lunedì 31 agosto 2015

Sandman Overture – Letture

Neil Gaiman è un autore di culto. Nel senso etimologico del termine. Credo ci sia gente con in casa un altare dedicato a Gaiman su cui ogni sera accende le candele. Lettori disposti a giurare che ogni singola riga uscita dalla sua penna sia più di un capolavoro, quasi le parole di un vate. Nel mondo di oggi, dove la scrittura vale poco o niente, può contare su una venerazione degna di una rock star.
Io non faccio parte di questo culto. Lo stimo moltissimo. Ho adorato American Gods e Buona apocalisse a tutti (scritto a quattro mani con quell'altro geniaccio di Pratchett), ho apprezzato I ragazzi di Anasazi e molti racconti. Ho però fatto una fatica improba a finire Stardust e ho abbandonato qualche altro romanzo, sopratutto quelli per ragazzi, che piacciono un po' a tutti, ma, evidentemente, non a me.
Poi c'è Sandman. E quando si parla di Sandman, ecco, penso che una candelina, in fin dei conti, potrei accenderla anch'io al genio di Gaiman.

Facciamo un passo indietro.
Gaiman esordisce nel lontano 1989 quando aveva meno di trent'anni come sceneggiatore di una serie di fumetti di casa Vertigo-DC. DC, quella di Batman e di Superman, sì. Come questo sia possibile, che Sandman viva (meglio esista) nello stesso universo di Superman è uno dei grandi misteri dell'umanità. Perché il fumetto a cui Gaiman dà vita è qualcosa di al di fuori di ogni schema, che si muove con leggerezza estrema tra alta letteratura e surrealismo.
Sandman è Oneiros, Sogno degli Eterni, un'entità che preesiste agli dei, figlia del tempo, e che governa i sogni. Ha infinite manifestazioni, tante quante le creature che possono sognare (meraviglioso è il Sogno dei gatti), ma appare preferibilmente nella serie come un uomo pallido vestito di nero. È malinconico e umorale, capace di immani errori e di quel misto di tenerezza e insensibilità che è tipico delle divinità del mito classico.
Perché questo è Sandman, un mito classico riportato in vita, a cui si aggiungono tutte le mitologie più recenti (compresi, in un certo senso, i supereroi DC). Quando leggo Sandman mi sento esattamente come un antico che al tramonto, nell'agorà di una qualche città arcaica, ascolta degli amori di Giove o degli dei che si fanno la guerra sulla piana di Ilio e ne rimane affascinato, anche se l'essenza stessa degli dei continua a sfuggirgli. Questo è il potere evocativo delle storie di Sandman.

Dopo anni, dopo i romanzi che l'hanno quasi mitizzato, Gaiman torna a scrivere di Sandman con questa Overture, che di pone prima dell'inizio della serie classica (che vedeva Sogno tornare libero dopo una lunga prigionia) e ambientata nel 1915 (per quanto poco il tempo degli uomini possa influenzare le vite degli Eterni...).
Sogno e il Tempo. E tutto si fa relativo.
Una delle manifestazioni di Sogno, il Sogno delle piante senzienti di un pianeta lontano, viene uccisa. Qualcosa di profondamente "sbagliato" sta accedendo nell'universo e Sogno deve indagare su cosa sia. Un inizio classicissimo per una storia che ha nel surreale il suo tratto distintivo. Tra il Tempo che osserva tutto quanto accade da un ottica, ovviamente, esterna al tempo stesso, Sogno che raduna tutte le manifestazioni di se stesso e si mette a discutere se sia in atto un dialogo o un monologo, il lettore non ha molte alternative al lasciarsi cullare dalle le meravigliose tavole di J. H. William III. L'artista riesce a dare vita al mondo degli Eterni con disegni dai  mille richiami artistici, che spaziano dal liberty all'astrattismo, con, ovviamente, largo spazio al surrealismo. È, il caso di dirlo, un sogno quello in cui ci si immerge. Un viaggio di cui non importa tanto la meta (che comunque, si sa, finirà male, presumibilmente con la cattura di Sogno), ma il vagare per l'universo nella dimensione degli Eterni, accompagnati da Sogno e dal Sogno dei gatti, che coesistono e sono uno allo stesso tempo, alla ricerca, pare, di una stella impazzita.

In viaggio con Sogno e Sogno dei Gatti


venerdì 28 agosto 2015

Più di qualche goccia del mio sangue – scribacchiando


Il mio romanzo è arrivato al capitolo 35. Ne mancano 4/5 al finale, quindi è plausibile che non riesca ad attenermi all'indicazione di King di terminare la prima stesura in 3 mesi, ma mi adagerò, senza troppi sensi di colpa, anche sulla prima settimana di settembre.
Adesso che il finale è in vista e ben delineato posso iniziare a dare un primo sguardo d'insieme e a preoccuparmi per il futuro. Perché questo è il primo dato che emerge. C'è più di una goccia del mio sangue, qui. Chi mi conosce e sta leggendo le bozze se ne è accorto subito, ma ci sono parti di me anche negli angoli più nascosti della trama, nelle righe di passaggio, nei chiaroscuri dei personaggi. Posso aver scritto rapidamente la prima bozza del romanzo, ideato a maggio e iniziato a giugno, ma non è una storia che possa accantonare in un cassetto, a cui fare ciao con la manina e passar oltre, perché c'è davvero più di una goccia del mio sangue, lì dentro.

Sin dall'inizio della stesura, mi sono proposta di condividere con voi ansie e riflessioni sull'impresa. Ecco quindi cos'è capitato ad agosto al mio romanzo in stesura e qualche considerazione sparsa.

Alberi che spuntano in una notte e personaggi che cambiano sesso
Quella che arriverà alla parola "fine" in realtà sarà già una versione 1.5.
Non riesco a separare fino in fondo la stesura dalla revisione. Scrivo, rileggo, scrivo, ricontrollo, modifico. Mi interrogo sulla coerenza del tutto. Leggo i commenti dei lettori di prima stesura. Mi interrogo, scrivo, cancello, torno indietro, riscrivo.
Questo romanzo, se mai vedrà la luce, sarà un giallo che colpirà per personaggi e atmosfera, più che per l'intreccio a orologeria. Questo non vuol dire che la parte puramente gialla, la meccanica dello svelamento del colpevole, non debba funzionare, anzi. È la parte che sin dall'inizio mi ha dato più da pensare, su cui più ho chiesto consigli. A un certo punto ho avuto bisogno di più indiziati. Quindi c'è un albero che è stato aggiunto a posteriori e ripiantato nei capitoli precedenti, cosa che un po' mi scoccia, perché l'ambientazione è un luogo reale e nella realtà quella pianta non c'è.
Appurato poi che l'assassino doveva essere, al 95%, un uomo, mi sono resa conto di aver troppi pochi uomini sospettabili. Nell'impossibilità di aggiungere un ulteriore personaggio (per il tipo di romanzo che sto scrivendo sono già pure troppi) non restava che costringere uno dei secondari a un brusco cambio di sesso. Ne è nato un surreale scambio di messaggi e mail. Perché mi sentivo un mostro. Come se stessi davvero imprigionando la povera Annarita per portarla a sottoporsi contro la sua volontà a una turpe operazione che l'avrebbe trasformata in Giulio. Alla fine un'amica mi ha suggerito che, magari, nel cambio ci poteva guadagnare. Così la zitella Annarita si è trasformata in un marito soddisfatto con un bel figlioletto. Mi sento comunque un po' in imbarazzo e in colpa... È pure passato da testimone a indiziato...
A voi è mai capitata una cosa del genere? Siete soliti modificare in corsa alcuni elementi della storia? Vi sentite in colpa per come trattate i personaggi?

Gli elementi del giallo di successo: ne avessi azzeccato uno per sbaglio
Con un po' di polemica e molta lucidità la giovane libraria evidenzia in questo post le caratteristiche del giallo italiano di successo. Quando a suo tempo andai a parlare con Il Grande Editore per un progetto poi mai andato in porto, tornarono fuori proprio pari pari.
Ebbene, in questo romanzo ne ho centrato manco uno, neppure di striscio o per errore. Vediamo un po':
 Il commissario. Ho due protagonisti, nessun commissario. Che poi non è colpa mia se in zona ci sono solo i carabinieri, no? No, certo, non ho neppure un maresciallo in servizio attivo come protagonista...
L'omicidio splatter. Il mio omicidio è assolutamente, totalmente banale. Di quelli che succedono, purtroppo. Niente sangue a badilate. Anche perché della vittima vengono ritrovate solo le ossa. Niente sangue proprio.
Il paesello addormentato. Qui ci andiamo più vicini. Il fatto è che il paesello sembra addormentato, molto più di quanto non lo sia in realtà. Diciamo che su questo stereotipo di successo posso prendere 5/10. Comunque sotto la sufficienza.
L'investigatore problematico. Dice la regola che se non è un commissario per bene, il protagonista è un investigatore problematico dall'oscuro passato. La mia protagonista fa un mestiere insolito a cui è capitata per caso, per una serie di circostanze (per altro plausibili, dato che ho preso spunto da gente che esiste davvero). Nessun trauma infantile pervenuto. Il protagonista ha subito un trauma, se vogliamo, alla verde età di 37 anni, che non ha pertanto potuto influire sulla scelta professionale. E in ogni caso non è morto nessuno.
I personaggi di contorno. Come già dicevo nelle scorse puntate, non ho spalle comiche, né personaggi che alleggeriscono. Il personaggio che fa da spalla ai protagonisti ha i suoi seri e motivati problemi e un velo di malinconia spesso all'incirca un metro e mezzo si stende su tutti gli altri. Se poi volessimo sognare in grande e sognare in serie, sarebbe ipoteticamente possibile un secondo episodio, ma location e personaggi secondari non sarebbero riutilizzabili.
Poi aspettate, ci sono gli elementi di successo anche per gli assassini. Che almeno qui ci abbia preso?
L'assassino crudele e violento. Abbiamo detto che della vittima si trovano solo le ossa. Vi sembra che un assassino crudele e violento (possibilmente seriale) che vive in un paesello possa farla franca per anni? Magari se avesse dei superpoteri, ma io pensavo di voler scrivere un giallo, non un fantasy...
L'assassino col trauma infantile. A dire il vero non so molto della sua infanzia. Non me ne frega gran che. Magari potrei mandarlo da uno psicanalista per vedere se c'è qualcosa. In ogni caso non ha molto a che fare con la mia storia.
Insomma, niente da fare, sono bocciata su tutta la linea. Ci farei una bella risata sopra, se non mi tornasse in mente il colloquio col Grande Editore che cercava proprio questo tipo di giallo.
Voi su questo punto come ve la cavate? Il vostro romanzo aderisce al "canone" del genere a cui appartiene (ammesso che ne abbia uno)?

Sono, quindi, in una strana fase in cui alle preoccupazioni per la stesura si sovrappongono quelle del dopo. Tante preoccupazioni e un'unica certezza: nelle pagine scorre più di una goccia del mio sangue. Non sono "legata" a questa storia. È mia. E in qualche modo dovrò lottare per lei, anche se non so come o dove.

mercoledì 26 agosto 2015

Natura e mondo classico – Saccenza non richiesta

Fonte: Wikipedia
In questo fine agosto di attesa (di capire che ne sarà di me a livello lavorativo, letterario e personale, che qui il precariato sta raggiungendo livelli esistenziali) ho poca voglia di parlare di scrittura. Quindi, nello spirito da magazine multiargomento del blog, ho deciso di inaugurare un'ulteriore rubrica: saccenza non richiesta.
Sono oppressa da una scarsissima resistenza alla noia e da una curiosità onnicomprensiva a cui si aggiunge un'ottima memoria per tutto ciò che non siano date e nomi propri. Ne consegue che accumulo nozioni senza alcuna utilità pratica e che tutta questa saccenza compressa ogni tanto debba venir fuori in modo spontaneo e quindi, non richiesto. La rubrica, quindi, avrà la solita periodicità "quando mi pare" e gli argomenti potranno spaziare dall'archeologia all'astrofisica, passando eventualmente per le preferenze sessuali dei merli. Cercherò di scrivere solo di argomenti che effettivamente padroneggio fornendo un minimo di riferimenti bibliografici a supporto.

Lo spunto per la rubrica me l'ha data la visita della mostra sulla natura nell'antichità esposta a Palazzo Reale a Milano. Mostra ricchissima di pregevoli reperti e debolissima di contenuti (sopratutto per quanto riguarda il mondo greco), cosa a cui la mia saccenza sente di dover porre rimedio.

NATURA E MONDO GRECO CLASSICO

I GRECI E LA NATURA

Gente di città e non di bosco
Il rapporto tra gli antichi greci e la natura è, curiosamente per una civiltà antica, più che altro un non rapporto.
I greci sono cittadini della polis, della città, sono i barbari incivili e i in particolare i galati (i celti) e i parti a vivere a contatto con la natura (da bruti quali sono), oppure sono donne selvagge da sterminare, come le Amazzoni. L'interesse del greco è incentrato sull'uomo, nell'arte, nello sport e nella filosofia, è sempre l'uomo il centro della speculazione, fino a che il filosofo Protagora arriverà a dire che "l'uomo è la misura di tutte le cose".
Del resto non è che i poveri greci abbiano un gran rapporto con le forze primigenie della natura e con gli dei che le comandano. Ogni tanto Gea, la madre terra, va da Zeus e "gravata dal peso di troppi uomini" (lo si legge in Eschilo) chiede che sia mandata un po' di guerra per sfoltirli. Amorevole, no?
Del resto per Zeus gli uomini sono tutt'altro che dei figlioletti prediletti, anzi. I greci hanno dovuto elevarsi da soli e con fatica dallo stato di natura, rubando il fuoco agli dei e pagandone un terribile prezzo. Anche se si sussurra che Urano (tipetto per altro poco raccomandabile) abbia insegnato agli uomini l'agricoltura, l'uomo greco è uno che si è fatto da sé, si è elevato dal suo stato di natura e le forze primigenie le onora più che altro per tenersele buone.
Con il mare ha un rapporto un pochino migliore che con la terra, ma solo perché lo conoscono meglio, Poseidone rimane un tipo da non irritare, così come i molti mostri marini, come Scilla e Cariddi.
La natura, quindi, se ne sta fuori dalla Polis. Ci si interagisce il meno possibile e, nel caso, si cerca di rabbonirla come si può.

L'eccezione di Artemide
L'unica divinità davvero connessa con la natura selvaggia, con i boschi e la caccia, è Artemide. In quanto selvatica, la dea ha un pessimo carattere, si può andare nei suoi boschi a cacciare, ma basta uccidere un cervo di troppo e la cosa finisce in tragedia (ne sa qualcosa Agamennone, che uccide per errore una cerva sacra e poi deve sacrificare alla dea la propria figlioletta Ifigenia).
Il modo giusto per onorare Artemide è fuori città, ma per poco tempo. Le fanciulle di Atene, alla fine della loro infanzia, passano qualche tempo nel tempio della dea, nel bosco, vestite di pelle (le orsacchiotte di Artemide). Poi lasciano i boschi e la natura, tornano alla polis e possono sposarsi, entrando a far parte della vita cittadina, non selvatica e generativa.
La cosa curiosa del rapporto tra i greci e la natura è infatti che solo chi sceglie la polis, la città, è generativo, di figli e di idee. C'è chi sceglie i boschi e Artemide, non rientra nella città, ma rimane bloccato in una sorta di eterna fanciullezza/preadolescenza e non può diventare madre o (più comunemente) padre.
Il mito è pieno di bei fanciulli (più raramente fanciulle, come Atalanta) che, seguaci di Artemide oltre il tempo consentito, rimangono nei boschi, amano la dea di un amore casto e non si uniscono a nessun altro. Cosa che, per altro, di solito fa infuriare Afrodite e porta a far finire malissimo questi bei fanciulli. Per chi volesse approfondire questo aspetto consiglio Il cacciatore nero di Vidal-Naquet.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, quindi, la natura selvaggia non è fertile. Quella per la vita selvaggia è un'infatuazione fisiologica in età giovanile, ma poi bisogna tornare alla polis e ai propri doveri di cittadini, chi sceglie di rimanere nei boschi non genererà figli e tendenzialmente finirà male.

Altre eccezioni che vengono da lontano e portano guai
Le forze della natura, però ci sono e sono portatrici di forze selvagge e incontrollabili. Per questo contrarie alla polis, all'ordine e potenzialmente distruttive.
Ci sono almeno due altre divinità greche connesse agli aspetti più selvaggi della natura.
Cibele, la grande dea, che viaggia con un carro trainato da leopardi. Viene però percepita come straniera, orientale. Viene onorata, ma percepita come straniera, quasi una presenza disturbante nell'organizzazione razionale della polis. Un rapporto del tipo "va beh, non possiamo fare finta che non esista, però Cibele (con tutto quello che rappresenta) non sarà mai una di noi".
La seconda e più complicata divinità è Dioniso.
Complicato, se vogliamo, è già il suo rapporto con la natura. In quanto dio del vino è connesso più all'agricoltura e quindi a una natura addomesticata, anche se pare abbia un passato oscuro di età micenea, in cui era dio della vegetazione tutta. In quanto dio dell'ebrezza e delle passioni primordiali è invece connesso con la parte selvaggia che c'è dentro di noi. In questo senso è una divinità che va onorata e temuta. Onorare Dioniso vuol dire guardare negli occhi la parte selvaggia dell'uomo. Non a caso le tragedie, con le loro passioni scatenate e il peggio dell'uomo in scena, sono sacre a Dioniso e sono, secondo Aristotele, catartiche, perché aiutato a buttare fuori il peggio che c'è in noi. 
In Dioniso, però, c'è qualcosa di ancora più pericoloso. Non a caso, come Cibele, viaggia su un carro trainato da bestie feroci. Egli può, quasi letteralmente, trasformare gli uomini, persino le donne, in belve, farle regredire allo stato più selvaggio e indomabile. È il caso delle menadi, le folli di Dioniso, in grado di squartare e fare a pezzi anche gli animali selvatici e di nutrirsi delle loro carni nude. Al peggio, possono squartare e mangiarsi anche esseri umani. In particolare le menadi hanno la brutta abitudine di squartare (e mangiarsi?) uomini che hanno sottovalutato/deriso/cercato di fermare Dioniso e spesso, tornate in loro, si rendono conto che la loro vittima è un loro caro. Questo perché le menadi, pur nella loro pericolosa follia, sono sacre e non vanno mai fermate.
Di nuovo, quindi abbiamo una visione della natura come forza distruttiva e non generatrice, ma distruttrice. In questo caso una natura folle e incontrollabile che dorme dentro l'uomo (e la donna) civile e lo/la porta a compiere gesti innominabili e tuttavia sacri, perché voluti da un dio.
Ancora una volta un dio connesso alla natura è da onorare più che altro perché ti lasci in pace, non per avere la sua benevolenza..

La natura come campo d'indagine dell'intelletto.
La natura, quindi, è per l'uomo greco ciò che sta fuori dalla polis, un mondo selvaggio e pericoloso in cui è bene non indugiare oltre il tempo stabilito.
Dall'interno della polis, come cittadino della polis, però l'uomo la può studiare, con il fascino diffidente con cui noi studiamo il cosmo extraterrestre. Se l'uomo è misura di tutte le cose, può indagare, catalogare, spiegare le cose come sono e come funzionano.
La filosofia nasce come indagine sulla natura e diventa poi, pian piano, scienza nel senso proprio del termine. Abbiamo chi butta al macero le vecchie leggende e calcola l'esatta dimensione della terra, chi, come Aristotele, inizia a catalogare tutto, piante, animali, fenomeni naturali, chi inizia a disquisire sulla natura più profonda delle cose, arrivando a teorizzare l'atomo. Gli epicurei, che non a caso sono atomisti, teorizzano degli dei completamente disinteressati al mondo umano. Senza quelle vendicative divinità della natura in mezzo, quindi, si può indugiare anche nei boschi e nei luoghi selvaggi, ma non succubi della natura, come uomini della polis, dotati di logos e quindi capaci di sottomettere e comprendere anche le leggi ultime del cosmo. Alla fine, suppongo, il sogno dell'uomo greco è di annettere una natura ormai spiegata alla polis.

In definitiva il rapporto tra l'uomo greco e la natura è interessante proprio perché si pone in opposizione ad essa, ne ha paura e non ci indugia oltre il tempo stabilito (se no sono guai). Per questo l'arte greca, specie quella classica, non indugia molto sulla natura. Studia l'uomo nel dettaglio, crea statue dall'anatomia perfetta, ma non dedica altrettanta attenzione ad animali e vegetali, se non quando sono attributi di divinità.

Conclusioni.
Quello che mi ha colpito, in tutta questa indagine è stato:
– La natura selvaggia per i greci non è connessa alla fertilità. Anzi. Secondo Platone, del resto, la vera fertilità è solo quella del pensiero e non può che generarsi all'interno del discorso filosofico dentro la polis. Chi sceglie Artemide non sarà mai padre, ne di bimbi ne di pensiero.
– La terra non è una madre benevola per gli uomini. Hera non è una madre benevola per gli uomini (ricordiamo che regala alla sua sacerdotessa una rapida morte per i figli...). Artemide è connessa alla terra e non è madre affatto. Cibele è connessa alla terra, è madre, ma non si sa di chi. Di certo non dei greci. Poca presenza di una madre terra generatrice, mi pare.
– La natura selvaggia che fa paura ai greci è quella interna all'uomo. Artemide, Poseidone e tutte le altre divinità connesse agli aspetti selvaggi della natura possono portare grandi disgrazie, ma è quando Dioniso che si impossessa di te, scatenando i tuoi istinti più profondi che puoi squartare tuo figlio. Tuttavia, mentre quando fai arrabbiare Artemide, Poseidone e similia un po' te la sei andata a cercare, di Dioniso puoi essere puro strumento e quindi sacro.
– L'uomo può indagare la natura, ma senza mescolarsi ad essa, col proprio logos, stando nella polis. Chi sceglie i boschi come propria dimora rinuncia alla filosofia, alla saggezza e a tutto ciò che rende l'uomo tale.

Saccenza condivisa, bibliografia
Canfora L. – Il mondo di Atene, Laterza
Eschilo – Tragedie (in particolare Agamennone)
Euripide – Baccanti
F. Graf – Il mito in Grecia, Laterza
Duby G, Perrot M. –Storia delle donne in occidente, Vol1, cap.1, Laterza
Vidal-Naquet P. – Il cacciatore nero, forme di pensiero e forme di articolazione sociale nel mondo greco antico, Feltrinelli


E i romani?
I romani hanno già un rapporto più ambiguo con la natura. Anche loro si riconoscono come urbani, nel senso di "cittadini dell'urbe" e non pagani "cittadini dei villaggi" o, peggio, abitanti dei boschi. Subiscono, però, il fascino della natura selvaggia (il circo, con uomini contro belve, sarebbe inammissibile nella Grecia Classica delle olimpiadi, uomini contro uomini) e conservano tracce di una ritualità antica, molto più connessa alla natura di quanto forse loro stessi ne fossero consapevoli (penso in particolare ai riti legati al "Re di Nemi"). Si tratta però di argomenti poco indagati da chi cavilla su queste cose per lavoro e su cui io non mi sento di addentrarmi.

Spero che questa prima puntata di "Saccenza non richiesta" sia stata il giusto mix tra interesse e noia soporifera e che, chissà, magari possa ispirarvi qualche racconto.

lunedì 24 agosto 2015

Scotland Bart – Un Cluedo formato città


Con questi manifesti che tappezzavano la città (città... Insomma, tutto è relativo) vicina al mio paese di residenza, potevo, da giallista quale sono, restare a guardare?

Complice una collega amica determinata a formare una squadra, sabato io e Nik ci siamo presentati nella piazza principale di Borgomanero per partecipare al gioco investigativo "Scotland Bart".

Lo ammetto, le perplessità c'erano. Un po' l'età non verde, un po' l'idea di dover scorrazzare per la città in mezzo allo struscio del sabato, un po' la paura che tutto si risolvesse in fuffa.
Invece il porticato della chiesa parrocchiale era stato trasformato in un commissariato. 
La situazione, ci hanno spiegato, era seria: qualcuno ha rubato la reliquia del santo patrono a due giorni dalla festa! Urgeva scoprire il ladro, il luogo dove si nascondeva la refurtiva e il mezzo usato per trafugarla. Gli indiziati erano tutte personalità del paese, dal sindaco, al prete, fino alla maschera simbolo della città, pertanto era stato preparato un cartellone riassuntivo con i dati e le dichiarazioni di tutti, esposto in piazza. Alle squadre investigative (credo fossero otto o dieci quindi, con un minimo di otto membri e un massimo di dieci a squadra eravamo un bel numero) è stato quindi consegnato un sacchetto con ulteriori indizi (una lettera cifrata, una mappa della città, un cruciverba e un gioco matematico) e siamo stati lasciati a investigare.
Ben presto ci siamo accorti che ben mascherati c'erano indizi appesi per la città, finti avvisi pubblici, finti cartelloni pubblicitari... Mentre in alcuni punti strategici dei testimoni ci offrivano delle prove da superare in cambio della loro versione dei fatti o di indizi aggiuntivi.
Inutile dire che tutte le perplessità sono sparite già alla vista della lettera cifrata: eccoci subito accampati in mezzo a una piazza per decodificarla. E poi via alla ricerca dei testimoni.
La città intera si è messa a disposizione del gioco. Una delle tappe ci ha portato in una chiesetta romanica, il vero gioiello artistico del paese, e la prova proposta obbligava a studiarne gli affreschi. Poi di corsa in posta, dentro una cabina del telefono, nei parchi pubblici, in oratorio, alla stazione dei pullman e poi di nuovo in piazza.
Ben presto ci siamo resi conto che il vero nemico era il tempo, nonostante fossimo rapidissimi nella risoluzione degli enigmi il mero spostarci ci rubava tempo prezioso, complice il divieto a dividere la squadra. Quindi via di corsa, proprio quando lo struscio del sabato raggiungeva il suo culmine. Inevitabile incontrare qualche volto noto a cui fare un saluto veloce del tipo "ciao, beh, non posso fermarmi, sai devo catturare un ladro!".
Qualche fraintendimento c'è stato. Abbiamo perso tempo a setacciare dei luoghi pensando che la refurtiva andasse recuperata fisicamente e abbiamo ignorato uno degli enigmi più lampanti.
Siamo tornati in piazza trafelati, qualche minuto dopo il termine ufficiale, ma abbiamo conquistato nonostante tutto un inaspettato terzo posto.
Mentre la piazza si riempiva per il promesso rinfresco, ci è stata consegnata una coppa ricolma di caramelle, meritata ricompensa per il pomeriggio d'indagini.

Strano a dirsi per una giallista, ma non avevo mai partecipato a un gioco investigativo, né a una cena con delitto. Di questo Cluedo formato città mi ha convito sopratutto l'ottimo sfruttamento degli spazi e della storia cittadina. Dietro il furto delle reliquie, si è scoperto, c'erano numerose trame di boicottaggio alla festa tradizionale per svariati motivi e le varie personalità si sono prestate a svolgere il ruolo di indiziati (tanto che la foto ufficiale ai vincitori è stata fatto con al centro il colpevole in persona). La città stessa è stata sfruttata al meglio, con i suoi luoghi caratteristici, i suoi parchi e i suoi monumenti.
Va detto che da anni l'oratorio di Borgomanero, che organizzava l'evento, si dà da fare per promuovere iniziative che coinvolgano il paese e l'intera cittadinanza, al di là di ogni diversità. Questo mi è sembrato un modo particolarmente riuscito per vivere in modo diverso il paese, organizzato (credo) con poca spesa, tanta inventiva e molta collaborazione.

sabato 22 agosto 2015

Sulla spendibilità della cultura tutta

Quello che accade quando non c'è trasmissione culturale.
Installazione a La Rochelle – Foto: Tenar



"Michelangelo, caro, lo so che ti piace scolpire, ma che utilità ha per la società? Tutto questo tuo ostinarti a studiare l'arte antica, roba morta e sepolta... Dai retta a me, impara a costruire ponti. È più remunerativo per te e più utile a tutti!"

"Signor Fermi, cos'è questo suo sghiribizzo di studiare fisica! Forse è perché lei ha fatto il classico, liceo inutile che l'ha rimbambito con tutte quelle robe vetuste! Bisogna studiare scienze applicate, che sono utili, mica roba teorica. Ma lo sa quanti ingegneri minerari mancano in Italia?"

Puntuale, con l'avvicinarsi della riapertura delle scuole arriva la polemica italiana sulla "cultura che serve e la cultura inutile".
Arriva, puntuale, il politico a proporre l'abolizione del vetusto liceo classico e si arriva anche ad affermare, da parte di voci autorevoli, come vicedirettori di quotidiani (qui il link al post) che affrontare certi studi non sono è inutile. È dannoso.
La tesi è semplice, gli studi umanistici non servono a niente e non producono ricchezza, chi li intraprende non avrà carriere utili e remunerative, quindi investire su questo genere di cultura non sono è inutile, è un peso per la società. 
Studiare letteratura, storia dell'arte, musicologia è dannoso. La bellezza tutta è dannosa, non produce ricchezza. Studiare storia, conoscere il proprio passato è dannoso. Studiare sociologia, capire come funziona e come si modifica la società pure.
Viviamo in uno strano paese, l'Italia, che non sono non sfrutta le sue risorse, se ne vergogna. Si vergogna della propria bellezza. Altrove si fanno serie tv sulla musica classica (Mozart in the jungle), cosa che suppongo abbia il suo bell'indotto e il suo tornaconto economico (e immagino che sceneggiatori, registi, musicisti e costumisti siano tutti laureati in ingegneria), noi ci vergogniamo della lirica e del bel canto. Chi va all'opera non lo fa tanto sapere in giro, essere giovani e ascoltare Verdi dà l'idea di essere più perverso che frequentare locali di scambisti.
Non cerchiamo, non restauriamo, non curiamo e non valorizziamo il nostro patrimonio. Lasciamo che  Pompei vada in pezzi, che l'opera d'arte italiana più conosciuta e vista al mondo sia La Gioconda che sta al Louvre, mentre gioielli come il Brera (tanto per citare uno dei miei musei preferiti) agonizzino a lato dei circuiti turistici principali. Poi ci lamentiamo che la Francia (con i suoi musei impeccabili, i suoi monumenti lindi e il suo orgoglio quasi irritante per il proprio patrimonio) sia lo stato europeo che attrae più turismo internazionale. Immagino che la gente vada in Francia per spiagge e discoteche, no?
Non abbiamo nessun programma di incentivo per i giovani autori, perché, si sa, la gente legge poco e i libri sono inutili, che dai libri poi si traggano sceneggiature di successo, film, serie tv e quant'altro è un dato del tutto secondario. L'intellettuale italiano che più negli ultimi anni ha fatto parlare di se e delle sue opere in Italia e all'estero, Saviano, lo si accusa di dare una brutta immagine del paese.
Intanto i vari Dan Brown continuano a mietere milioni di euro e di dollari romanzando Leonardo e Dante, segno che alcuni nomi simbolo della cultura italiana sono da soli dei brand in grado di generare ricchezza, anche quando sono usati assolutamente a sproposito. Comunque noi, nel dubbio non li utilizziamo affatto, sia mai. Anzi, che idiozia rimanere ancora ancorati all'idea che leggerlo, Dante, sia un buon uso del nostro tempo. Potremmo fare che toglierlo direttamente dai programmi scolastici! Infatti immagino che le agenzie pubblicitarie che facevano a botte per mandare i propri spot sulla RAI prima e dopo le letture della Divina Commedia fatte da Benigni lo facessero per masochismo, non perché la Divina Commedia fosse in grado di generare ascolti e, quindi, ricchezza.
Il fatto che gli studi umanistici non possono generare ricchezza è una di quelle classiche profezie che si auto avvera. Non credo che possano generare ricchezza, non ci provo, quindi constato che non genero ricchezza e sconsiglio chiunque dal provarci.

Questa situazione non è nuova in Italia, ma sta raggiungendo ora dei livelli preoccupanti. Fino a poco tempo fa gli unici accusati di inutilità e non spendibilità erano gli studi umanistici. Le scienze tutte ne erano assolte. Adesso ad ogni notizia che giunge dallo spazio si assiste a inquietanti articoli e servizi tv su quanti soldi siano stati spesi per così miserabili obiettivi. Quanto costano due fotografie da Plutone? Tantissimo, in termini assoluti, pochissimo in termine di euro/persona. Il progetto europeo Rosetta è costato a ciascun cittadino EU circa un euro (qui un articolo di approfondimento leggero, ma fondato). Quali sono le ricadute per la società di tutti questi soldi buttati per lo sfizio di andarsi a prendere un campione di cometa? Questo articolo mi conferma che moltissimi oggetti di uso comune e di ritrovati medici, alcuni dei quali di indubbia utilità come la risonanza magnetica, derivano dagli studi fatti per lo spazio.
Il semplice fatto che fare due foto di Plutone sia difficilissimo porta a studiare strategie nuove e creative che poi verranno applicate a usi civili. Mi sento un po' cretina a scrivere queste cose che mi sembrano di una banalità imbarazzante, ma quando il tg4 mi offre un servizio che fa passare per pazzi incoscienti che sperperano i nostri soldi gli scienziati che esplorano il cosmo, mi faccio un sacco di domande.
Perché in Italia assistiamo a questo sistematico denigrare la cultura? Perché qualsiasi cosa che non sia  ovviamente indispensabile, come saper curare una malattia o tirar su un ponte, viene visto come un inutile sfizio che solo i ricchi sfaccendati possono permettersi? È solo stupidità o c'è una precisa volontà di controllo?
Com'è possibile che questo sia in atto proprio in Italia, terra di artisti, letterati, esploratori e scienziati? Gente che si è dedicata studi artistici, letterari o scientifici oggi considerati velleitari.

Ma ve li immaginate questi teorici della spendibilità della cultura a spiegare al giovane Michelangelo o al giovane Fermi cosa dovevano studiare?
Sicuramente avrebbero con grande lungimiranza prodotto ricchezza utile per il paese!

giovedì 20 agosto 2015

Expo!

Inevitabile, almeno per chi abita in zona, la gita all'Expo.
Inevitabile anche il post di commento.

UNA QUESTIONE DI ASPETTATIVE
Vivendo relativamente vicina all'area dell'Expo sono stata precocemente esposta a tutta una serie di polemiche e obiezioni sull'evento in sé e sulla sua realizzazione che in parte trovo condivisibili.
Tralasciando i più che legittimi dubbi sulla trasparenza degli appalti, la destinazione finale del sito, la gestione degli sprechi all'interno della manifestazione, una gestione dell'informazione non sempre all'insegna della trasparenza, dal punto di vista del visitatore, molto è una questione di aspettative.
L'Expo è un'esposizione internazionale in cui i vari stati si mettono in mostra, si fanno conoscere, creando installazioni e attrazioni più o meno inerenti a un tema, in questo caso "Nutrire il pianeta". Né più né meno. Inutile pensare di accedere all'Expo con lo stesso spirito con cui si va a una giornata di studio, inutile pretendere autocritica dagli stati che vogliono promuoversi e mostrarsi al meglio. Inutile pretendere che non siano gli stati più nazionalisti/quelli con una necessità più o meno impellente a ripulire la propria immagine a mettersi più in mostra. Tutti cercano di presentarsi come dei posti meravigliosi in cui chiunque vorrebbe vivere, anche quando si tratta di paesi con risaputi problemi nel rispetto dei diritti umani. Non credo si debba pretendere da questa manifestazione quello che non è. Tutto questo, come la presenza anche invasiva delle multinazionali, fa parte del mondo in cui viviamo, Expo espone uno status quo, piuttosto che proporre valide alternative per un mondo migliore. Non è e non può essere il social forum.
Accettato questo fatto, si può decidere o meno di visitarlo.
Personalmente io sono andata per trascorrere una giornata diversa, vedere cose insolite e mangiare solo cibi che non avessi mai assaggiato. I miei obiettivi sono stati raggiunti.

INIZIAMO BENE...
Sono partita dalla stazione di Arona, insieme a un foltissimo gruppo di turisti italiani e stranieri che hanno scelto di soggiornare sui laghi e di visitare l'Expo in treno.
Come promesso i treni erano numerosi, però...
Io ho viaggiato molto in treno e non mi faccio alcune illusioni sulle ferrovie italiane. Tuttavia il mezzo che ci ha portati all'Expo non so dove sia stato recuperato e di certo era tenuto insieme solo dalla sporcizia. Durante gli anni dell'università, ho viaggiato molto in Europa con mezzi pubblici e i treni dei paesi dell'est erano infinitamente meglio di questo. Nelle facce schifate dei turisti stranieri si vedeva la conferma dei loro peggiori pregiudizi.
Poi va detto che il treno è arrivato in orario e l'ingresso (con la sua ora e mezza di coda) era proprio a due passi.
Al rientro il treno sembrava necessitare un pochino meno di una immediata decontaminazione, però aveva 10' di ritardo ed emanava inquietanti odori (del tipo "si è fuso qualche elemento essenziale e stiamo per andare in pezzi..."). 

TRA CREATIVITÀ E FUORI TEMA
L'Expo è bello. Sfido chiunque a negarne il mero valore estetico. I padiglioni vanno dall'elegante al folle, con tutta una serie di gradazioni nel mezzo. Gli architetti si sono sbizzarriti nella costruzione di strutture ardite o giardini verticali. Io ho apprezzato molto anche quelli orizzontali e le foto dei fiori dei post di scrittura delle prossime settimane arriveranno principalmente da lì. Complice il clima gradevole, passeggiare tra padiglioni e giardini è già cosa che valga il prezzo del biglietto.
Poi all'interno dei padiglioni ognuno ha dato sfogo alla propria creatività/afflato nazionalistico per cercare di creare qualcosa di memorabile sul tema "nutrire il pianeta".
Alcuni stand erano semplicemente troppo inflazionati, andando in una delle giornate di massima affluenza me lo aspettavo e, anche se un po' di rimpianto per Giappone e Corea rimane, ho comunque visitato un gran numero di paesi.
Sull'effettiva aderenza al tema ci sarebbe molto da dire. Chissà se l'Azerbaigian ha avuto dei problemi di traduzione? Il suo bel padiglione aveva palesemente come tema la musica, con qualche cibo posticcio messo all'ultimo momento per aggiustare il tiro, come i temi di certi alunni, che parlano di tutt'altro e poi nell'ultima frase cercano di rimediare...
Il Turkmenistan si è messo di grande impegno per spiegare dove si trovasse, ma più che gasdotti e oleodotti non aveva da presentare, mi rimane l'idea che lì mangino derivati del petrolio...
L'Angola, invece, si è applicata moltissimo, in un padiglione enorme e fin troppo ricco, da cui, però, si poteva uscire con una massa encomiabile di nuove informazioni.
Qualcuno la butta più sul gioco, sfido chiunque, mentre affronta la rete del Brasile, attento a non cadere, a pensare al suo significato profondo e anche il bel padiglione della Germania mi ha divertito, con le sue molte istallazioni interattive, più che portato a ragionare.
Lo stand che mi ha convinto di più, nel suo tentativo di accattivarsi il pubblico è stato quello del Belgio. Prima ti offre un assaggio di cioccolato (uno dei pochissimi gratuiti) e poi propone una dimostrazione chiara e interessante di cultura idroponica.
Altri stand, invece, sembravano usciti direttamente da Gardaland con un raro mix di pacchianeria e pessimo gusto. Molti li si poteva individuare ed evitare facilmente, ma mi ha fregato la Malaysia, con la sua foresta pluviale finta che, in mezzo a tante serre vere, rasentava l'imbarazzante.
Molto bello lo stand del Nepal, allestito nonostante il terremoto. Qualcuno ha obiettato che non centra nulla col cibo, ma io ho il sospetto che non sia così. Come nutrire il pianeta? Preghiamo Budda e speriamo in bene... Potrebbe anche essere una delle risposte più oneste...

CIBO E PREZZI
L'Expo si paga. Si paga il biglietto per entrare e, una volta dentro, quasi nulla è gratis. Ci sono i distributori gratuiti d'acqua, il buon assaggio belga, qualche sparuto stuzzichino offerto e poi si paga tutto. 
Consapevole di questo, devo dire che l'aspetto gastronomico è stato comunque quello che mi ha convinto di più.
Il te all'acqua di rose del Bahrein mi ha probabilmente salvato la giornata. Dopo il viaggio in treno e l'ora e mezza di coda non ero molto ben disposta, ma il te delizioso nell'oasi verde ha cambiato il mio umore. Un paio di euro ottimamente investiti.
Per il pranzo, avevo letto che uno dei migliori rapporti qualità/prezzo si trovava nel cluster dei paesi aridi. In effetti il pranzo eritreo a 9€ comprendeva un piatto (commestibile, di pane) con quattro pietanze e una bibita. A parte la contraddizione di avere della vera cucina eritrea e delle bibite di multinazionale e la difficoltà di consumare il pranzo senza posate, come da tradizione, ho trovato la scelta molto soddisfacente, tanto da informarmi su dove ci sia un ristorante eritreo.
È seguita la granita turca al melograno, un po' cara (3€), ma abbondante (e poi sono di parte, perché adoro il melograno in ogni sua forma).
A cena eravamo un po' cotti e quindi ha vinto l'Iran per la calma e l'eleganza del ristorante. 20€ per un piatto unico è un po' troppo, ma si trattava di una preparazione non semplice e che si pagava anche la forma e il buon servizio.
Alla fine mi sono concessa anche il waffel al cioccolato fondente (che comunque non avevo mai assaggiato), di sicuro caro, ma delizioso.
Va detto anche che ero convinta che questo mio mangiare allo stato brado avrebbe avuto un prezzo non solo economico. Invece è bastato evitare gli ingredienti che so di non digerire per arrivare a casa, dopo 11 ore trascorse all'interno dell'Expo con appena un velo di mal di testa, subito stroncato da una buona notte di sonno.
L'impressione è, quindi, di aver mangiato cose buone e di buona qualità, pagate sicuramente care. Si è trattato di un vero viaggio nella gastronomia di paesi difficilmente accessibili, con sapori inediti per il mio palato. Per quel che mi riguarda, quindi, il cibo dell'Expo è promosso a pieni voti. Consiglio, magari, un po' di pianificazione su questo aspetto, in modo da ottimizzare la spesa, ma assolutamente, se andate, non negatevi dei cibi un po' fuori dai vostri soliti circuiti alimentari, potrebbe proprio valerne la pena.

lunedì 17 agosto 2015

Leggere da autori – scrittevolezze


Penso spesso, quando mi confronto con alcuni lettori forti, di non leggere abbastanza. 
Il fatto è che io con i libri perdo tempo. Quando finisco un libro che mi è piaciuto, quasi sempre lo ricomincio da capo. Oppure rileggo libri che ho già letto. Sento la necessità di fare immersioni retrospettive in questo o quell'autore, per vedere com'è cambiato nel tempo, quali invece sono rimasti i suoi punti fermi.
Leggo, ma, sopratutto, rileggo. Questa è, credo, la migliore e più economica palestra di scrittura, quello che mi tiene in costante esercizio. Leggere, ma leggere da autrice.

Una volta con il cuore, una volta con il cervello
Quando leggo per la prima volta un libro che mi prende, penso a una sola cosa: come andrà a finire?
Al diavolo tecniche, punti di vista, artifici linguistici, cosa succede dopo? E fazzoletto a portata di mano, perché la lacrima è sempre in agguato.
Non tollererei di leggere "per migliorare la mia scrittura" o "per studiare uno stile". Io leggo perché mi piace farlo, perché voglio immergermi in quella storia.
Poi posso sempre rileggere, allora può venir fuori tutto il resto, l'analisi, la retrospettiva, l'indagine. Ma mai uccidere una prima lettura con un occhio troppo critico.

Alla ricerca di emozioni, non di tecnica
Anche quando rileggo, non cerco la tecnica, ma le emozioni.
Cos'è che mi è davvero piaciuto? Perché mi ha colpito quel passaggio?
Se trovo una risposta al perché il passo più grande è fatto. Capire, prima di un testo, me stessa, perché quel dato testo ha fatto risuonare qualcosa di profondo nel mio animo. Cosa. Leggere con attenzione è quasi sempre una sorta di auto analisi, perché il primo oggetto d'indagine non è il testo, sono io. Le mie reazioni al testo. Non importa che sia un mostro sacro o un romanzetto, per prima cosa è necessario capire perché mi abbia colpito, perché "Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia" di Leopardi mi incanta e le Operette Morali mi fanno addormentare è importante come capire perché nonostante tutto quella becera storia d'amore mi abbia commosso.
A volte la risposta mi porta lontanissimo dalla scrittura. Perché quella frase, quel personaggio, mi ricorda mio nonno e io ancora rimpiango di non aver conosciuto a fondo. Non ho imparato nulla sulla scrittura, ma qualcosa su me stessa. È già qualcosa, suppongo.
A volte, però, una volta capito quale corda dell'animo quel testo faccia risuonare, si può ragionare sul come.
Il come non è necessariamente una tecnica da manuale. Magari è un'applicazione particolare, anche una trasgressione da una tecnica. Guarda come imbroglia con in punti di vista Lucarelli in Almost Blue! Già, però funziona. Almost Blue è un maledetto grande inganno, gioca sporchissimo sulla tecnica, però ogni volta che lo prendo in mano mi emoziono. Proprio per questo vale la pena di vivisezionarlo un po' e capire anche perché i seguiti, scritti con altrettanto controllo, non emozionino neppure la metà.

Si impara di più dai libri imperfetti
Ho scoperto a mie spese che dalla perfezione è difficilissimo imparare. Perché tutto si incastra a meraviglia e non si riescono a scomporre le parti. I capolavori formano un tutt'uno di indecifrabile bellezza. Uno dei libri che ritengo più elegante, che per certi versi per me è la perfezione letteraria, è Memorie di Adriano. Ma non ho imparato nulla dalle continue riletture di Memorie d'Adriano. La scelta della prima persona, la ricerca linguistica e lessicale, la ricerca storica, il peso emozionale della confessione dell'imperatore morente... Mi piace tantissimo, Memorie d'Adriano, ogni volta che lo rileggo scopro qualcosa, ma rimane una sorta di monolite alieno, splendido, ma costruito con tecniche che mi sfuggono. Meno mi è piaciuto Come l'acqua che scorre, raccolta di opere giovanili di Marguerite Yourcenar. In racconto lungo Anna, soror... è sicuramente meno perfetto. Quindi più analizzabile.  Il quadro storico e l'ambientazione non si fondono alla perfezione con la vicenda narrata e proprio per questo intuisco quanto un'ambientazione perfettamente integrata nella narrazione possa essere vincente. C'è troppa distanza nei confronti dei personaggi e delle loro passioni proibite e represse. L'autrice tiene il freno a mano tirato e il racconto ne risente. Nelle imperfezioni di una grandissima si intravedono l'ordito e la trama della sua prosa e c'è spazio di apprendimento per il lettore.
Per certi versi ho letto con più attenzione Tempi Glaciali, di Fred Vargas, che ho recensito qualche giorno fa, perché per la prima volta ho visto delle imperfezioni nelle sue storie funamboliche e perfette. Posso sicuramente imparare di più da questo romanzo che dai miei preferiti.
Allo stesso tempo un libro mediocre con un unico aspetto davvero riuscito (un personaggio, la trama a orologeria, l'ambientazione...) è una manna dal cielo per un autore, perché può isolare il singolo elemento riuscito e studiarlo con calma.

Voi rileggete spesso? Cosa guarda il vostro occhio critico di autori?

venerdì 14 agosto 2015

Papaia! – Racconto breve

Per festeggiare il ferragosto, vi offro un racconto totalmente disimpegnato e un po' folle.

PAPAIA!
      La nostra storia occidentale è segnata dalla mela. Frutto zuccherino, certo, ma tutto fibre e acqua, un po’ stopposo, scelto spesso perché più comodo che buono.
E se invece avessimo camminato sulla via della papaia? 
Papaia. 
Solo il nome, considerate solo il suono, lancia verso tutto un altro universo di significati. 
Papaia. 
Potrebbe essere una danza sud americana, di quelle in cui le donne ancheggiano e agli uomini si gonfiano gli occhi a guardarle. 
Papaia! 
Potrebbe essere un grido di guerra polinesiano, di un qualche popolo che si lanci alla battaglia sulle canoe. 
Papaia! Papaia la pagaia per spappolare i tuoi nemici! Papaia!

       Se lassù, nel giardino dell’Eden, Dio avesse negato all’uomo l’albero della papaia, non ci sarebbe stato bisogno di nessun serpente tentatore. Al primo spargersi del profumo delizioso, Adamo sarebbe salito direttamente al paradiso, arrampicandosi nuvola su nuvola per reclamare col creatore la sua papaia. E Lui, nella sua magnanimità, avrebbe constatato che tutto si può negare all’uomo, tranne la papaia. Tutti insieme avrebbero fatto un bel festino, Dio, Adamo, Eva col serpente a fare il boa attorno al collo e i leoni con gli agnelli. Poi forse i leoni si sarebbero accorti che l’agnello in fricassea con la papaia è una gran cosa, ma sarebbe stata tutta un’altra storia, molto più rilassante per le donne e i serpenti.
Guglielmo Tell non avrebbe potuto essere obbligato a colpire una mela posta sulla testa del figliolo. I cattivi di questa storia, infatti, sarebbero impazziti nel tentativo di posizionare l’anarchica papaia sulla capoccia del fanciullo. Prova dopo prova, si sarebbe fatta sera e i bravacci, affamati, avrebbero finito per mangiarsi la papaia e, distratti dal magico sapore, non si sarebbero accorti del bambino che fuggiva.
Allo stesso modo neppure la strega di Biancaneve avrebbe resistito al richiamo della papaia. Ingorda, si sarebbe mangiata tutto il cestino proprio sotto gli occhi della fanciulla che avrebbe visto poi la vecchina trasecolare e schiattare per il veleno. La cosa sarebbe stata archiviata come funesta indigestione, ma magari un principe ottuagenario sarebbe passato di lì a rompere l’incantesimo con un bacio, regalando anche alla strega un lieto fine.
Se Newton si fosse seduto sotto un albero di papaia, innanzi tutto non si sarebbe fatto male, ma  si sarebbe al massimo sporcato un po’ i capelli di dolce sugo. Non avrebbe iniziato tristi discorsi di gravi, gravità e gravitazioni. Avrebbe alfine compreso che tutto il sistema solare se ne sta vicino perché il sole ed i pianeti vogliono rubare alla Terra la papaia. Questa dal canto suo non si vuole far fregare e perennemente li respinge, tenendoli tutti alla debita distanza. 
Non sarebbe sorta nessuna Grande Mela, alta di grattacieli, snob di finanza, tra le fibre un po’ razzista coi suoi quartieri ben divisi. Nessun rampante giovane in carriera, nessuna modella imbalsamata nella sua bellezza avrebbe potuto vivere nella città di un frutto dalla pelle gialla e un po’ gibbosa, visibilmente appesantito ai fianchi. La Grande Papaia sarebbe stata grassoccia e accogliente, città indulgente per viveur incalliti, troppo impegnata a godersi la vita per dettare regole al mondo.
Nessuno avrebbe cercato l’anima gemella, l’altra metà della stessa mela, poiché ogni papaia è unica e varia anche al suo interno in infinite sfumature dal giallo al rosso scuro. Non saremmo stati allora in perenne ricerca di una metà mela a cui incollarci per essere felici. Saremmo stati paghi di essere uniche papaie, in pace con noi stessi e con gli altri, come papaie, uguali e diversi a noi.

mercoledì 12 agosto 2015

True detective, stagione 2 – visioni


Dov'è la bellezza? Mi chiedo alla prima puntata.
Dove sono le inquadrature perfette, gli uccelli che disegnano simboli nel cielo, gli alberi magici, i vortici di stelle, il desolato splendore che è metà del fascino di quel gioiello irripetibile che è la prima stagione di True Detective? La risposta è che non c'è, volutamente, nessuna bellezza in questa seconda stagione.
La serie antologica di Pizzolatto lascia la Luisiana e le anime tormentate, ma a loro modo pure, di Rust e Marty, per andare in una California sporca e corrotta, marcia fin nel midollo. Lascia l'epos (o la Genesi) e si addentra nella tragedia greca.
Come in ogni buona tragedia greca che si rispetti, le colpe dei padri ricadono sui figli (se va bene, la terza generazione si salverà), gli eroi sono macchiati (e marchiati) e sanno di esserlo, come sanno di essere condannati, e basta un singolo evento a far precipitare tutto in pochissimo tempo.
C'è quindi un politico corrotto che viene trovato morto in un limbo giurisdizionale con gli occhi bruciati dall'acido. Le indagini vengono quindi affidate senza troppe speranze a tre detective di tre giurisdizioni: Velcoro, uomo tormentato che si è venduto l'anima per vendicare lo stupro della moglie, Paul, giovane detective in fuga da se stesso e Antigone che, come il suo nome insegna, è contaminata senza averne colpa ed è quasi condannata a dispensare giustizia. A loro si aggiunge l'affarista/malavitoso Frank, a cui la morte del politico ha creato non pochi problemi. Anima tormentata anche la sua, di mafioso quasi per necessità, con una sua integrità da salvaguardare.
All'inizio l'indagine procede con una lentezza quasi snervante, mentre si delineano ombre di rapine di vent'anni prima, si parla di traffici di ragazze, di terreni contaminate e di colpe di padri che sempre più pensano sulle spalle dei figli, che a loro volta le faranno ricadere sui propri figli.
Quando quasi stai per non poterne più, inizi a pensare che ti sei affezionato a queste quattro anime tormentate. A Velcoro, principalmente, retto da un bravissimo Colin Farrell, detective corrotto e colluso, eppure umanissimo, ad Antigone, sempre in bilico tra l'essere vittima e angelo vendicatore, a Frank, che a modo suo rimane un brav'uomo (oltre ad essere l'unico in grado di organizzare dei piani con un po' di testa). Come tutti gli eroi da tragedia greca, ben presto capiscono che non c'è alcuna speranza di lieto fine, eppure vanno avanti lo stesso, lottando al meglio delle loro possibilità, fino ad affrontare a testa alta l'unico finale possibile.
Questa seconda stagione di True Detective chiede molto, forse anche troppo, allo spettatore. In soli otto episodi imbastisce quattro storie intricate per i quattro protagonisti che devono poi vedersela con una storia ancora più intricata e variamente intrecciata con il loro passato. Ne risultano lunghi dialoghi snervanti (specie nei primi episodi) e un senso generale di oppressione e marciume che, se non sorretto da trovate visive, diventa insostenibile.
Rimane però il coraggio, dopo quel gioiello limpido che è la prima stagione, di aver completamente cambiato registro e di non aver tentato di replicare i punti di forza. La mancanza di virtuosismi visivi e di personaggi ipnotici si paga, ma è una scelta voluta.
Rimane anche il fatto che alla fine, quando tutto si è compiuto, in uno dei rari scorci di bellezza e un certo messaggio non parte, la lacrimuccia scappa, segno che la serie a colpito al di là di tutti i "ma" e di tutti i "se".
La prima serie di True Detective ipnotizza ed è impossibile non rimanerne affascinati. È epos allo stato puro, luce contro tenebra, di una bellezza abbagliante.
La seconda serie è una cupa e contorta tragedia sofoclea, oppressiva nella messa in scena, a volte ridondante nei dialoghi, senza via di fuga. Chiede uno spettatore paziente e attento. Ma alla fine rimane l'impressione che ne sia valsa la pena.

lunedì 10 agosto 2015

Il mandala di Sherlock Holmes e altri apocrifi – letture

IL MANDALA DI SHERLOCK HOLMES


Ho sentito parlare molto di questo romanzo e, da buona appassionata  sherlockiana, appena ho saputo che un'amica lo possedeva non ho avuto pace fino a che non sono riuscita a farmelo prestare (grazie Elena!).
L'autore, l'indiano di origini tibetane, Jamyang Norbu, è chiaramente più interessato a raccontare l'India e il Tibet che un'avventura di Sherlock Holmes. La cosa mi sta anche bene, perché, per un motivo o per l'altro questo è il terzo romanzo del 2015 che mi porta sul tetto del mondo, inoltre l'aggancio è perfettamente canonico: come gli sherlockiani sanno, il detective, mentre si fingeva morto, è stato proprio in Tibet, con l'identità di un esploratore. Per quel che mi riguarda, quindi, posso immaginare un Holmes in una sorta di vacanza e andare a spasso con lui per le vette asiatiche.
Pur avendo iniziato la lettura con questo spirito, mi sono ritrovata subito con qualche problema tra le pagine. Va bene l'attenzione all'aspetto antropologico e naturalistico, va bene abbondare con i salgarismi, come del resto tradizione ottocentesca vuole, ma aggiungere il nome scientifico a ogni animale o vegetale incontrato, con tanto di piccola trattazione ogni tre righe, alla lunga stanca... Le cose si complicano, poi, quando l'avventura raggiunge il suo apice nel magico Tibet. In un apocrifo sherlockiano, se ben scritto, sono pronta a tollerare quasi tutto. Mi sta bene approfondire la spiritualità del buon Holmes, che tutto sommato ogni tanto sembra esistere, mi sta bene anche inserire il paranormale, ma quando mi si vuol vendere Moriarty come un monaco-mago tibetano spedito in Europa dopo aver perso la memoria, si chiede davvero troppo alla mia adattabilità.
Il Mandata di Sherlock Holmes rimane un romanzo insolito, ben scritto, molto curato per quanto riguarda l'ambientazione, ma con una trama che può mettere in difficoltà l'appassionato sherlockiano. Forse sarebbe stato meglio non scomodare proprio Holmes per salvare la vita al Dalai Lama?

SHERLOCK HOLMES CRIME ALLEYS
Ha decisamente meno pretese di canonicità l'Holmes di questa serie a fumetti.
In Italia sono usciti due volumetti, I vampiri di Londra e Sherlock Holmes e il Necronomicon, entrambe riduzioni in formato bonelliano di originali francesi, editi da Editoriale Cosmo.
Trovandomi in Francia, mi sono fondata nella prima fumetteria per accaparrarmi nella sontuosa veste originale almeno una delle storie ancora inedite, scegliendo Crime Alleys, che dovrebbe raccontare la nascita della vocazione di Holmes.
Il tutto, dicevamo, è assai poco canonico. Per Londra girano vampiri, la regina stessa è invischiata in oscure trame, Moriarty gioca (male) con magia e divinità antiche. Però questo Holmes, freddo in apparenza, umanissimo nel profondo, mi piace un sacco. Mi piace il disegno che rende viva la fumosa Londra vittoriana, integrando con eleganza gli elementi sovrannaturali.
Il giovane (neanche troppo, una delle pecche maggiori della serie, secondo me, è aver sbagliato qualcosa nel calcolo degli anni dei protagonisti) Holmes che appare qui è, appunto, poco canonico. Dei due amici che lo accompagnano non c'è traccia nelle opere di Doyle, ma Holmes è lui nel modo di agire, nel misto di sfrontatezza, freddezza e implacabile ricerca di giustizia.
Questa è una storia alternativa, che non pretende di inserirsi nel canone, come spesso accade, risulta anche più canonica di altre di maggior ambizioni.

SHERLOCK HOLMES IN AMERICA 
 Continuano le pubblicazioni della bella collana di Giallo Mondadori dedicata a Sherlock Holmes.
In due volumi, viene presentata una raccolta di racconti sherlockiani  legati all'America.
I racconti sono tutti validi, scritti da professionisti del genere.
Personalmente faccio un po' fatica a immaginarmi Holmes in America o, addirittura, nel west, che interagisce con i protagonisti della sfida all'O.K. Corral, ma del resto ho appena recensito un romanzo in cui Holmes se la vede con la magia tibetana e una serie di fumetti all'insegna del paranormale. La cosa più divertente di questi racconti, in effetti, è la cura che ci hanno messo gli autori per renderli plausibili e per spiegare cosa ci facessero Holmes, Watson o entrambi negli USA. In vacanza, da ragazzi, per lavoro (certo che Watson ha proprio sfortuna con gli studi medici, neppure a San Francisco...). Insomma una sorta di impeccabile arrampicata sugli specchi, condotta con maestria da chi sa di star ricamando sugli orli del Grande Gioco.



Ricordo poi a tutti che altre letture sherlockiane si possono trovare a prezzo d'occasione nella collana Sherlockiana di Delos, in cui trovate anche alcune mie storie!

venerdì 7 agosto 2015

Sogni di caffè – racconto breve

   Da bambino sognavo di attaccarmi alle nubi e viaggiare. Oltre alle piantagioni, alle colline, ai villaggi, alle sparatorie. Viaggiare fino al mare. Poi diventare goccia, cadere come pioggia, farmi adottare da un’onda. Addormentarmi su tutte le spiagge del mondo, l’Australia, l’Europa, la Statua della Libertà.
Ma mio nonno ha strappato la collina al dio giaguaro, ha dato il suo dolore a queste piante e ci ha legati alle terra.
Ora impasto la terra col sudore, col sangue la corteccia. Spargo tosse sulle foglie, raccolgo morte con le dita, raccolgo vita con le dita.
Della tosse di mio nonno, della tosse di mio padre, della mia tosse, rimane questa bacca rossa sul palmo della mano.
Sarà peso sulle mie spalle, scendendo verso il paese. Sarà il sorriso sul volto dei coyotes. Sarà fumo sopra la fabbrica, sopra la città a creare altra tosse, a portare altra morte. Sarà peso in una stiva sopra il mare. Sarà scuro come terra, in acqua dentro in una tazza. Sarà una macchia sui denti bianchi di una donna bella, che beve e aspetta sotto la Statua della Libertà.

        Da bambino volevo attaccarmi alle nubi e fuggire, ma mio nonno mi ha legato alla terra. 

Questa bacca rossa la stringo forte nella mia mano perché i sogni penetrino fin dentro il chicco e non lo lascino più. Li porterà dove io non posso andare, oltre alle terre, sopra ogni mare. Li berrà una donna bella di un paese straniero, li chiamerà aroma, io sarò tra suoi sogni, una notte soltanto.


Racconto originariamente apparso sulla rivista "Arabica fenice", n°1 "Caffè e Libertà"

NOTA: nelle colline messicane, gli intermediari tra i coltivatori e le multinazionali del caffè sono chiamati "coyotes".

Dimenticavo! Non perdetevi l'offerta di Delos, con gli e-book a 0,99€! Un'ottima occasione per passare l'estate in compagnia del mio Sherlock Holmes
Avventura a Parigi
Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso
Che, nonostante le mie pessimi doti di promoter, oggi siano entrambi tra i più venduti della collana (8° e 10° posto su 81) è un piccolo grande miracolo di cui, come sempre, ringrazio lo staff di Delos.

mercoledì 5 agosto 2015

Lasciarsi sorprendere dai propri personaggi – scribacchiando


Tornata dalle vacanze, con il marito di nuovo in ufficio e il nipotino al mare, è tempo di tornare a tuffarmi nel romanzo in stesura.
Anche se durante il viaggio non ho scritto una sola parola, credo che ormai manchino una decina di capitoli alla conclusione, quindici al massimo (ho iniziato il 26).
Si possono iniziare a fare i bilanci e a confrontare la sinossi preparata prima con la stesura per constatare che ho iniziato a tradirla intorno al capitolo due...
Le sorprese maggiori, come sempre, me le hanno riservate i personaggi.
Ligia al dovere ho pianificato. Non ho preparato schede, ma ho iniziato a scrivere solo quando ormai sentivo di conoscere a fondo la protagonista e, trattandosi di un giallo, la vittima e l'assassino. Loro, del resto, erano i miei tre punti fermi su cui tutto si sarebbe andato a costruire. Gli altri personaggi, lo ammetto, erano delle figure nella nebbia. Ho iniziato a scrivere sapendo di non conoscerli a fondo, sperando che si sarebbero messi in luce nel corso della storia e con la consapevolezza, quindi, che avrei dovuto poi limare a posteriori almeno i primi capitoli, scritti sulla base di una conoscenza ancora superficiale.

LUCE SULLE SECONDE LINEE
Questa è stata per molti capitoli la mia preoccupazione maggiore. Ad affiancare la protagonista ci sono due personaggi maschili che vanno a costituire con lei un team informale di indagine.
Due personaggi maschili, quindi, entrambi positivi, affini per età (li separano otto anni) e per formazione professionale (sono o sono stati membri delle forze dell'ordine) e amici tra loro. Il rischio che risultassero uguali mi ha dato più di una preoccupazione. Di sicuro nei primi capitoli si differenziano principalmente per i problemi contingenti che devono affrontare, piuttosto che per la psicologia.
Pian pano, però, si sono da soli messi in luce, spiegandomi con calma, come si fa con un'amica un po' tonta cosa li rendesse diversi e complementari.
RD, il più anziano, fin da ragazzo ha dovuto assumersi delle responsabilità. La morte del padre lo ha reso precocemente consapevole dei propri doveri. Lasciato a se stesso avrebbe condotto studi classici, ma ha scelto di entrare nelle forze dell'ordine sia per rendersi al più presto economicamente indipendente, sia per carattere, tanto che tende a identificarsi al 100% con la sua professione. È duro con gli altri come con se stesso e tende a dividere le cose in bianco e nero e le regole sono un valore in sé. Fossimo in D&D sarebbe di sicuro un paladino, legale buono. 
Ovviamente è mio compito di autrice minare alla radice tutte le sue sicurezze...
RS, il più giovane. Da ragazzo è stato vittima di bullismo, proprio per questo ha deciso di entrare nelle forze dell'ordine, per difendere le vittime. Ha un istintivo senza di giustizia che lo rende insofferente verso l'ipocrisia di tanti suoi colleghi. Al contrario di RD (che pure vede come un punto di riferimento), crede che ci siano casi in cui il risultato valga l'utilizzo di metodi non ortodossi.
Per lungo tempo ha continuato a pensare a se stesso come al ragazzo che era, ma sta acquistando sempre più sicurezza in se stesso. Ha sempre privilegiato la carriera rispetto alla vita privata, ma le cose potrebbero cambiare.
Dovendo semplificare al massimo, la parola d'ordine di RD è "responsabilità", quella di RS "proteggere". Si tratta forse di una sfumatura, ma è stata la comprensione di questa differenza basilare a permettermi di entrare in intimità con loro e permettermi di capire davvero le rispettive psicologie, senza più accontentarmi di differenziarli sulla base di eventi esterni che capitano all'uno o all'altro.

SORPRESE DALLE TERZE LINEE
Le sorprese maggiori, i personaggi che davvero mi hanno stupito, sono stati, però, quelli di "terza linea". Non protagonisti, non parte della squadra, personaggi "secondari", ma dall'impatto forte sulla vicenda, di volta in volta aiutanti, ostacoli o sospettati.
Ce ne sono due che nello svolgimento hanno del tutto stravolto il ruolo che avevo stabilito per loro in sinossi, diventando da elementi necessari per la trama, ma che cui non provavo particolare amore, ai personaggi più interessanti del romanzo. Si sono anche invertiti i ruoli, quello che avrebbe dovuto essere un aiutante positivo senza troppo pepe è diventato un viscido bastardo manipolatore. Un personaggio femminile nato per essere l'antitesi della protagonista e quindi un ostacolo è diventato una donna complessa, dura, antipatica ma coerente per la quale sia io che la protagonista non possiamo, alla fine, che provare ammirazione. Alla fine da ostacolo è diventata addirittura l'elemento risolutivo per la scena d'azione finale (dalla quale, per come stavano le cose in sinossi, la protagonista non avrebbe mai potuto uscirne viva...). Tutto avrei pensato, ma non di innamorarmi di un personaggio nato per rappresentare ciò che odiavo. Rimane, sia chiaro, una persona dura, che non si cura molto della sofferenza di chi ha attorno, ma quando ho capito quanta solitudine e malinconia nascondesse, non ho potuto evitare di empatizzare con lei...

Questo, dopo tutto, è il bello dello scrivere. Immagini, pianifichi, ma poi ad ogni riga ti avventuri in un territorio inesplorato, dove tutto può ancora stupirti.
Mi piacciono i personaggi in grado di imporsi sul mio immaginario al punto di sopraffare la mia parte razionale e organizzatrice, che mi dicono "io sono così, non come mi hai pensato, ho ti adegui o smetti di parlare di noi".
Immagino che se ogni racconto, ogni romanzo uscisse tale e quale a come lo avevo progettato avrei già smesso di scrivere da un bel pezzo.

A voi è mai capitato di esservi lasciati sorprendere dai vostri personaggi? Lo ritenete un bene o un male per le vostre storie?

lunedì 3 agosto 2015

In fondo alla caverna, dove i leoni attendono

Fonte: wikipedia

Vi sono esperienze che si possono raccontare e tuttavia, per quanto si possa essere abili a intessere emozioni con le parole, il racconto non sarà che un pallido riflesso di un'eco di ciò che è stato.

Quasi tutti conoscono cos'è Lascaux, la più famosa delle grotte dipinte di Francia. Un dedalo di cunicoli decorati con immagini di cavalli, bisonti, mammut e tori selvatici durante l'ultima era glaciale, circa 15000 anni fa.
Da moltissimo tempo, ormai, Lascaux non si può visitare, così come le altre grandi grotte dipinte. La presenza dei visitatori, l'umidità dei loro aliti, la luce dell'illuminazione, il semplice passaggio di aria dall'esterno, metteva a repentaglio la conservazione di opere d'arte che erano sopravvissute per millenni. Un po' ovunque, in Francia e in Spagna, le grotte dipinte sono state chiuse al pubblico, per il quale sono stati preparati delle copie, delle riproduzioni perfette.

Come in ogni storia che si rispetti, tuttavia, ci sono delle eccezioni.

È, ne abbiamo avuto il sentore fin da subito, una faccenda per iniziati.
Nessuno ne fa troppa pubblicità, i depliant non si trovano se non già sul posto, le ricche indicazioni turistiche se ne dimenticano, bisogna seguirne gli accenni per trovare la strada, ma c'è ancora una grotta dipinta con pitture policrome magdaleniane (cioè risalenti all'ultima glaciazione) visitabile in Francia e una grotta ancora più spettacolare, dove i colori sono quasi tutti scomparsi, ma restano, nitide e bellissime, le incisioni. Sono Font de Gaume e Combarelles.
Nella prima sono ammessi una cinquantina di visitatori al giorno, nella seconda 35, a gruppi di sette.

Arrivarci è già di per sé un viaggio iniziatico.
Non è una questione di prezzo. I biglietti hanno un costo assolutamente accessibile. Non si possono prenotare via internet. Pare che ve ne sia un esiguo numero in prevendita non si sa dove il giorno precedente. Pare. Perché qualsiasi ufficio del turismo lo negherà e nessuna delle persone con cui ne ho parlato ne ha trovato traccia.
L'unico modo comprovato per garantirsi un accesso è acquistare un biglietto per il giorno stesso in un anonimo cassotto al lato di una strada dall'aspetto trasandato e dalle pareti scrostate. Come tutte le questioni iniziatiche quindi, puoi arrivarci solo se un altro iniziato ti dà qualche dritta.
E, come per tutte le questioni iniziatiche, c'è una prova da superare.
Io, il Nik e l'amica ranger ci siamo presentati sul piazzale della biglietteria alle ore 7,30 del mattino. Trenta persone erano già lì che aspettavano. Molti hanno dormito in camper direttamente nel vicino parcheggio. Non c'era un biglietto da prendere per attestare la propria posizione in coda, si poteva solo chiedere, come dal medico, chi era l'ultimo. La biglietteria apriva alle 9,30.
Per le 8,00 eravamo già più dei fatidici 50 ammessi a Font de Gaume, infinitamente più dei 35 prescelti per Combarelles. Se tra i primi arrivati si erano ormai già stretti legami per la vita (per tutto il resto della giornata, rincontrandoci per la regione ci saremmo calorosamente salutati in quanto appartenenti alla stessa setta), intorno alla soglia limite iniziavano a volare i coltelli.
A quel punto si è levato un teutonico capo scout incrociato con Obelix che, dall'alto della sua mole, è riuscito a imporre la preparazione di una lista. Ciascuno doveva scrivere il proprio nome e poi passare la sacra penna alla persona arrivata esattamente dopo di lui. Io, Nik e la ranger ci siamo guadagnati le postazioni 31, 32 e 33. Litigi e urla dietro di noi.
Alle 9,30 in punto la frusta porta della biglietteria si è aperta rivelando quello che avevamo sempre sospettato. Come ogni covo segreto che si rispetti, l'interno era lindo, spazioso e all'insegna della tecnologia. Da lì è un uscito un energumeno, certo ex legione straniera a cui il capo scout-Obelix ha fatto rapporto e consegnato la sacra lista. Sulla base di questa siamo stati chiamati per nome e messi in fila. Il bigliettaio legionario ha ascoltato le lamentele di chi riteneva di avere una posizione ingiusta e le ha rapidamente tacitate con metodi che non ho visto né voglio conoscere.
Alle 10,30 avevamo i biglietti per Font de Gaume e per Combarelles.

Da qui in poi non si può più fare ironia, è un'esperienza mistica. Non c'è altro modo per definire l'incontro, all'interno del budello di roccia, con una marcia di bisonti vecchia di 15000 anni. Nel freddo ancestrale delle caverne (15° Font de Gaume, 11° Combarelles, in una giornata che all'esterno ne faceva 35°), con la sola torcia della guida come luce, mentre si vedono balenare animali estinti di una nitidezza impressionante non si può rimanere impassibili.

Da buona studentessa di archeologia, per l'esame di Paleontologia Umana ho studiato le diverse ipotesi sul significato di queste caverne. Le ho studiate con freddezza. Da una distanza di 15000 anni si può stabilire il come siano state dipinte, il cosa comporta a livello pratico (quante persone, per quanto tempo con quali tecniche e quindi quale società possa averle prodotte), ma non il perché.
Mi sembrava persino arrogante il volersi cimentare in ipotesi.
Come ha detto la guida, poi, le caverne rimaste sono senza dubbio solo una minima parte di quelle originariamente dipinte. Le pitture sono rimaste nelle caverne e non in esterno per ovvi motivi di conservazione e benché alcune caverne abbiano pitture coeve e forse riconducibili a uno stesso gruppo umano (che si "firma" con un simbolo preciso che ricorda vagamente una capanna), altre sono state dipinte a millenni di distanza.
Tutto ciò è molto vero, molto razionale e non ha nulla a che vedere con quello che si prova dentro.
Sono fatti degli studi statistici e si è scoperto delle corrispondenze tra gli animali rappresentati e la profondità della grotta. 
Le renne, gli animali più cacciati dai magdaleniani, sono quasi assenti, rappresentate di raro, ma con corna smisurate.
All'ingresso trovi i cavalli, poi appaiono i bisonti, i buoi selvatici. Ancora più avanti vi si mescolano i mammut, rari rinoceronti lanosi, qualche orso. Gli uomini sono pochi, piccoli, stilizzati e periferici in un mondo di spiriti ancestrali. 
In fondo alla caverna attendono i leoni.
È così a Lescaux in profondità, al temine di un cunicolo in cui si può solo strisciare, ed è così a Combarelles.
Nel punto più profondo della grotta (almeno della parte fino ad ora esplorata) da una parte c'è una spaccatura a cui pare abbeverarsi un'immensa renna, insieme ad altri erbivori. Dall'altra parte c'è un leone, nitido, bellissimo, pronto a balzarti addosso dall'alto dei suoi 15000 anni.
E allora sì, capisci che quello che hai compiuto è stato proprio un viaggio iniziatico. È lui, il leone, il padrone di casa e pochi sono quelli ammessi alla sua presenza. Ancora meno quelli che riescono a guardarlo negli occhi.
Che gli altri si accontentino di scontrarsi con i cavalli o con i bisonti.
In fondo alla caverna il leone attende, per chi è chiamato ad incontrarlo.