcosa che non ce l'ha. 
Credo che sia un desiderio piuttosto comune, prendere una storia che ci piace e immaginarne una continuazione. Io, devo dire, l'ho fatto sempre molto poco. L'ho fatto, in un certo senso, con Sherlock Holmes, andando a riempire quelli che percepivo come dei vuoti narrativi. Di solito, però, se una storia mi piace davvero aspetto un seguito ufficiale, o mi accontento di quello che è dato. Se non mi piace del tutto, mi fa arrabbiare, penso a come la scriverei io, ma da zero, rifacendo da capo i personaggi. 
Con Sherlock Holmes era successa una cosa strana. C'è un vuoto, tra il primo romanzo, Uno studio in rosso e il resto della storia, da Il segno dei quattro in poi. Un vuoto che la mia mente ha riempito alla sua maniera. E poi c'era un gioco codificato di scrittura e riscrittura. Anni fa, quando era uscita la serie Sherlock della BBC, avevo scritto un paio di fanfiction, in parte per giocare e in parte per riempire i vuoti. Una di queste è il primo giallo vero che io abbia mai scritto, con tutto uno studio sull'arma del delitto e le dinamiche. Riletta adesso è imbarazzante, ma, insomma, le cose che nascono dalle fanfiction...
Ormai un anno e passa fa, mi sono imbattuta in questa serie animata, su cui vi avevo tediato. Che mi era piaciuta tanto, che per certi aspetti non mi era piaciuta, e di cui sono abbastanza certa faranno un prequel, ma mai il promesso seguito. Per assurdo non lo faranno mai per colpa del successo della serie stessa. Perché si è compenetrata a tal punto con lo sport che racconta da avere, secondo me, una serie di imprevisti effetti collaterali. Primo non si può reggere due serie animate con solo personaggi che sono tutti delle bravissime persone, ma dato che tutti i personaggi sono ispirati a persone reali (o sono stati nel mentre fatti propri da degli atleti) si finirebbe inevitabilmente per offendere qualcuno. E poi c'è quel bruttissimo affare del fatto i protagonisti sono due lui e alla fine della serie si fidanzano tra gli applausi generali e uno dei due è russo. E alcune ragazze della nazionale russa vanno a fare le gare col peluche del personaggio (quando non è direttamente la federazione giapponese a regalarlo) e continuare quella storia finirebbe per creare degli imbarazzi internazionali, visto come vanno le cose. Insomma, un raro caso di una storia che non può andare avanti in modo dignitoso seguendo le proprie premesse perché troppo di successo  (invece col prequel malinconico pieno di omaggi si caveranno benissimo dall'impaccio). E quindi, nel modo più banale, da ragazzina di quattordici anni, volevo sapere come sarebbe andata avanti la storia. Come sarebbe andata avanti non nel mondo idealizzato del cartone, ma in quello reale. E quindi, in modo infantile, ho scritto il mio proseguo.

Perché dovevo
Perché io ho bisogno di scrivere, di buttare il mio cuore in parole. Perché ero stufa di inseguire gli editori in un momento in cui non avevo il tempo per farlo. Perché se una cosa va fatta, che sia fatta per gioco, nel senso migliore del termine.
Perché non avevo mai scritto una storia di relazioni, sulle relazioni (infatti si vede), con dei risvolti sentimentali e melò.
Perché non avevo mai scritto una storia di sport e questa, seguendo le premesse iniziali, mi serviva su un piatto d'argento le olimpiadi del 2018, quelle dello scandalo doping, con due protagonisti russi. E io, da ex atleta, volevo tantissimo scrivere una storia sportiva con rivalità, ripicche, cattiverie, rispetto, amicizia e tutti i cliché delle storie di sport.
Cavolo. Di amore e di sport non avevo mai scritto. E dovevo farlo.
Ho quasi sempre scritto, in un modo o nell'altro, seguendo strutture. Il giallo. Il fantasy. Regole imparate a scuola. Ma nella fanfiction vale tutto. Perché è una fanfiction, mica devi vincerci lo Strega. E proprio per questo sei libero. Ah, che meraviglia!

Per giocare, provare, sperimentare
Nessuna regola, nessun limite, nessun impegno. Nel senso, se scrivo per lasciare nel mio computer ok, ma se scrivo per far leggere e faccio pagare, anche 0,99 centesimi, mi faccio un sacco di problemi. Finisce che rimango nel mio territorio conosciuto, le strutture che bene o male padroneggio, le storie che so già scrivere.
E quindi mi sono trovata a progettare una serie di storie che, nel corpus principale, si dipanano dal 2015 al 2022, in cui si alternano sei punti di vista, anche se quattro sono quelli base. Personaggi di diversissima estrazione sociale, nazionalità, interessi e psicologia. Personaggi di fatto da fare da zero, perché non è che il materiale di partenza fosse il massimo dello spessore, ecco.
Ambientazioni bloccate, che sono quelle e stop. Da studiare a tavolino, con mappe, cartine, foto, reportage di amici che ci sono stati. Chi non ha mai sognato di ambientare una scena in parco naturale kazako o su una spiaggia coreana?
Storie sportive e quindi bene o male sempre legate a una gara, quindi con orari, tempi, climi il più possibile presi dalla realtà. Che durano il tempo di una gara, quindi tre settimane se sono le olimpiadi, tre giorni o poco più se è altro, ma che devono spesso tener conto che tra una storia e l'altra sono passati anni e quindi ci si inventa strani giochi di struttura.
Non tutto è venuto bene, qualcosa è decisamente venuto male. Di alcune cose sono contenta, altre molto meno. In tutte ho messo tutta me stessa.
Una di queste storie ve l'ho già proposta, ma era una deviazione, un percorso secondario. Era Padrone del tuo destino, che ho proposto quest'inverno, con i nomi tagliati.

Tutto questo mi ha regalato di nuovo una gran voglia di scrivere, di sperimentare, di uscire dai territori conosciuti e di confrontarmi. Insomma, il gusto del gioco per il gioco, che è più bello e più importante di qualsiasi riconoscimento esterno.

E se qualcuno avesse la malaugurata idea di voler leggere una saga sentimal-sportiva basata su personaggi rubati, la trovate qui 

venerdì 12 luglio 2019

Chernobyl, la serie di cui avevamo bisogno – visioni


Lunedì sera è andata in onda la quinta e ultima puntata di Chernobyl, la serie incentrata sul più grande disastro nucleare mai avvenuto ed è stata, per molti versi una visione necessaria.

Chiunque avesse l'età per fissare i ricordi, sa come visse quella primavera del 1986. Io avevo sei anni e una mamma biologa che seguiva le notizie quasi minuto per minuto, discutendo di fatti e ipotesi, guardano male, come tutti, i tetrapack del latte e l'insalata. Quello e il seguente sono stati gli anni in cui mio padre, accanito cercatore di funghi, si è astenuto dalla raccolta. Sono stati i mesi in cui ovunque si discuteva del nucleare a anche a me, bimba di sei anni, sono state date delle informazioni base. Nella mia famiglia mia madre era comunque favorevole al mantenimento delle centrali in Italia e mio padre contrario.
Insomma, ognuno ha i suoi ricordi e per una serie televisiva giocare sulla memoria e il sensazionalismo di un evento così grosso sarebbe stato facile.

Sin dall'aspetto visivo, però, la serie cerca un'altra strada, meno facile e meno ovvia. Gioca al ribasso, creando le sue sequenze migliori a livello registico come in horror a basso budget, con cunicoli stretti e uomini che spalano detriti. La sequenza più angosciante di una serie che poteva giocarsi un'esplosione nucleare svariate volte superiore a quella di una volgare bomba è quella di un uomo che spala dei detriti oltre un bordo. Già questo è notevole. Per vedere il reattore esplodere lo spettatore deve arrivare alla fine della quinta puntata, in quello che potrebbe essere il peggiore degli spiegoni, una puntata che si regge su cartellini rossi e cartellini blu (!) e invece è un crescendo emotivo. 
Chernobyl ha una sua idea molto chiara su ciò che vuole raccontare e su come lo vuole raccontare ed è questa la cosa importante.

Chernobyl è una serie sulla scienza e sulla verità. 
Sulla scienza che è l'unica cosa a cui puoi aggrapparti quando tutto sembra perduto, per limitare i danni. Sulla verità che verrà fuori suo malgrado, perché una somma insostenibile di piccole bugie può creare un disastro epocale.
In un'epoca in cui l'opinione assurge a fatto, già questo mi sembra notevole. Ancora più notevole è la chiarezza espositiva con cui procede. La ricostruzione dei fatti, per quello che posso capirne, è estremamente accurata eppure non è mai pedante, anche quando per forza di cose deve addentrarsi nei tecnicimi. Tutti i comparti tecnici sanno cosa fare per muovere una grande storia senza sminuirla ma rendendola comprensibile.

La narrazione di Chernobyl non si basa sul disastro o sulla narrazione degli eventi, ma sulla narrazione delle scelte. Scelte che non si dividono solo in giuste o sbagliate, ma in fatte con cognizione di causa o meno.
Uno dei personaggi che viene seguito per quattro puntate e con cui non si può non empatizzare è la moglie di un vigile del fuoco che fa ogni scelta sbagliata e suicida possibile, ma non sa di farlo. A ogni inquadratura noi spettatori conosciamo il pericolo, ma lei no e in ogni momento ci chiediamo se avremmo fatto diversamente, se il suo sia coraggio, stupidità o solo ignoranza.
Allo stesso modo il coraggio non viene determinato da quanto un personaggio fa sul momento e sotto stress, ma dalla consapevolezza con cui opera. C'è chi non ha idea di fare cose che lo porteranno a morte certa, chi invece lo sa con precisione e fa lo stesso ciò che va fatto.

Come tutte le storie è anche la storia di persone. Ho apprezzato particolarmente la scelta di estremo rispetto per le varie parti coinvolte. Non viene raccontata solo la cabina di regia per la gestione dell'emergenza, ma i comuni pompieri, le loro mogli, i soldati novellini capitati lì per caso, i minatori arruolati a forza. Certo, questo sfilaccia un po' la narrazione, anche considerando le poche puntate a disposizione, ma permette uno sguardo d'insieme che non si limita ai potenti e a colore che sanno.

Inevitabilmente, a spiccare su tutti sono Legasov, capo della squadra scientifica che deve cercare di rimediare ai danni, e Shcherbina, l'uomo del partito che segue la vicenda. Due uomini grigi, non estranei a maneggi poco chiari, tutt'altro che integerrimi, ma che trovandosi a fronteggiare una possibile apocalisse smuovono l'impossibile per arginare i danni. Ora, questa parte è sicuramente romanzata, ma nei miei ricordi del 1986 c'è anche una domanda insistente "e se il nocciolo dovesse raggiungere la faglia acquifera?". Quello che ho sempre saputo di Chernobyl, quindi, è che è stato terribile, ma avrebbe potuto essere peggio. Che siano o no state queste due persone (probabilmente sono state loro) qualcuno comunque ha smosso l'impossibile per evitare l'apocalisse, sacrificando in primis la propria vita. E trovo giusto che sia dato a queste figure il giusto spazio e che sia chiaro che se Chernobyl può essere letto come un mostro costruito dalla scienza è senza dubbio la scienza che lo ha alla fine in qualche modo domato.

La considerazione estemporanea, invece, è che anche qui si vede come tanto sia così terribilmente casuale. Dopo l'ultimo episodio è stato trasmesso un documentario con un tot di interviste ai sopravvissuti. I sopravvissuti sono solo persone fortunate. Gente che a oltre 30 anni di distanza è ancora viva mentre i loro compagni sono morti tutti, senza che abbiano fatto nulla di più furbo o più prudente. Il caso più clamoroso è quello dei tre volontari che hanno chiuso a mano le pompe sciacquettando nell'acqua super radioattiva. Speranza di vita: 3 giorni. Due sono ancora vivi, uno nell'intervista mostrata sembrava anche in buono stato di salute.
L'altra considerazione estemporanea è perché mai i russi se la siano presa. Ci sono gli incompetenti che hanno portato al disastro, certo, c'è il regime che ha censurato informazioni vitali, ma ci sono tutti quelli che hanno dato la vita per scongiurare il peggio. Non so se il disastro avrebbe potuto accadere altrove, ma alla fine della visione è chiaro quanto peggio poteva essere e a chi dobbiamo essere grati. E questi ultimi sono tutti russi.

Al di là di queste considerazioni mie Chernobyl è una serie che va vista.
Da un punto meramente tecnico, perché c'è una totale unità d'intenti tra i comparti e questo porta a un risultato di estrema potenza.
Perché racconta in modo chiaro un evento relativamente vicino nel tempo, ma che sta iniziando a diventare fumoso nella memoria, con grande rispetto per le parti coinvolte.
Perché ribadisce che non possiamo fare a meno della verità e della scienza.

lunedì 8 luglio 2019

Il metodo del coccodrillo – letture


Napoli è una città triste, dove la sfiga, quanto meno, è democratica. Colpisce tutti, vittime, assassini e detective. Non c'è scampo.

Mi sono accorta di non aver mai letto Maurizio De Giovanni e in particolare la serie de I bastardi di Pizzofalcone, da cui nel mentre hanno tratto serie tv e adattamenti a fumetti che mi sono sfuggiti.
Con occhi ancora vergini, quindi, mi sono avvicinata al "romanzo prequel" della serie. Il metodo del coccodrillo. E mal me ne è incorso.

Non vorrei che questa recensione sembrasse troppo una stroncatura. In parte la colpa è mia. Diciamolo subito, Il metodo del coccodrillo è un buon romanzo. È uno di quei romanzi con un'atmosfera precisa, che lo permea dalla prima all'ultima pagina. In questo caso la tristezza. Quindi in parte la colpa è mia, che non sapevo di avere tra le mani un libro tanto deprimente.
Quello che accomuna tutti i personaggi, ma proprio tutti, è la sfiga. Ognuno ha la sua disgrazia. Il protagonista, Lojacono, è stato trasferito a Napoli dopo essere stato accusato ingiustamente di aver passato informazioni alla mafia. La moglie lo ha piantato da un giorno all'altro per colpa della sua caduta in disgrazia a livello sociale e la figlia non gli parla più. Tra tutti i personaggi è quello messo meglio.
Perché l'indagine è incentrata su un killer di figli unici. Uccide figli di genitori soli. O, almeno, è quello che ho pensato. In realtà non è quello il punto, ma ognuna delle giovani vittime viene da una famiglia già sfortunata di suo in cui almeno un genitore ci ha lasciato o è scappato. A coordinare le indagini c'è una giovane magistrato il cui fidanzato è morto... E non è che possiamo pensare che il killer sia una persona allegra, eh. 
Il tutto in una città grigia e indifferente, una Napoli che non sembra neppure avere il caos movimentato a cui di solito è associata, ha il brio di una città scandinava a fine gennaio. L'unico tocco di vivacità è dato dal ristorante in cui Lojacono va a mangiare, gestito da una donna sorridente. Già immagino le terribili disgrazie che incombono su di lei nei sequel.

Detto questo, non è un brutto romanzo. La parte gialla, una volta capito che il killer non puntava volutamente figli a cui è rimasto un solo genitore, ma questo era un discorso di sfiga più generalizzata, l'ho trovata un po' troppo intuibile e il depistaggio di inserire un piano temporale sfasato rispetto agli altri un po'... Ecco... Amatoriale.
Per il resto nulla da dire. Buona caratterizzazione, scrittura scorrevole. Però, ecco, bisogna affrontare la lettura con i giusti oggetti apotropaici a portata di mano, perché la sfiga è democratica e colpisce tutti. A un certo punto pensi quasi che alle giovani vittime sia andata bene, che hanno smesso di soffrire in fretta...


I BASTARDI DI PIZZOFALCONE

Non paga del primo romanzo, avendo acquistato un volume comprensivo di tre romanzi, sono andata al secondo, I bastardi di Pizzofalcone, in cui Lojacono viene trasferito a Pizzofalcone, insieme a una serie di colleghi di cui i vari commissariati di Napoli volevano liberarsi. Il commissariato di Pizzofalcone è quindi una sorta di lazzaretto per poliziotti in disgrazia e desiderosi di rivalsa.
In disgrazia, appunto. 
Volevo vedere se il trend era cambiato. Ognuno dei bastardi può essere presentato con nome e sfiga. Ora, io sono la prima a dire che ognuno ha i suoi dolori, ma diciamo che qui siamo un po' sopra la media. Anche qua è tutto scorrevole e gradevole, ma, ahimè, la trama gialla non mi ha un gran che colpito per originalità.  Ricca donna triste uccisa da una palla di vetro con dentro la neve finta mentre il marito se la spassava con l'amante. Napoli è grigissima e più piovosa di Edimburgo.

Ora, questi romanzi non mi sono del tutto dispiaciuti. Forse ero io che, visto il successo della serie, mi aspettavo di più.
Il mio volume ne comprende anche un terzo "Buio". Considerata l'atmosfera generale e il titolo, ho lasciato perdere.

lunedì 1 luglio 2019

Storie di getto, storie col contagocce.


Quando scrivo, do sempre l'impressione di scrivere velocemente, di getto. Perché di fatto quello che si vede da fuori è che mi metto al computer e scrivo, per tutto il tempo che ho a disposizione (che di questi tempi può essere dieci minuti, ma va beh). Cambia però il tempo che è passato tra quando ho iniziato a pensare alla storia a quando ho iniziato a scriverla.

Ho finito da poco un racconto che è decisamente contagocce. I primi appunti sono dell'inverno 2017. Adesso è uscito un racconto e ho il sospetto che ci sia ancora qualcosa che cova, da qualche parte.
Anche la cosa che ho scritto prima è stata decisamente contagocce. La trama era già delineata prima di Natale, ma ci ho messo fino ad aprile prima di scriverla, montandola e rimontandola nella mia testa.
C'è qualcosa di rassicurante nelle storie contagocce. Sono snervanti in fase di ideazione, perché le idee vengono a pezzi a bocconi. Le metti lì, nel Magazzino nelle Storie Possibili e non sai bene se le userai mai. Immagini una scena, senti che non funziona, ti innervosisci, la guardi e la riguardi, fino a che non ti convince un po' di più.
Però quando finalmente ti siedi e scrivi, ne conosci perfettamente i confini. Sai che arriverai in fondo, sai che alcune parti, magari, ti faranno stare male. Sai quali sono, quante sono, prendi le necessarie contromisure. 

Ci sono invece storie che escono di getto.
Io non credo tanto al discorso dell'ispirazione improvvisa. Credo piuttosto che, semplicemente, abbiano covato a lungo nell'inconscio, abbiano strisciato nel profondo dell'animo e poi qualcosa, all'improvviso, le fa uscire fuori.
Solo che una storia che arriva così, non prevista, dal profondo, non sai bene cosa tiri fuori.
Non ne conosci i confini, non sai se la finirai.
Non ne conosci davvero i contenuti. Quanto starai male scrivendola, quali tombini dell'inconscio possa aprire.
Non mi piace al cento per centro scrivere queste storie. Essendo io cauta, preferisco le storie contagocce, che ho succhiato a poco a poco e arrivano sulla pagina già elaborate. Però non sono io che scelgo. Le storie arrivano.

Ora sono nella strana condizione di essere stata raggiunta da una storia di getto, del tutto inaspettata, arrivata all'improvviso mentre pensavo di covare una storia contagocce (che poi spero ancora di riuscire a far condensare) e allo stesso tempo di star revisionando un'altra storia di getto, scritta un po' più di un anno fa.
Rileggendo quella mi rendo conto di quante cose ci ho messo dentro di cui assolutamente non volevo parlare. Alcune non le avrei mai scritte "a mente fredda" perché sono tematiche che non padroneggio, di altre cose pensavo non avrei scritto mai, neppure sotto tortura. Che poi, per carità, sono nascoste bene, però fa strano rileggere qualcosa che mi ero ripromessa espressamente di non scrivere. 

E poi c'è l'altra storia. Quella che mi sono trovata a scrivere in due giorni. Che vorrei tanto fosse una storia contagocce. Perché ha una struttura per me nuova e vorrei pensarci bene, prima di improvvisare. Perché vorrei montarla e rimontarla nella testa, per essere sicura di arrivare in fondo. Perché non è così piacevole essere scaraventati da una storia subito dopo la parte peggiore di un'adolescenza, nel momento in cui si devono raccogliere i cocci. Perché alcuni cocci, anche per interposto personaggio, può darsi che taglino ancora.
Ma quando la voce di un personaggio arriva nitida e precisa, c'è poco da fare. Ci si mette al computer e si inizia scrivere. E si spera in bene. 
Ed eccola qui, dunque, la mia A.L.

Avete presente certi regali che fanno le vecchie zie o le nonne, di assoluto pessimo gusto o che magari vi sarebbero anche piaciuti, quando avevate cinque anni in meno? Quei regali che non ve la sentite di buttare, perché magari la zia poi è morta e quella è l’ultima cosa che vi ha dato? Finiscono tutti in fondo agli armadi, dietro ai vestiti in cui non entrate più e vi dimenticate di averli.
Ecco, io sono uno di quei regali.

E voi, se scrivete, siete più da storie contagocce o di getto?