mercoledì 29 agosto 2018

Riflessi scrittorei


Le vacanze, quando finalmente sono arrivate, ci hanno portato in montagna.
Sarà che tutti dicono che i bambini devono essere portati al mare, ma sui monti, negli ultimi anni, per far fronte alla concorrenza, si sono super attrezzati per i pupattoli. 
Passeggino o zainetto e si arriva comodi comodi in posti come quello in foto, dove davvero fatico a provare nostalgia per l'odore della crema abbronzante, le meduse, la paura che il cucciolo si perda nella spiaggia, la sabbia ovunque, insomma, tutti quegli elementi che costellano i miei ricordi di "vacanza estiva al mare per bambini".
Con molto coraggio, il marito ha portato in lettura gli scritti della combriccola della scrittura privata e quindi ho potuto raccogliere tutti i pareri dei miei, questa volta letteralmente, quattro lettori. Gente che mi conosce, che legge quello che scrivo abitualmente, e che ha letto questo esperimento, sapendo che per me il gioco era anche liberarmi di qualsiasi paletto editoriale.
Devo dire che tirare le fila è piuttosto spiazzante e mi ha fatto scoprire cose della mia scrittura di cui probabilmente non ero del tutto consapevole.
Eccone qui alcune, alla rinfusa.

– Non c'è davvero modo di farmi scrivere qualcosa che vada oltre a un bacetto. Non importa quanto disinibiti possano essere i miei personaggi, non importa se i lettori sono quattro e non si fanno alcun problema. Su questa cosa prima o poi bisognerà lavorare seriamente, credo.

– Permettersi di mettere più di se stessi nei personaggi perché tanto mi leggono in quattro che già mi conoscono è stato un errore gravissimo.
Reazione del marito:
"Questo personaggio è come te quando hai il ciclo. Uguale. Mi viene voglia di prenderlo a sprangate. Ti sopporto perché ti ho sposato e sono pochi giorni al mese, ma pure leggere queste paranoie? Ogni volta che arriva il suo punto di vista mi vien male"
E io non sapevo se volevo uccidere per questa reazione me stessa, il marito o il personaggio.
Timida domanda finale:
"Ma alla fine non gli hai voluto bene neppure un po'?"
"No"

– Lasciata a me stessa sono terribilmente melensa. Mi faccio venire il diabete da sola.

– Lasciata a me stessa mi annoio a scrivere descrizioni, ma poi ne sento la mancanza.

– Non importa se leggeranno in 4 e se so che costoro non sono stati nei luoghi in cui si muovono i miei personaggi. Sono terribilmente a disagio nell'ambientare una storia in un luogo reale che non ho visitato. Il risultato è che chiudo i personaggi in casa o comunque in ambienti chiusi, come certi film italiani a basso budget che sono ambienti solo in interni. Cosa che per altro ho sempre detestato.

– Quando penso a una storia sono come il protagonista di "Mattatoio n°5", continuo a passare da un momento all'altro della vita dei miei personaggi, magari su un'arco temporale di trenta o più anni. Tuttavia non mi sembra che la coerenza interna venga meno. A volte racconto conseguenze di cause che ancora non conosco, ma che di certo ci sono.

– Il mio registro è il malinconico, lasciata a me stessa niente drammoni, niente scoppi di risa. Cieli grigi. A volte mi faccio noia da sola.

– Il lettore ideale influenza molto la scrittura, se poi il lettore ideale è una persona concreta è tutto più scoperto.
"Questo è il personaggio preferito di X, devo assolutamente metterci questa cosa che X mi ha raccontato".
Insomma fanservice allo stato puro. Paradossalmente credo che il personaggio in questione ne sia stato molto arricchito.

– Devo lavorare di più sulla gestualità dei personaggi. Come si muovono, come camminano, le pose tipiche. Me le perdo via e rischio che diventino creature di puro pensiero, anche quando si tratta di individui che invece si esprimono molto con la fisicità.

– Nel tornare a scrivere un racconto per un concorso mi è venuta l'ansia.
"Oddio ora non so più scrivere per un pubblico generico". E ho pensato che sono proprio le frasi per cui il marito prenderebbe a sprangate me e i miei personaggi. E quindi ho finito il racconto. Vedremo poi che fine farà.

Voi come vi vedete riflessi nella vostra scrittura?

lunedì 27 agosto 2018

Letture – Mattatoio n°5


La capacità proprio della letteratura è quella di far arrivare alla verità attraverso la finzione.
Tuttavia vi sono esperienze al limite dell'umano che diventano tangibili attraverso la letteratura solo se arrivano da un'esperienza concreta.
Quei casi, che non auguro a nessuno, in cui qualcuno che è già uno scrittore o lo è in potenza si trova a vivere in prima persona esperienze drammatiche. Credo che esperienze al limite come la guerra o la prigionia siano davvero difficili da scrivere nel comodo di uno studio. Forse che sia persino un po' arrogante farlo. In effetti noi prof veniamo bersagliate da proposte letterarie a tema "Seconda Guerra Mondiale" e alcuni, che parlano di lager ma sono scritti dalla comodità di salotti riscaldati, devo dire mi urtano un po'.
Mattatoio n°5 è uno di quei libri in cui si tocca con mano lo strazio del vissuto.
Ed è un libro di fantascienza.

Il primo capitolo, una sorta di prologo, è, per certi versi, una delle cose più vere e strazianti che mi sia capitato di leggere.
Poche pagine raccontano in modo tanto vivido l'urgenza di scrivere e il disagio del doverlo fare, il pudore a raccontare qualcosa che si sente di dover narrare, che si è visto, sapendo che si andrà ad urtare delle sensibilità.
L'autore, americano di origine tedesca, durante la Seconda Guerra Mondiale è stato fatto prigioniero in Germania. Portato a Dresda, per un caso fortuito è stato alloggiato, insieme agli altri prigionieri americani, in un mattatoio sotterraneo, sopravvivendo così al bombardamento che ha raso al suolo la città uccidendo, inevitabilmente, per lo più civili.
In questo primo capitolo Vonnegut racconta la sua necessità di scrivere di quei fatti e i suoi scrupoli. Da un lato l'orrore per la guerra, qualsiasi guerra (il sottotitolo del libro è "la crociata dei bambini"), dall'altro il palpabile disagio che percepiva nel prospettare, negli anni '60, un romanzo sulla Seconda Guerra Mondiale in cui si empatizza con vittime tedesche. 
Il disagio dell'autore è palpabile, quasi si senta il suo grido trattenuto per qualcosa che lotta per uscire e il disgusto nel constatare che per molti ci sono morti (innocenti) che non hanno diritto neppure alla pietà per il solo fatto di appartenere "al nemico".

La soluzione è ricorrere a una fantascienza straniante.
Protagonista del racconto è Billy, uno spastico temporale.
La sua caratteristica è quella di avere una coscienza che continua a saltare da un momento all'altro della propria vita, che quindi viene esperita in modo non lineare. 
Un momento è il giovane soldato americano prigioniero a Dresda, che ogni tanto sfiora l'autore (con fortissimi cortocircuiti narrativi), un momento dopo è adulto, consapevole, magari, della morte di un moglie che non ha mai amato né odiato, un momento ancora ed è prigioniero di alieni che gli spiegano come il tempo coesista.
Questa percezione diacronica del tempo amplifica la sensazione generale di mancanza di senso. La percezione di Billy è di una vita affidata al caso, dove l'unica certezza è la capacità dell'uomo di far del male ad altri uomini. Dove ragazzi vanno in guerra senza capire bene il perché, finiscono per scontrarsi con altri ragazzi, in uno sconfinato paesaggio di vittime, senza neppure la certezza che i carnefici davvero esistano da qualche parte.

Ingenuamente, pur avendo già letto Ghiaccio nove, ho pensato che l'impianto fantascientifico avrebbe tolto forza a una narrazione che, di fatto, è memorialistica.
Errore.
L'impressione è un costante urlo di dolore nel vuoto. L'impossibilità ad accettare una mancanza di senso. Le infinite morti assurde che costellano il libro. Tutte di personaggi dimenticati e dimenticabili, gente su cui nessun libro di storia si soffermerebbe, come non si soffermano sui morti di Dresda.
Sono veramente molti i passaggi che risuonano come pugni nello stomaco, non ultimi i deliri fnatareligiosi che il protagonista legge in alcuni romanzi di fantascienza. E in effetti, c'è qualcosa che risuona in tutto il romanzo come un grido disperato a un dio assente, a un tempo che non può essere cambiato, all'illusione di un senso inesistente. 
Perché Billy, il protagonista, può anche trovare consolante, per certi versi, l'ineluttabile impossibilità di vere scelte (lui, che sposa la moglie perché già sa di averla sposata e ha già persino vissuto la vedovanza), ma è ovvio che per l'autore o il lettore non c'è alcuna consolazione. C'è la constatazione che sicuramente a qualcuno la guerra sarà sembrata giusta e necessaria, ma a farla sono stati ragazzini o quasi e che tutte le vittime, anche quelle odiose, hanno sofferto.
Come in Ghiaccio nove non c'è speranza di redenzione per l'umanità. Non c'è neppure l'arroganza della malvagità, se così possiamo chiamarla. Agghiacciante è il passo in cui Billy, a cospetto degli alieni, implora questi ultimi a fermare l'uomo, prima che distrugga l'universo. Ma gli alieni, che hanno un'altra concezione del tempo, dicono che non ce n'è bisogno, saranno loro a distruggere l'universo, per un banale incidente. L'umanità tutta non è che un piccolo accidente di cui non importa a nessuno.

Mattatoio n°5 è un libro da cui si esce spiazzati. Fa male. Ha angoli taglienti aguzzi di verità e disperazione.
Ed è un libro di fantascienza.

venerdì 24 agosto 2018

Essere semplice


Non era mia intenzione lasciare languire il blog per così tanto tempo, davvero, e me ne scuso con tutti.
A inizio luglio sono stata presa in contropiede da una stupido batterio, che a quanto pare ha trovato la strada spianata da un certo numero di malanni pregressi, e mi ha messo del tutto ko.
È stata una sciocchezza, ma è bastata a farmi toccare con mano alcune fragilità.
Poi è arrivata l'estate, quella vera, la pupattola a casa dal nido, le vacanze, le cose da fare, i racconti da scrivere e l'aggiornamento del blog è slittato fino ad ora.
In qualche modo ora cercherò di recuperare, perché ci sono cose da dire, libri di cui parlare, riflessioni da fare. Fuori dalla soglia di casa mia stanno accadendo cose su cui vorrei ragionare, cose che mi spaventano.
A volte penso di non essere in grado di trovare le parole per esprimere ciò che penso, che non sia il caso, altre che come prof, come quanto meno dilettante della parola, sia mio dovere provarci.

Per il momento vi lascio una canzone.
Ci sono stati giorni, quest'estate, in cui non ho fatto altro che boccheggiare ascoltando la radio (e ringraziando, nonni, amici, nido e chi chiunque altro si stesse occupando della pupattola in quel momento) e ogni tanto la radio passava una canzone di Diodiato.
Non è che mi entusiasmasse.
È che mi descriveva, alla perfezione.
Magari non la me stessa attuale che, almeno su alcune cose, si è un po' rappacificata con se stessa.
Descriveva alla perfezione la persona che sono stata a lungo e, per certi versi, non mi era mai capitato.


E chiedo scusa se non ho vissuto
Come gli altri mi dicevano
Se tutto quello che ho desiderato
Era più grande di me
E ora che sono qui mi manca il fiato
Vorrei davvero essere semplice
Ma so che è stupido considerato
Che non fa parte di me


"Vorrei davvero essere semplice/ Ma so che è stupido considerato/ che non fa parte di me"
Ecco, credo di essermi ripetuta mille volte questa frase.
Perché mi piacerebbe un sacco, davvero, essere quella che si definisce "una persona semplice". E io ho gusti da persona semplice, il che per certi versi non aiuta. Le cose che mi piacciono, che mi fanno stare bene, lo sono. Non c'è mai stato nulla di trasgressivo nelle mie azioni, ma i miei pensieri non sono, non sono mai stati e temo mai saranno, semplici. Non lo è il mio sguardo sul mondo. Né ho mai smesso di desiderare ciò che è più grande di me.
E sembra stupido, ma evidentemente non lo è, desiderare una semplicità che, semplicemente "non fa parte di me"

Per molto tempo sono stata esattamente questo ritornello. Ora molto meno.
Perché va bene, non sono semplice. Non lo sono neppure le persone che pian piano hanno iniziato a costruire il mio attuale, così amato, microcosmo. E alla fine ho smesso di cercare quella linearità di pensiero che, lo so, non potrà mai appartenermi.

In ogni caso è stato strano incappare per caso in una canzone che in tutta onestà non ritengo un capolavoro, eppure è il grado di descrivermi così bene.
A voi è mai capitato?

PS: i fiori in foto mi sono stati regalati il giorno della mia conferma in ruolo. Adesso sono, senza alibi alcuno, una prof vera.