mercoledì 28 marzo 2018

La risposta della luna – racconto breve


Sbocciano i primi fiori e si avvicina anche la Pasqua, con il suo breve, ma apprezzato corollario di vacanze.
Ci sono gite da fare, in queste vacanze, e racconti da scrivere (con terrore). Il blog si prende quindi qualche giorno di riposo.
Vi lascio con i miei più CARI AUGURI DI BUONA PASQUA per voi e le vostre famiglie.
Vi lascio inoltre un racconto con cui ho uno speciale rapporto sentimentale. Scritto anch'esso per il programma radiofonico Siamo in Onda sul tema "Luna" è stato registrato da una ragazza allora giovanissima che poi ne ha parlato anche nella sua tesina alla maturità. Colgo l'occasione per ringraziarla ancora per aver dato vita alle mie parole.

LA RISPOSTA DELLA LUNA

Sì, somiglia la mia vita alla vita del pastore. 
Mi muovo nel vuoto percorso da orfane particelle e vedo stelle, soli lontani, pianeti e l’azzurra terra e altro mai non spero.

E no, poeta, non so a che vale al pastore la sua vita o la mia vita a voi. E ignoro, poeta, dove tenda la tua vita e dove porti la mia, che ai tuoi occhi appare immortale e immortale non è.

Sono nata sola in questo nero che mai sbiadisce, qua, dove la luce delle stelle è fredda, dall’aggregarsi delle polveri del cosmo. Prigioniera dell’attrazione di questo pianeta azzurro, sul quale i mari si innalzano a salutarmi al mio passaggio, senza mai sperare di sfiorarmi. Abbastanza vicina da spiare una ad una le vostre vite, ascoltare ciascuna delle vostre domande disperate. Troppo lontana perché voi possiate sentire le mie risposte.

Unico satellite di questo vostro pianeta, guardo le stelle lontane come il pastore guarda le greggi. E mi chiedo se siano sole, se sentano la noia o la paura della fine. E mi pare, a volte, di sentire sussurrare tra gli atomi rarefatti del cosmo in un inintelligibile linguaggio. Il canto delle stelle dal quale la luna è esclusa.

Tu, poeta disperato, che consideri fatale all’uomo il dì natale, che accusi i genitori di consolare i figli del fatto di essere nati, considera questo. Sono nata dalla gravità e dalle forze impersonali. Nessuno mai è venuto a consolare i miei vagiti di neonato. Nessuno mai è venuto a tergere le mie lacrime, ogni volta che un asteroide mi ha percosso. Persino adesso, non ho speranza di risposta a queste mie parole e tu, poeta, già ti lamenti, laggiù, che io non ti ascolto.

E se tutti andiamo verso quell’abisso orrido di cui tu parli, poeta, preferirei farlo come voi. Potendo sfiorare con la mia pelle altra pelle. 
Scegliere qualcuno a cui camminare a fianco, per farci coraggio a vicenda. 

lunedì 26 marzo 2018

Il richiamo delle cose dimenticate

La parola "pattinaggio" non credo sia mai stata usata sul questo blog.
Erano anni che non dedicato un pensiero al pattinaggio che non fosse frettoloso, unito magari a un sospiro per un qualcosa che, un tempo, aveva avuto un significato.
Forse, ognuno di noi ha un bagaglio di questi sospiri, passioni che non sono mai del tutto sbocciate, come fascinazioni adolescenziali che non si sono mai consumate.

Eppure il pattinaggio è stata la prima cosa che ho fortemente voluto. A tre anni, perché già allora avevo un carattere debole. 
Abitavo allora in città, dove c'era una delle migliori accademie di pattinaggio su rotelle. E dato che per un problema congenito al ginocchio dovevo rafforzare le gambe (cosa che di fatto ha segnato la mia vita) i miei sono stati ben contenti di assecondarmi. Ho quindi iniziato uno sport particolare all'età giusta per farlo, imparando a trottolare e (quasi) a saltare nell'unico momento della vita in cui si può farlo.
È stata anche la mia prima vera rabbia. Al saggio, a sei anni, mi hanno fatto interpretare il ruolo di un maschietto, con un costume che non mi piaceva, e non ho più voluto andare, per ripicca. Cosa di fatto ininfluente, dato che, comunque nel giro di poco mi sarei trasferita con la famiglia in queste lande in cui non si conosceva bene la differenza tra un pattino e un vaso di fiori.

Di quella passione infantile è rimasto comunque il ricordo della sensazione inebriante, così simile al volo, che ben poco altro può dare, e una certa tecnica nel cadere senza farmi male che, a un'imbaranata cronica come me, si è rivelata utile più di una volta.
Chissà come, o meglio, sempre il fatto che il mio ginocchio ha bisogno di una muscolatura di supporto per non fare danni, mi sono trovata poi a praticare a livello agonistico uno sport che è l'estremo opposto. La corsa di resistenza è lineare, senza guizzi, con una fatica reale, ma spesso esibita o comunque mai negata. Nulla a che vedere con i volteggi apparentemente senza peso di atlete e atleti che esibiscono il sorriso anche se stanno morendo dal dolore.
Questo, credo, mi ha sempre affascinato, tanto che, ripensandoci, il nascondere la fatica e il dolore sotto un'apparenza di facilità, cosa che assolutamente non mi appartiene, è un tratto di molti dei miei personaggi.

Ho seguito a pezzi e bocconi il pattinaggio di figura, con una predilezione per quello maschile, all'incirca fino al 2006. Anno in cui, in pieno spirito olimpico (tra l'altro abitavo a Torino), mi sono trovata, per la prima volta da che avevo sei anni, a rimettere i pattini, questa volta da ghiaccio, scoprendo di saper ancora pattinare, ma di non avere idea di come frenare. Purtroppo, dato che non ci sono piste nei pressi del mio pur splendido paese e non avendo trovato compagni di scrivolata, anche questo ritorno di fiamma è durato poco.
Fino a settimana scorsa, quando una cara amica dichiara di avere un biglietto in più per il Programma Libero Maschile ai Mondiali di Milano.
Ho abbandonato tutti, marito, figlia, incombenze scolastiche e sono andata, richiamata da un'antica sirena.

L'effetto è stato stranissimo, l'essere investita da ricordi potenti ma difficili da mettere in sequenza. Non riuscire più a riconoscere i salti, anche se tutto sembrava famigliare. Non ricollegare i nomi dei pattinatori seguiti all'epoca alle loro esibizioni (se avessi ricollegato subito nome e viso attuale a certe esibizioni del passato non mi sarei permessa di soprannominare "Coso Buffo" così, anche se ora rimarrà Coso Buffo per sempre, temo). Emozionarmi per degli atleti mai visti prima, ma di cui in pochi passi si intuisce la storia. 
Emozionarmi, come non pensavo fosse possibile per una cosa dimenticata.

Che poi certo, con tanti atleti assenti, compreso il detentore delle ultime due medaglie olimpiche, e tante prestazioni sotto tono, forse non è stata neppure una gara memorabile. Che poi, certo, questo regolamento che obbliga gli atleti a diventare dei saltatori folli anche quando sarebbe meglio astenersi non aiuta lo spettacolo, con l'assurdo di performance bellissime finite in graduatorie dietro ad altre con anche due o tre cadute.
Che poi, niente. 
Mi sono emozionata come non pensavo.
I palazzetto dalla fine degli allenamenti, prima delle 9.30, alle 14, senza un istante di noia.

Qualche nota non proprio positiva solo all'organizzazione non impeccabile. Neppure un cartello chiaro che conducesse dall'autostrada al giusto parcheggio, bar interni senza cappuccini e brioche alle 9 del mattino e panini già esauriti alle 11 e un gran caos all'uscita con i flussi di chi tornava all'auto e chi entrava per al competizione del pomeriggio che continuavano a mescolarsi.

Ma ora, come farò a rimettere il pattinaggio tra le cose dimenticate?
Ora per altro che ben ricordo il problema di seguire uno sport ad altissimo tasso di infortuni rovinosi per una come me, che tendenzialmente tifa per tutti e per tutti si preoccupa? Ne uscirò emotivamente distrutta.

E a qualcun altro è capitato di sentire il richiamo delle cose dimenticate?

PS: un grazie infinite a Manu, che mi ha "pascolato" per tutta la giornata, un abbraccio di supporto al marito che da due giorni mi sente parlare solo di pattinaggio.

venerdì 23 marzo 2018

Come inizio un racconto? Con terrore!


Questa settimana sono stata assai poco sul web. In parte perché è un periodo di intenso lavoro scolastico, come credo si intuisca dal post scorso, un po' perché non ho più vent'anni e una singola notte di sonno saltata si trasforma in un'intera settimana da zombi raffreddato che ciondola qua e là nel vano tentativo di capire cosa bisogna fare.
Quel poco di tempo con connessione neurale l'ho usato per iniziare un racconto che avevo in programma da scrivere da qualcosa come dieci anni (all'inizio, pensando alla frase, credevo fosse un'esagerazione e invece no, forse sono anche dodici...) e che ho sempre rimandato. Perché? Perché ne ho il terrore.

Ogni tanto, parlando con chi non scrive, ma vorrebbe farlo, mi imbatto nell'idea romantica della scrittura. Che bello mettersi lì e dare vita sulla carta alle proprie fantasie.
Questo è sicuramente un aspetto della scrittura che esiste. Il bello di vivere altre vite, buttarsi in mondi, epoche, situazioni differenti, immergersi in storie a un livello assai più profondo di come si possa fare con la lettura.

È che a volte non è così bello. A volte immergersi in altre vite non è così piacevole, perché quelle altre vite non sono così gradevoli.
Ne parlavo con un'amica che scrive e almeno mi sono rassicurata che, sì, forse sono pazza, ma non sono l'unica pazza.

Ci sono racconti che si possono affrontare solo con terrore. Perché si andrà a scavare nel dolore e in luoghi oscuri dell'anima dei personaggi. Ma, dato che l'unica anima da cui possiamo attingere alla fine è la nostra, sarà nel nostro dolore e nei nodi oscuri della nostra anima che andremo a scavare.
L'immagine che ho in questi casi, ne ho anche già scritto, è quello di calarsi nei sotterranei dell'io, con il rischio di stappare i "tombini dell'inconscio" senza saper bene cosa ne verrà fuori. Magari le temibili pantegane del rimosso.

L'esperienza mi ha insegnato che ci sono narrazioni che in alcuni momenti è meglio non affrontare. Diciamo che in alcune occasioni ho avuto la malaugurata idea di scrivere di personaggi particolarmente soli e depressi in momenti di solitudine. Non so se a livello di scrittura il testo ne abbia beneficiato. Io di sicuro no.
È di gran lunga preferibile, per me, scrivere certe narrazioni in situazioni in cui non sono sola e di certo non depressa. E anche così, non so mai cosa ne verrà fuori.
E quindi eccomi qui, alle prese con un racconto che parla del diventare adulti affrontando le perdite e le conseguenze delle proprie decisioni. 
Sono abbastanza consapevole di me stessa da capire perché io lo abbia pensato all'epoca e perché mi sia tornato in mente ora. So quali tombini è più probabile che io vada ad aprire. Non so bene cosa uscirà da questi tombini.

Persino il racconto che ho da poco terminato, l'esperimento fantascientifico, qualcosa di non troppo piacevole dall'inconscio ha tirata fuori, anche se progettandolo non me ne ero preoccupata. Ma la sensazione di essere persi in un universo incomprensibile, soli, senza uno scopo nella vita mi è rimasto addosso. Questa cosa della paura della solitudine e dell'abbandono, ad esempio, torna spesso e a tradimento. Evocata, a volte, anche da lavori narrativi che non dovrebbero avere questa forza.

Quando poi la narrazione, per sua natura, mi porta verso qualcosa di traumatico, la guardo con terrore. Da dici anni so cosa accadrà ai miei quattro protagonisti, chi morirà e come, quale peso si portino dietro gli altri.

Quindi, ecco, con che spirito inizio, a volte, un racconto? Con terrore.
A voi è mai capitato?

martedì 20 marzo 2018

Prepararsi alle Giornate del FAI – Al museo dello Scalpellino di Madonna del Sasso con i ragazzi di San Maurizio






Si parla tanto, a scuola di "apprendimento per competenze" e di "compito di realtà o prova situata". In teoria si tratta di far lavorare i ragazzi mettendoli alla prova in contesti reali. Di fatto spesso e volentieri sono voli pindarici di simulazioni. Anche simpatiche, divertenti e formative (immaginare di essere un personaggio storico, di poterlo intervistare...), ma pur sempre simulazioni.
Ogni tanto, però, si può davvero uscire da scuola.

Sabato 24 e domenica 25 marzo ci sono le Giornate del Fai
Noi siamo stati coinvolti per il sito del Museo dello Scalpellino di Madonna del Sasso. Si tratta di un museo a cui io sono particolarmente legata, avendoci lavorato a lungo tramite il progetto Musei Aperti di Ecomuseo.
Per me, quindi, è stata l'occasione per mettermi più in gioco e ragionare con i ragazzi su come il paesaggio vada a incidere sulla storia e la vita di una popolazione. In più, con l'aiuto della mia prof tutor, ho provato una tecnica didattica nuova, che spero sia stata divertente e utile tanto per me, quanto per gli studenti: far impersonare loro un antenato al lavoro sulle cave di granito di Madonna del Sasso.

Il frutto di questo lavoro, il famoso "compito situato" sono i volantini illustrativi che nel fine settimana i visitatori troveranno in museo. Inoltre una delegazione di alunni accompagnerà i turisti nella visita nella giornata di sabato.

MI RACCOMANDO, ANDIAMO A TROVARLI!

Un grazie sentito alla prof.ssa Cannata, promotrice dell'iniziativa, alle professoresse delle lingue straniere, alla mia tutor, prof.ssa Mantegazza e ai volontari del FAI.
Grazie a tutti coloro che ci aiutano a portare la scuola fuori da scuola

sabato 17 marzo 2018

Cibo colore delle nubi – racconto breve

CIBO COLOR DELLE NUBI

Il giorno in cui per la prima volta accompagnai mio padre a vendere le pelli all’emporio del forte il mercante mi diede un piccolo pane.

All’esterno era color della paglia e ruvido al tatto, ma quando lo aprii scoprii un tesoro di profumo e di bianco.

Io di bianco conoscevo le nubi d’estate, prima che si facessero grigie di pioggia. La neve che d’inverno portava la fame e assediava le tende. I petali sottili di piccoli fiori, prima che li calpestasse il bisonte.
Le nubi le inseguivo, senza poterle prendere mai. Catturavo la neve, che mi raffreddava le dita e poi andavano scaldate vicino al fuoco e si facevano rosse e dolenti. I petali invece, quando li stingevi, subito appassivano, scurendosi nel palmo della mano. 
Era bianco anche il grasso della carne di un animale appena ucciso, ma si scioglieva sul fuoco o mutava in rancido giallo. 

Non avevo mai mangiato niente di bianco, chiaro come la pelle dell’uomo che me l’aveva donato, buono, pensai, come il suo sorriso.
L’aroma riempiva la bocca prima quasi del morso. Pensai che ci si potesse saziare solo con quel profumo, ma poi lo addentai, croccante e poi morbido e dolce.
E io invidiai l’uomo bianco di un’invidia da bambino. Non per i troppi fucili, i cavalli e i cannoni. Lo invidiai per il pane e pensai che era davvero gente migliore, se poteva mangiare ogni giorno così.

Quando poi uscimmo nel cortile, vidi i soldati con le giacche azzurre tutte macchiate di fango, come cieli sporcati di nubi, che si riposavano all’ombra di quella grande tenda che non si può spostare e che chiamavano “forte”. Mangiavano piano anche loro pezzi di pane, ma le loro pagnotte erano scure, color della pelle del bisonte e ne masticavano a lungo i pezzetti, come fossero dure cotenne.


E io fui contento, allora, che ai soldati fosse negato il privilegio del cibo color delle nubi. Ma poi sorse, piano, il disagio per un popolo che sapeva colorare differenze anche con un boccone di pane.

Racconto scritto per il programma radiofonico Siamo in Onda

mercoledì 14 marzo 2018

Viaggio nei viaggi di Ulisse nella canzone

Ogni tanto capita di fare una lezione più per propria curiosità che per ragionato intento didattico. Oltre tutto non è neppure detto che poi esca male. E così io e la mia valente prof di sostegno (nel senso che spesso e volentieri quella che ha bisogno di sostengo sono io e non la classe) ci siamo inoltrate nell'Ulisse della canzone (non solo) italiana.
Che ci fossero parecchie canzoni ispirate alla figura di Ulisse lo sapevo, quante non lo sospettavo. Alcune le conoscevo, ma non le avevo mai ascoltate, altre sono state del tutto una sorpresa.
Voglio condividere qui qualche tappa e qualche considerazione

Ulisse – Enrico Ruggeri
Bella canzone, ma che mi racconto un Ulisse particolarmente antipatico. Insomma, Penelope, è vero che ti ho tradito e ti lascio a casa ad aspettare, ma cosa ci vuoi fare, sono nato marinaio, se non puoi capirmi non è colpa mia, è una mancanza tua.
Premio pazienza a Penelope. Se ero al posto di questa santa donna, Ulisse finiva soffocato con la famosa tela.

Odysseus – Francesco Guccini
Che io ami Guccini l'ho scritto anche nel post scorso, quindi questa è tra le canzoni che conoscevo. E niente, questo Ulisse vecchio, nato contadino, che ha scoperto il mare e l'avventura e, ormai vecchio, non riesce più a rimettere in fila i ricordi mi commuove sempre. Anche se immagino che anche questa Penelope sia parecchio esaurita.

Itaca – Francesco Camattini
Autore e canzone mi erano del tutto sconosciuti. Mi sono innamorata all'istante di questa canzone, adattamento, scopro di una poesia di Kavafis. Valore aggiunto alle mie orecchie, la presenza del violoncello, il mio strumento preferito in assoluto.
"La gloria di non essere eroe", chissà che non sia più facile non essere eroe che esserlo davvero. Che bello pensare a un Ulisse alternativo che volge lo sguardo a Itaca, brutta e povera e scopre la difficoltà di non essere eroe.

Itaca – Lucio Dalla
Classico sempre piacevole da riascoltare. Qui ad avere la parola sono i rematori della nave di Ulisse. Ho un rapporto ambivalente con l'ultima strofa. Da una parte riconosco in questo finale il sentire di tanti lavoratori che si lamentano, si lamentano, ma sotto sotto sono soddisfatti della barca per cui stanno remando e del viaggio che stanno compiendo. Dall'altra credo davvero che il marinaio voglia solo tornare a casa, dopo una guerra che non ha scelto e viva come una maledizione la fame di avventure e di conoscenze dell'Ulisse di turno.

 Penelope – Joan Manuel Serrat
Contributo, questo, della collega di sostegno/spagnolo.
Purtroppo il mio spagnolo non mi permette di apprezzarla al meglio. Mi è stato spiegato che racconta la solitudine di Penelope che, è inevitabile, neppure il ritorno di Ulisse ormai può colmare.

Mi sono imbattuta poi in Caparezza, che non ha nessuna intenzione di fare come Ulisse e cederebbe volentieri alle sirene, nel concept album della PFM, da cui forse mi aspettavo un guizzo in più, ma che mi riservo di ascoltare con più calma. Ho vagato nel web alla ricerca di una canzone di Tiziano Ferro che mi era stata segnalata, ma non ho trovato, imbattendomi invece in un'esperimento rap che, però, di Ulisse mi pare porti solo il nome.
Nella necessità di tornare alla mia Itaca ho tralasciato chissà quali altre canzoni, ma mi sono concessa una pausa con la vecchissima parodia del Quartetto Cetra, che mi ha ancora strappato un sorriso

Non mi resta, a questo punto, che chiedere a voi cosa ne pensate di questo viaggio musical/letterario

lunedì 12 marzo 2018

Di gatti e di 5 influenze letterarie


Mi sono resa conto che non vi ho più aggiornato sulla sorte di Orlando Calibano Nerone, primo del suo nome, il persiano avventurosamente giunto a casa nostra prima di Natale.
Misterioso come il suo oscuro passato, stava asserragliato nello studio.
Ecco, il suo passato oscuro rimane oscuro, ma la foto, scattata nell'area giochi della pupattola e a pochi passi dalla pupattola stessa la dice lunga sul suo essersi ambientato. Avrei anche una foto con un giocattolo rosa posizionato sulla sua testa a mo' di cappello, ma l'ho ritenuta lesiva per la sua dignità felina. 

Tornando a cose più letterarie, gira tra i blog in questi giorni il meme sui libri che più ci hanno influenzato. 
Mi scuso in anticipo. Non so dire da chi sia partito il meme. Ho già letto parecchi post in merito e non so dire quale sia stato il primo che ho letto, né se quello fosse a tutti gli effetti il post originale. 
Ci ho pensato un po' prima di scriverci su, perché delle letture che per me sono state fondamentali, quelle che mi hanno, dicendola banalmente, cambiato la vita, ho già scritto parecchio. Ma se parliamo non di folgorazioni esistenziali, ma di riflessioni stilistiche, le cose cambiano. Quali sono i testi che più sono penetrati nella mia scrittura o che rappresentano mete ideali e ancora irraggiungibili?
Qui la cosa si fa più interessante, anche perché non posso parlare propriamente di "libri". E di cosa allora? Beh, eccole qui, le mie 5 influenze letterarie



Ursula Le Guin
Il primo punto è il più banale, quando si ha un'autrice preferita.
Di lei, che purtroppo ho letto solo in traduzione italiana o francese, amo l'eleganza semplice, la sua capacità di alludere senza mostrare. I suoi personaggi e i suoi mondi hanno sempre una sorta di serenità, più o meno apparente, che sta in equilibrio si abissi di disperazione e allo stesso modo le sue descrizioni sono sempre dolci, anche quando si parla di cose terribili. Vi è inoltre una rara capacità di sintesi, più evidente ancora nei racconti che nei romanzi. Mi piacerebbe apprendere tutto questo e farlo mio. Qualcuno, recensendo l'antologia La spada, il cuore e lo zaffiro, ha subito individuato il mio racconto più "Leguiniano": Anche se ti uccide.

Ernest Hemingway – Colline come elefanti bianchi
Non sono una fan di Hemingway. Non mi piace come persona e mi interessano poco gran parte dei suoi argomenti. Lo so che Il vecchio e il mare è un capolavoro, ma mi annoia già il sentirne parlare. E ho sofferto terribilmente Addio alle armi, concludendo che le sue ossessioni non sono le mie e fatico a capirle.
Però scrive da dio. Ne ho avuto la prova di nuovo, di recente, con la lettura di Festa Mobile.
In questo mio rapporto ambivalente con Hemingway si staglia il racconto Colline come elefanti bianchi. È un racconto fatto quasi esclusivamente di dialoghi. Come se spiassimo una coppia che sta parlando alla fermata del treno. E da quel dialogo emerge il senso di vuoto che assale la coppia, lei soprattutto, sul punto di mettere in atto una scelta già presa. Al di là del contenuto, che un po' mi irrita, come tutto Hemingway, la sua capacità di concentrare tutta una storia in un attimo e di raccontarla solo attraverso il dialogo mi ha folgorato. È un racconto che si basa sul non detto. Quale sia la cosa che la donna deve fare non è mai esplicitato, così come non sono mai esplicitati i sentimenti che prova, né il latente conflitto con l'uomo. Eppure tutto appare cristallino al lettore, così come sembra di essere in quella stazione sperduta e se ne sente la polvere e lo squallore.

Francesco Guccini – testi di canzone
Ora posso farlo molto meno, perché scrivo quando capita, come capita, per lo più in aula insegnanti o alla sera, con la tv accesa. Ma il top per me è farlo con il sottofondo musicale di cantautori italiani. All'inizio non ci facevo caso. Ma quelle parole che passavano in sottofondo e che quasi mi pareva di non ascoltare, pian piano entravano nei miei testi. E, tra tutti, un posto particolare ce l'ha Guccini e in particolare alcune sue canzoni. Non sono le sue più famose, a volte neppure le più riuscite, ma ci sono canzoni di Guccini che sono a tutti gli effetti dei racconti. Penso ad Autogrill, Piogge d'Aprile, Il pensionato. Si tratta di piccoli affreschi narrativi che tratteggiano personaggi o situazioni. Credo che Guccini sia in questo senso un caso unico, i cui testi non posso essere definiti "poesie", come a volte si fa con i cantautori, ma "racconti". In questo senso per me è stato illuminante. La sua capacità di descrivere con poche pennellate è una capacità che vorrei imparare. La forza di una singola metafora ben piazzata (il suo famoso "bionda senza averne l'aria, quasi triste, come fiori o erba di scarpata ferroviaria" rimane per me inarrivabile), la capacità di cogliere un'intera psicologia da un gesto (andare a riascoltare o a rileggere il pensionato) sono cose che vorrei tanto saper padroneggiare.

Fred Vargas – Sotto i venti di Nettuno
Fred Vargas è di sicuro l'autrice che mi ha messo sulla via del giallo, ma è un aspetto stilistico che mi ha folgorato.
Come più o meno tutti, anch'io conoscevo il flusso di coscienza e, quasi come tutti, lo associavo a narrazioni estremamente serie, indagini psicologiche profonde, bellissime, magari, come nella mia recente lettura di Gita al faro, ma non esattamente leggere.
In alcuni romanzi, sopratutto in Sotto i venti di Nettuno, Fred Vargas piazza delle mezze paginette di flussi di coscienza per ottenere degli effetti non dico comici, ma quanto meno bizzarri. Perché se si entra nella testa di un personaggio dallo spiccato pensiero laterale, come Adamsberg, il suo flusso di coscienza diventerà quanto meno surreale. E alla realtà concreta di un'indagine si mescoleranno cattedrali gotiche, pesci di profondità e Nettuni usciti da cartelloni pubblicitari, in una percezione onirica della realtà che acquista un sapore tutto particolare.
A Fred Vargas vorrei rubare questa capacità di integrare il surreale dei pensieri di personaggi bislacchi nella descrizione della realtà e anche l'elasticità mentale per poter utilizzare in modo alternativo le tecniche di narrazione che già conosco.

Elisabetta Bucciarelli – Dritto al cuore
Molti autori italiani, devo dire, lavorano sulla connessione tra personaggi, trama e ambientazione, avendo in quest'ultima il loro elemento di forza. Basti pensare al – dal me non molto amato – Le otto montagne, togli la montagna e togli il romanzo. Ecco, Dritto al cuore per il momento per me è l'esempio migliore di interazione risuscita tra ambientazione, trama e personaggi (tanto che il successivo romanzo dell'autrice, privo di un'ambientazione altrettanto pregnante non sono proprio riuscita ad amarlo). Ambientazione che plasma i personaggi, sia quelli figli del luogo, sia quelli giuntivi lì e deviati, questo caso dalle montagne e dall'isolamento, su pensieri differenti. Ambientazione che plasma la storia ma che non la annulla, come nel caso de Le otto montagne.
Ho provato a scrivere qualcosa del genere, con un romanzo che al momento io ritengo la mia cosa migliore, ma gli editori a cui l'ho proposto (pochi in verità) al momento non sono della stessa opinione. Forse devo "solo" fare ancora di meglio.

venerdì 9 marzo 2018

E poi spunta una nuova storia


Che poi, adesso, non ho neppure il tempo per pensare a una nuova storia.
Che con tutto quello che ho nel cassetto e che non riesco neanche a proporre per una pubblicazione, non ha senso proprio scrivere altro.
Magari rimetto mano a qualche progetto vecchio, solo per me.
Qualche racconto, se capita, senza impegno.
E poi, sento di non aver neppure più idee.

Ecco.
Perché, poi, avere qualcosa da scrivere è una scocciatura. È un impegno constante. Iniziare un romanzo è come decidere di portare a casa un cucciolo. Non è che a un certo punto lo puoi abbandonare in autostrada. Gli va dedicato del tempo ogni giorno. Ogni santo giorno. Come un cagnolino che va portato a fare la passeggiata anche quando piove e fa freddo.
Ecco.

Magari scrivo un racconto. Breve. Così, per provare. 
Un genere nuovo. Così, per giocare.
E poi è un'idea folle. Folle e mezza rubata, per di più.
Che tanto so che quel protagonista non lo saprei neppure gestire.

E infatti quel protagonista si fa da parte.
Il problema è che ne salta fuori un altro.
Io non avevo nessuna intenzione di scrivere di lui. È lui che ha tutte le intenzioni di farmi scrivere di lui.
Che poi, scrivere per ragazzi non è nelle mie corde. 
Che poi, che ci azzecco io con la fantascienza?
Che poi, neanche so, questo, cosa mai potrebbe pensare, fare o dire. Cioè, non ci azzecca proprio niente con me, questo protagonista.
E il mondo in cui si muove? Io non ne so niente. Non voglio saperne niente. 

Va beh, facciamo così.
Iniziamo con un racconto, ok, poi vediamo come va. Insomma, non è che puoi entrare nella mia testa e dire con quel fare prepotente che io devo scrivere di te. Cos'è che mi stai dicendo?
– Dopo una storia con tre protagoniste di settant'anni mi sembra giusto che il prossimo protagonista sia un dodicenne?
A me non sembra così giusto.
Guarda che c'è parecchia gente in coda, qui, con la sua storia in mano.

Va bene, va bene. Iniziamo con un racconto.
Iniziamo.
Non ti prometto niente. Guarda che ho il lavoro, l'anno di prova, una figlia...
Sì, si, va bene, proviamo solo. Poi si vedrà.
Vediamo come ti presenti. Vedi almeno di farmi una buona impressione.

Wolf si svegliò sicuro di non essere un lupo.
Appena aperti gli occhi, nella penombra della stanza stretta, osservando una parete vagamente convessa, si rese conto che non c’erano molte altre cose di cui potesse essere altrettanto certo.
Non era un lupo. Era un ragazzino, eppure Wolf era e non era il suo nome. Una parte, forse. E del resto era così che si sentiva. Una parte soltanto di un se stesso semi dimenticato.

Ecco, sono fregata. Però iniziamo con un racconto. E non ti prometto nulla.

mercoledì 7 marzo 2018

Piccolo post sulle pari opportunità


Sono una prof fortunata, fortunata al punto che persino le ore di supplenza invece che un incubo sono un'opportunità.
È capitato quindi che in un'ora di supplenza con una classe deliziosa, capace di lavorare e ragionare anche con un'insegnante capitata lì per caso per un'ora soltanto, si leggesse un brano dell'antologia in cui una ragazza era appassionata di ciclismo e equitazione.
– Prof, è un maschiacchio!
E qui inizia la discussione da cui emerge che per i maschi una ragazza non dovrebbe giocare a calcio. Al massimo a casa propria, ma non in una squadra. Per le ragazze è giusto poter giocare a calcio, se ne hanno voglia, ma i maschi non dovrebbero fare danza. Su questo, pare, sono d'accordo tutti, maschi e femmine. Perché ci sono, dicono, cose da maschi e cose da femmine. E sulle cose da maschi pare ci si a più accordo. Maschiaccio è brutto da dire di una ragazza, ma femminuccia è sicuramente peggio da dire a un ragazzo.
E poi l'ora è finita e non abbiamo potuto andare avanti nella discussione, tutto sommato contenti all'idea di andare a casa.
Ma se l'ora fosse proseguita io cosa avrei fatto?
Avrei cercato da proiettare alla LIM un pezzo di danza, possibilmente non classica, magari da Notre Dame de Paris. Magari questo:
Può piacere o non piacere o non piacere. A me piace e penso: ma se a tutti questi maschietti fosse stato detto che ballare è da femminucce, questo spettacolo non sarebbe andato in scena. Non ci avremmo perso tutti?
Se lo avessimo guardato insieme, forse sarei riuscita a dire che l'arte, ma anche lo sport, come qualsiasi altra cosa che uno senta di voler fare è un modo per esprimere se stessi. Un'opportunità, appunto. E l'espressione che ne esce è diversa per ciascuno. Un maschietto che balla non ballerà come una ragazza, non negherà la propria fisicità, ma la svilupperà in modo diverso. Ma se il nostro pregiudizio nega la possibilità stessa, ci perdiamo tutti.
Forse avrei raccontato un piccolo episodio personale.
Il mio nonno materno era un uomo d'altri tempi. Era nato in una famiglia altoborghese che poi si era impoverita negli anni della guerra, ma la sua educazione era stata quella di un primogenito altoborghese di prima della seconda guerra mondiale. Era un uomo di cultura, che ci ha lasciato qualcosa come 4000 libri. Ha avuto una sola figlia, mia mamma, con cui, per vari motivi, non c'è mai stato dialogo. Da bravo uomo d'altri tempi il suo interesse per me, finché ero una bambina piccola, è stato scarso e per lo più rivolto al fatto che non toccassi/rompessi le sue cose. È capitato un giorno, avrò avuto sui 9 anni, in cui ero dai nonni e lui stava per andare in edicola e io ho chiesto un fumetto. Intendevo con quello un Topolino, ma non essendo stata chiara, lui ha comprato Tex. Appena tornato a casa lo ha fatto vedere a mia nonna e, apriti cielo! Il problema non era che ci fosse troppa violenza per una della mia età, ma che fosse "da maschio". Mio nonno se lo è rigirato tra le mani e poi ha detto "va be', ma vediamo se le piace". Perché per la prima volta con quel fumetto mio nonno vedeva qualcosa che poteva condividere con me. E quel fumetto "da maschi" me lo ricordo ancora, me lo ricordo ogni mese, quando ancora prendo il Tex, che leggo anche solo per nostalgia, ricordando mio nonno. Da lì sono arrivate via nonno altre letture "da maschio". Salgari, Verne. E poi una sorta di investitura a prendermi cura dei 4000 libri. Seguendo il consiglio di mia nonna ci avremmo perso entrambi. Io, ma anche mio nonno.

Vedo in questi ultimi anni, parlando con i ragazzi, un ritorno prepotente degli stereotipi di genere, cose da maschi e cose da femmine. Sciocchezze, magari, all'età con cui io ho a che fare con loro, ma che diventano col tempo opportunità negate. In nome di che cosa? Di una paura di non essere accettati in un gruppo e nel terrore, che non ricordavo in passato, ma ora è sempre più presente, di essere bollati come "gay" o come "lesbica".
Le cose peggiorano, spesso, al momento di scegliere la scuola superiore. Nessuna ragazza a fare meccanica, ma quasi peggio un ragazzo allo scienze umane o, orrore, alla scuola per parrucchieri ed estetisti. E questo punto lo stereotipo inizia a incidere sulla vita intera. Non solo di chi compie o non compie questa scelta. Ma di tutti coloro che non andranno a beneficiare degli effetti positivi che si hanno sempre quando qualcuno fa qualcosa che profondamente ama.

Domani è l'otto marzo e di solito si parla, per l'otto marzo, di pari opportunità per le donne. Ma a negare o negarsi un'opportunità per paura e pregiudizio ci perdiamo tutti, non solo la persona a cui l'opportunità è negata. Perché un talento espresso va sempre a favore di tutta una comunità.

Pensavo, che questo fosse un punto assodato, che fosse addirittura inutile e anacronistico ribadirlo. Eppure, più parlo con i ragazzi e più mi rendo conto che oggi, nel 2018, alcuni concetti è bene ribadirlo.

Domani è l'otto marzo e si parlerà di pari opportunità per le donne.
Ma le pari opportunità sono per tutti.
Opportunità non vuol dire livellamento, ma possibilità di esprimere un talento.
L'espressione di un talento, il fare quello che si ama fare, va sempre a vantaggio di tutti. 

domenica 4 marzo 2018

La fontana della felicità – parte seconda, racconto inedito


Qui la prima parte

Benché la felicità fosse appannaggio di molte bestie e di pochi uomini, la città aveva un suo fascino magico. Tutti i forestieri ne erano incantati, ascoltavano i concerti improvvisati dagli anziani ai margini delle piazze, accarezzavano i lupi e osservano i merli accoppiarsi con i parrocchetti e gli strani uccelli meticci e silenziosi che popolavano la città. 
Solo Horace Saltarospo sembrava del tutto immune dall’incantesimo. Faceva notare come le produzioni artistiche degli anziani felici fossero quasi tutte di dubbio gusto. I famosi concerti erano pieni di note stonate e anche i lupi mansueti non avevano un bell’aspetto. Mangiavano qualsiasi cosa fosse loro offerto, con effetti deleteri sulla loro salute.
Melagro, intanto, non faceva che osservare la differenza tra lo zio e il suo vecchio amico. Prunus era un uomo gioioso, con gli occhi che luccicavano di contentezza, sempre con una parola gentile per tutti e un fascino che l’età non aveva intaccato. Sapeva ancora far arrossire una donna con un apprezzamento ben piazzato e un mezzo sorriso malizioso. Inoltre Melagro era terrorizzato dall’idea che lo zio si tirasse indietro all’ultimo momento. Stava andando tutto troppo liscio, il vecchio si lamentava, obiettava, dubitava, ma di fatto non poneva ostacoli all’organizzazione del suo percorso verso la felicità.

Uno degli spettacoli più straordinari a cui Melagro assistette fu vedere gli uomini e le donne bere alla fontana. Il tutto ormai era rodato da una perfetta macchina organizzativa. Il permesso per accedere alla pozione andava inviato con anticipo, veniva vagliato dalla commissione, confermato o respinto a norma di legge. Ognuno vedeva quindi fissato il giorno e l’ora in cui, scortati da due ufficiali della città, poteva superare le transenne, immergersi con i piedi nella fontana, fino ad arrivare a alla bocca di uno dei cavalli di Nettuno e suggere da essa il portentoso liquido.
Molti ancora un attimo prima di bere erano scettici, altri sofferenti, qualcuno era in lacrime, altri ancora rosi dal dubbio di aver ben speso tutti i risparmi di una vita per quel viaggio. Ma appena bevevano i volti si rasserenavano, le fisionomie risultavano del tutto trasfigurate da sorrisi distesi che magari mancavano da quei visi da decenni.
Giunse anche il turno di Horace Saltarospo. L’uomo avanzò verso la fontana con un viso da esattore delle tasse. Melagro aveva visto condannati a morte con occhi più allegri di quelli con cui lo zio fissava Nettuno.
– Eh, alla fine è venuto anche il suo turno, lo dicevo io che avrebbe capitolato! – commentò Prunus, tutto gioioso, a fianco di Melagro.
Il giovane non era mai stato così teso, si aspettava che da un momento all’altro lo zio avrebbe scartato di lato e, gotta o non gotta, avrebbe preso a correre per la pizza zigzagando come un coniglio terrorizzato, di tutto il mondo l’unico che rifuggisse la felicità. Il cuore di Melagro perse un colpo, quando il vecchio avvicinò le labbra alla pozione. Quello, pensò, era capace di morire adesso per dispetto. Invece Horace Saltarospo bevve.
Come coloro che erano venuti prima di lui, alzò il viso rasserenato e per la prima volta il nipote notò l’azzurro dei suoi occhi, che ora brillava di un’inesauribile gioia interiore.

Per festeggiare, Melagro, Horace e il professor Prunus andarono a pranzo in una delle osterie che si affacciavano sulla piazza.
Il giovane non poteva crederci, lo zio e il vecchio amico non facevano che brindare e ridere, ricordando vecchi eventi dei tempi della scuola, marachelle infantili rievocate ora con gioia. Quando arrivò il dolce intonarono persino una canzone goliardica, cantata con voci stonate.
Toccare subito la questione dell’eredità pareva a Melagro indelicato e quindi estrasse dal panciotto una lettera che le famiglie dei minatore avevano scritto in previsione di questo momento. Elencavano le malattie a cui i lavorati erano sottoposti, le condizioni in cui versavano i bambini, la denutrizione e l’analfabetismo che dilagavano tra i minatori. In breve, chiedevano un aumento dei salari e una diminuzione dei turni di lavoro.
– Non ci penso nemmeno – fu la lapidaria risposta di Horace Saltarospo.

Melagro rimase immobile, con un’espressione inebetita, mentre il professor Prunus rideva di gusto.
– Inoltre, caro nipote, tutta questa storia di bere alla fontana è stata una tua idea, ma sono stato io a pagare viaggio, vitto e alloggio – aggiunse soave Horace. – Quindi mi sembra equo che tu debba lavorare per me come segretario e assistente fino ad aver ripagato il tuo debito.
– Ma sono il tuo unico nipote!
– Il Cielo ha avuto la bontà di risparmiarmi il tedio di averne altri – replicò il vecchio.
– Ma tu hai bevuto la pozione, sei felice! – esclamò Melagro, ormai in preda al panico.
Horace Saltarospo puntò lo sguardo dei suoi ridenti occhi azzurri sul viso del nipote.
– Sono felice. E hai mai avuto il dubbio che anche prima lo fossi? Mi hai mai sentito piangere, mi hai mai visto in preda allo sconforto o anche solo al dubbio?
– Ma… La paura della malattia…
– Simulata, esattamente come la vostra preoccupazione. E lasciami ammettere, caro nipote, che sono un attore assai migliore di te.
– Credo che il povero Melagro si meriti una spiegazione – intervenne il professor Prunus. 
Più che di una spiegazione, Melagro sentiva la necessità di un intervento medico. Stava iperventilando e sentiva la tachicardia galoppare. Anche una spiegazione, però, sarebbe stata gradita.
– Sei un oratore migliore di me – sorrise Horace al vecchio amico.
– Sta bene – accettò Prunus. – C’erano una volta, quindi, mio caro Melagro, cinque studenti dell’università assai indispettiti per le regole che normavano l’accesso alla felicità. Erano brillanti e pieni di iniziativa, al punto da non volersi negare una vita felice. Uno di loro, io, era già un alchimista esperto, in grado di preparare un olio simile a quello usato durante le partite di calcio invisibile. Un altro era appassionato di mitologia e ci consigliò di fare come Ulisse con Polifemo. Scoprimmo che un pastore aveva avuto il permesso di portare la sua nuova mandria di mucche ad abbeverarsi alla fontana. Queste cose si fanno di notte, per non disturbare il flusso diurno di anziani e malati. Riuscimmo quindi ad avvicinarci alle mucche e ad attaccarci, con legacci invisibili, alle loro pance. Nella notte, le vacche ci condussero fino alla fontana e ciascuno di noi riuscì a bere un sorso e a essere ricondotto via prima dell’alba.
Melagro continuava a passare lo sguardo da Prunus a suo zio, senza voler accettare ciò che gli veniva detto.
– Ma zio, tu sei sempre stato felice…
– Sì – sorrise Horace. – E pertanto ho sempre fatto ciò che più mi piace, accumular denaro e vessare le persone. Non so da dove venga questa convinzione che le persone felici siano per loro natura migliori.
– Non lo sono – convenne Prunus.
– Ma voi siete un luminare benemerito!
– Sì, perché ho sempre amato studiare e insegnare. Ho anche avuto otto figli da otto donne diverse e non ho mai voluto sapere nulla di loro. Ho settantaquattro anni e credo sia ragionevole dedurre che i miei genitori siano morti, ma non ho memoria dell’evento. Mi è stato certo riferito, ma non ha per nulla intaccato la mia felicità. Se fosse stato necessario fare qualcosa per loro, cure medice, assistenza, dubito che lo avrei fatto. Ricordo in modo vago una delle mie ex amanti che mi chiedeva in lacrime del denaro per il figlio malato, penso di aver comprato invece una bottiglia di champagne, per brindare con lei ai vecchi tempi, ma ho supposto dalla sua espressione che non abbia gradito. 
Prunus aveva parlato con quella sua voce gentile e il sorriso aperto, elencando fatti di cui era del tutto consapevole, ma che non avevano una reale importanza per la sua vita.
– Forse è il caso di ricordare anche i nostri compagni – sorrise Horace. – Eravamo tutti studenti brillanti. Alboino, che progettava macchine volanti, si schiantò tre giorni dopo aver bevuto, provando un prototipo che era certo avrebbe funzionato. Quando si è felici si tende a non curarsi troppo delle norme di sicurezza.
– Tancredi è stato condannato a morte – ricordò Prunus, con voce trasognata. – Era il mio più brillante compagno di studi. Quando si è felici si pensa alla bellezza di ciò che si fa, non all’etica. La sperimentazione sull’uomo non è vista molto bene, specie se causa un certo numero di morti, una quarantina, credo. Io dovevo testimoniare al processo in suo favore, ma quel giorno mi è venuta in mente una nuova formula da sviluppare e non sono mai andato. Non sono andato neppure all’esecuzione. Pare sorridesse, mentre gli sparavano.
– Adalgiso, invece, studiava per dovere, non per piacere, anche se era una mente fina – riprese Horace. – Quando l’ho visto l’ultima volta era un senzatetto. Vestito di stracci, suonava a lato di una strada un flauto di pan senza azzeccare una nota. Dimostrava il doppio dei suoi anni. Suppongo sia già morto da un pezzo. Nessuno di noi è diventato migliore o ha fatto del bene al prossimo, anche se la nostra è stata una vita estremamente piacevole. Simulare l’infelicità per tutto questo tempo è stata una deliziosa sfida intellettuale.
Prunus bevve un sorso di vino.

– Io ho pensato, in via teorica, a un’umanità del tutto felice. Saremmo dei gioiosi animali promiscui, come gli uccelli della città, incuranti del nostro futuro, intenti a fare solo ciò che ci piace fare. In definitiva, suppongo, destinati all’estinzione. Molto tempo fa i nostri antenati, nel giardino dell’Eden, barattarono la felicità con la conoscenza del bene e del male. Non mi sento di dire che abbiano sbagliato.

giovedì 1 marzo 2018

Io, Burian e gli algoritmi di fb


È arrivato anche qui, il buon Burian (che poi, in dialetto la "buriana" è proprio l'ondata di maltempo, reale o figurata) a portare neve e gelo ma non quanto grandi e piccini sognano in questi casi, cioè la chiusura delle scuole. Così se da un lato continuo a pensare "chissà che foto meravigliose farei se fossi ancora nella scuola col pontile" dall'altro ringrazio di non dover scendere fino a riva lago. Anche così, comunque, la stanchezza si accumula più o meno come la neve sul mio rosmarino, che tuttavia si ostina a fiorire.
Non c'è neppure da pensare a un post serio.
Essendo io, però, una narratrice, in questi giorni di neve pre elettorale mi va di narrarvi del mio rapporto tormentato con il più famoso social network del mondo.

Si dice che, ormai, grazie ai social siamo tutti schedati. I social vivono vendendo informazioni, per lo più a chi fa la pubblicità. Al di là di facili complottismi, l'effetto più banale è quello di avere pubblicità e "post sponsorizzati" ad hoc. In base ai nostri "mi piace" e ai nostri contatti il misterioso Algoritmo, che io continua a immaginare come il signor Algo Ritmo, obeso e untuoso, che fa i suoi calcoli in una cantina oscura, capisce cosa presumibilmente ci può piacere e zak, ci bombarda con la pubblicità giusta. O più o meno giusta, come si lamentavano donne che non vogliono figli oppresse dalla pubblicità del kit per calcolare i giorni fertili, ma comunque sensata per la categoria a cui, ci piaccia o no apparteniamo.
Ebbene, no, non nel mio caso.
Non so cosa ci sia nel mio profilo fb, nella mia serie di contatti e di "mi piace", ma il signor Algo Ritmo non riesce a capire chi io sia.
Neppure a grandi linee.
Ormai non vedo l'ora di vedere il suggerimento "ti potrebbe interessare la pagina..." perché saltano fuori veramente le cose più impensabili. Mentre sulle pubblicità a volte rasentiamo l'offensivo.
Innanzi tutto Algo Ritmo non riesce a darmi un'età. Deve avermi scambiato per la Beghina, la personificazione del mio "essere vecchia dentro", perché fino all'arrivo della pupattola mi arrivavano sconti sulle case di riposo. Giuro.
"Non aspettare che sia troppo tardi, prenota ora la tua residenza serena" col sottotesto, suppongo di "presto sarei del tutto rincoglionita".
Grazie Algo Ritmo, davvero. Questa, sia chiaro, me la sono legata al dito e il mio rapporto con il social non sarà mai più sereno.
Poi, per fortuna è arrivata la puppatola e qualcosa nelle mie ricerche in rete deve aver suggerito ad Algo Ritmo che io non sono ottuagenaria. Però, diavolo, che lavoro fa questa?
Così è arrivata la pubblicità per una rivista specializzata per direttori d'orchestra.
Ora, qualsiasi cosa è meglio dello sconto sulla casa di riposo, ma come possa Algo Ritmo aver pensato che io, che non riesco a suonare Fra Martino sulla pianola della pupattola potessi essere un direttore d'orchestra è un mistero che quelli di Fatima al contrario sono niente.
Ho una pupattola. Magari ho una fissazione alimentare di qualche tipo. Quasi tutti i genitori ce l'hanno, solo biologico/senza sale/senza zucchero per i pupi, no?
E quindi è di qualche giorno fa la pubblicità di un'azienda che giura di produrre frutta e verdura senza mezzi meccanici, neppure a trazione animale, solo mani e zappa.
Da un lato la cosa mi ha fatto sorridere, dall'altro, avendo appena spiegato ai ragazzi a scuola la rinascita dell'anno mille e l'importanza dell'introduzione dell'aratro pesante, trainato da cavalli o buoi, ho sentito il rumore di migliaia di contadini medioevali che si rivoltavano nella tomba.

Ora, immaginate il povero Algo Ritmo che deve decidere che pubblicità elettorale piazzarmi?
È il momento in cui alla voce "potrebbe piacerti questa pagina" viene schiaffata quella di un partito.
Devo dire che almeno questa volta Algo Ritmo ha usato metodo. Ha iniziato col propormi Casapund (come sia possibile solo lui lo sa, perché se c'è una cosa deducibile da mio muovermi in rete è che non sono loro simpatizzante) e ha terminato ieri con Potere al Popolo. Che in effetti mancava all'appello e iniziavo un po' a preoccuparmi, mi spiaceva che Algo Ritmo avesse gettato la spugna.
Inutile dire che non ho cliccato su nessuna di queste pagine. Non vorrei mai semplificare il lavoro al buon Algo.
Anche perché ormai apro Fb anche solo per vedere quale follia di pubblicità mi si appioppa. Abiti per alani? Fatto. Finti dischi volanti caduti da piazzare in giardino? Fatto. Pagine per pubblicizzare i miei quadri (?)? Fatto.
Purché non mi propini più le case di riposo!