giovedì 26 settembre 2019

Comma 22 – Piovono libri


Faccio sempre più fatica a stare dietro alle letture di "Piovono Libri", il gruppo di lettura di cui faccio parte e me ne vergogno molto. Il motivo è semplice. Sono libri che vanno letti e pensati, ragionati. A volte sono faticosi, altri emotivamente pesanti. Ne ho bisogno, so che mi fa bene leggerli, ma faccio come certi bambini davanti a un medicinale e storco il naso. 
Questa volta niente scuse, però, la lettura estiva di Comma 22, corposo romanzo di Heller, l'ho proposta io dopo la visione della sere tratta dal romanzo e andata in onda la scorsa primavera su Sky.

C'è chi pensa che gli adattamenti cinematografici o televisivi siano per la maggior parte svilenti, ma io, semplicemente, avrei ignorato un sacco di libri che poi ho amato alla follia se non me ne fossi imbattuta sullo schermo. Prima della serie di Sky di Comma 22 ignoravo persino l'esistenza. E la serie, in sé, goduta come dovrebbero essere godute queste trasposizione, cioè senza sapere nulla dell'originale, mi è piaciuta molto. Una storia di guerra dai toni surreali in cui un aviatore americano cerca in ogni modo, prima con toni buffi, poi sempre più disperati, di evitare le missioni per tornare a casa vivo. Intorno a lui si affollano una serie di personaggio sopra le righe che abitano un campo militare al confine del grottesco, dove viene applicato questo famoso "comma 22" ovvero "chi è pazzo può essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere sentato non è pazzo". Perché, è ovvio, la guerra è una follia senza senso e solo i pazzi non se ne rendono conto.

Il romanzo è tutto ciò che racconta la serie e, com'è normale che sia, molto di più.
Innanzi tutto il libro spiazza per impianto temporale. Ogni capitolo o quasi ha il nome di un personaggio e le vicende non vengono raccontate in ordine cronologico, ma con un continuo saltellare avanti e indietro che crea uno strano senso di spaesamento. Il tempo scorre. La mia edizione alla fine riportava anche l'immagine delle tabelle che usava l'autore per non perdersi nella narrazione, con ben evidenziato il giorno e l'anno in cui ogni avvenimento capita. Il tempo scorre, quindi, e tuttavia l'impressione del lettore è che non lo faccia, che i personaggi siano imprigionati in un eterno presente. Io penso che sia un effetto voluto e che per altro percepisco in ogni ricordo di guerra che ho sentito di prima mano. In quelle situazioni la sensazione dei soldati è di essere cristallizzati fuori dal tempo, non mesi o anni, ma secoli interi. La guerra è un non luogo e un non tempo (per chi ha la fortuna di non viversela in casa) non necessariamente negativo (mia nonna materna, capitata per caso in piena guerra partigiana ha ricordato per sempre quei mesi come i più belli e liberi della sua vita), ma altro. Per Heller, che si basa principalmente sui propri ricordi, la guerra è un non luogo della follia, dove la gente muore davvero per obbedire a ordini assurdi, leggi beffarde che nessuno sembra aver concepito, per inettitudine al potere. Tutti gli ufficiali sono folli, totalmente disinteressati alla sopravvivenza dei soldati e, parrebbe, pure alla vittoria. Quelle che cercano sono piccole rivincite personali, meschine competizioni tra loro o dare sfogo alle proprie manie. I soldati sono meno che numeri. Sono aerei, che vengono distrutti lontano dalla base, per lo più, pedine di un risiko imperscrutabile. 

All'inizio il tono è surreale, spesso gli episodi sono divertenti. Le peripezie di Yossarian, il protagonista, per evitare le missioni e uscirne vivo sono buffe. Ma il surreale sfuma nel grottesco e poi nell'orrorifico. Yossarian non ha mai voluto combattere e non ha mai voluto uccidere, ma è un sopravvissuto, l'ultimo superstite di un gruppo di ragazzi ormai decimato, saturo di morte, esaurito, quasi a sua volta folle. La guerra è quasi vinta, è quasi vinta alla prima pagina e rimane quasi vinta all'ultima, ma il quasi, il permanere nel limbo è sempre più intollerabile, fino a che la fuga è l'unica soluzione percepita come possibile.

L'impatto emotivo di questa lettura è forte. La sensazione soverchiante è che il male non sia dato dalla guerra in sé, certo non dal nemico, ma dalla semplice follia umana che in una condizione specifica (è la guerra, ma potrebbe non esserlo) può esplodere. Nel momento in cui si smette di pensare agli uomini come individui, ma solo come a funzioni, tutto è perduto e tutto è lecito, anche fermare un'intera base militare per una parata per puro sfizio personale. In questo romanzo sono descritte dinamiche assolutamente folli che però sono simili a cose che avvengono in uffici e altri luoghi di lavoro. La disumanizzazione, la burocrazia fine a se stessa che governa tutto, l'idiota finito per puro caso in posizione di potere non hanno di certo bisogno di un conflitto mondiale. C'è un aspetto puramente sociologico nel romanzo di Heller, assente nella serie tv, per cui la guerra è un mero pretesto. E per questo, per certi versi, è ancora più spaventoso.

Poi c'è l'aspetto della guerra. Una guerra che l'autore ha combattuto e che conosce. Ci sono mille scene toccanti. Ci sono gli aviatori che per primi mettono in discussione gli ordini quando l'esecuzione degli stessi causerebbero morti tra i civili, segno che comunque un senso di giustizia e umanità (che ovviamente verrà calpestato) permane nonostante tutto e nonostante tutti. C'è un pezzo grottesco e struggente in cui a Yossarian viene chiesto di interpretare un soldato moribondo, perché sono arrivati i parenti e sarebbe brutto non dare loro il conforto di un ultimo incontro. Il dialogo che ne segue di per sé è surreale, ma è struggente questo senso di interscambiabilità dei morti. Tutti i ragazzi che muoiono in guerra hanno qualcuno che li piangerà e con nomi e frasi appena differenti un ipotetico ultimo incontro sarebbe uguale per tutti. Ogni morto è un morto di troppo.

Infine c'è un ultimo aspetto problematico che anche l'autore stesso si è posto. I protagonisti sono soldati americani che combattono sul fronte italiano. Questo nemico che loro non vedono di fatto mai, che ha la forma di aerei e di bombe, è il nazismo. Questa guerra così inutile, tragica e amara è comunque la cosa che ha liberato l'Italia dal nazifascismo. Immagino che questo aspetto colpisca di più il lettore italiano, che riconosce i luoghi in cui la vicenda è ambientata, aveva magari in contemporanea parenti che morivano da partigiani.
È un aspetto che mi ha dato da pensare. 
Io sono tendenzialmente più pacifica che pacifista. Nel senso che "mai la guerra" non lo so. Mai la guerra neanche se un pazzo in stile Hitler ci invade? Mentre Yossarian cercava (giustamente e in modo sacrosanto) di scappare dalla guerra, mio nonno paterno (non quello materno finito in Russia) aspettava in un campo di prigionia tedesco che gli americani arrivassero a liberarlo. E quindi non so. Empatizzo con Yossarian e con qualsiasi vittima della follia. E tuttavia ci sono guerre che, una volta iniziate, non possono finire in modo incruento. Temo che la seconda guerra mondiale sia stata una di quelle. Questo rimane per me un nodo irrisolto, un dubbio amaro che la lettura mi ha lasciato e a cui ancora non so dare risposta.

Voi avete letto questo romanzo o ne avete visto la trasposizione televisiva? Cosa ne pensate?

mercoledì 18 settembre 2019

Di scritture in corso


Sono sopravvissuta al rientro a scuola, cosa tutt'altro che scontata, dato che già al primo fine settimana ero raffreddatissima.
Ci mancano ancora un collega di matematica e due di sostegno e siamo ormai alla soglia della disperazione. La nostra così bella scuola a due passi dal lago è geograficamente una scuola di frontiera, dato che è quella più a nord della provincia e dunque la più lontana dall'Ufficio Scolastico competente. Inoltre le università più vicino non hanno facoltà che formino laureati per alcune classi di concorso e quindi siamo alla disperazione. Il nuovo collega di italiano è arrivato da Palermo dopo tre giorni che aveva inviato una messa a disposizione. La prima domanda che gli abbiamo fatto è se abbia un amico che possa/voglia insegnare matematica o sostegno e disposto, come lui, a trasferirsi qui per l'anno scolastico. Il passo successivo, credo, sia all'annuncio sul giornale...

In tutto questo sto riprendendo contatto con la me stessa scribacchina.
Ammetto che trovarsi in edicola con Giallo Mondadori sia un bel balsamo per l'autostima.
L'altro giorno raccontava a un collega che un racconto non fa certo di me un'autrice con la A maiuscola e è intervenuta un'altra che ha detto "Ma come, io il Giallo l'ho preso alla Coop, certo che sei un'Autrice". E, va beh, l'ego ne ha beneficiato, mi sono sentita un gatto a cui viene fatto un grattino.
Ancora più balsamo per l'autostima è la notizia che anche un altro racconto si sta involando. Di questo vi darò notizie a breve. La cosa importante è che, a differenza di quello uscito con Giallo Mondadori Sherlock, questo è un racconto scritto quest'estate. E quindi la proposta di pubblicazione è stata una sorta di conferma che sì, sono ancora capace.
Agli alunni ogni anno dedico una canzone per augurare loro buon inizio. Quest'anno ho scelto "Una chiave" di Caparezza, perché alcuni di loro avevano bisogno di sentirsi dire "non è vero che non sei capace, che non c'è una chiave". Probabilmente ne ho bisogno anch'io.

E ho bisogno di ripetermelo per la storia che sto scrivendo, di cui ormai ho perso il controllo.
Era nata come un YA, ma l'intento YA, intesa come storia non troppo impegnata per adolescenti è andato a farsi benedire abbastanza in fretta.

Il titolo di lavoro al momento è "Crisalide" e va inteso come "il dolore che si prova quando ti stanno spuntando le ali che ti permetteranno di volare".
È, più di quasi tutto ciò che ho scritto, una storia di dolore.

È una storia di adolescenti, certo, quello è rimasto. Con anche la storia d'amore caruccina (o magari è caruccina solo ai miei occhi), senza neppure il solito tritissimo triangolo adolescenziale. C'è il riscatto attraverso l'arte e lo sport (almeno in parte), ma c'è anche davvero un sacco di dolore.

Siccome la protagonista suona il piano, l'altro giorno ho cercato di catturare la collega di musica, che insegna anche pianoforte al conservatorio di Novara, come consulente. Nel tentativo di spiegarle cosa stavo scrivendo mi sono accorta che ognuno dei personaggi è fortemente ispirato a una persona reale che ho frequentato, per lo più in adolescenza. La cosa è così poco voluta che in un caso è rimasto uguale persino il nome.

Per la prima volta mi trovo con una materia che controllo davvero poco e anche se ho superato i tre quarti della prima stesura non lo so se sono capace di arrivare in fondo a questa storia con un minimo di dignità scrittorea.
È anche una continua sfida a sperimentare, a dominare la materia, a trovare nuove forme per farlo.
Per la prima volta scrivo alla prima persona presente, immergendomi nella testa di una sedicenne. La storia che non è divisa a capitoli, ma con scansioni temporali mensili, quasi fosse una presa diretta. Ogni mese, però, è anche una sorta di racconto a se stante, con una parola chiave più o meno esibita.

Considerato come sono messa, suppongo che dedicherò altri post a questo progetto. Così, per farmi coraggio, vi regalo l'inizio e la fine di Ottobre, la cui parola, abbastanza ovvia, è felicità.

OTTOBRE

La prof di religione ha fatto un pippotto incredibile sul fatto che stiamo vivendo gli anni migliori della nostra vita. Che dobbiamo rendercene conto. Come se, per il solo fatto di essere giovani, avessimo una sorta di dovere alla felicità. Andrebbe arrestata per istigazione al suicidio, credo.
Perché se devo pensare che non c’è niente di meglio di questo adesso, è la volta che mi taglio le vene all’istante. L’anno scorso avrei alzato la mano e lo avrei fatto notare. Mi sarei fatta notare anch’io, e quindi adesso anche no. Invece la mano l’ha alzata Giada.
– Non posso sopportare l’idea di essere felice solo perché non mi manca niente e non mi è arrivata chissà quale disgrazia – ha detto. – Chi è felice non ha sogni da realizzare.
La prof ha ribadito le solite cose, che non ci rendiamo conto della nostra fortuna. So dove vuole arrivare, che se sentiamo qualcosa che ci manca dentro e ci divora le viscere è la Fede che ci manca. L’anno prossimo col cavolo che faccio religione. Però quell’uscita di Giada non me l’aspettavo. Lei è davvero il prototipo della ragazza felice. La più bella e ricca della classe. Corteggiata da uno di quarta che è innegabilmente bello. Però all’intervallo sta con Federica e con me e già questo, in effetti, è strano.

***
Alla fine la festa è scivolata via in modo quasi innocuo. Abbiamo scherzato un po’ con quei tipi, abbiamo fatto altri selfi scemi, sono stata schizzata. Ho chiamato Maria quando mi è sembrato ovvio che Giada fosse pronta ad approfondire la conoscenza con la lingua non del palestrato, ma del suo amico più intellettuale, carino comunque. Potrei far vedere questi scatti all’Ardenzi, come prova che le ho dato ascolto. Questi sono i nostri anni migliori. E siamo bravissimi a fingere la felicità.

domenica 8 settembre 2019

Piccola favola vera sulla cultura inutile


Non so quale sia il nome esatto di questi fiori. Io li ho sentiti chiamare gigli di sabbia o gigli di mare. Per me, sono il simbolo perfetto della resilienza. Sembrano fragili, ma fioriscono in agosto, sulle spiagge della Sardegna. Splendono di bellezza tra la calura e i turisti.
Quest'anno, fotografando questi fiori dolci e ostinati, ho pensato che è questo quello che serve, fare ciò che si sente di fare, nonostante tutto. Ho pensato al blog, che negli ultimi tempi ho un po' trascurato. Non so quanta regolarità potrò regalargli, ma so che potrò usarlo per scrivere anche cose in cui credo. Forse saranno inutili, forse verranno calpestate. Ma in questa Italia che mi spaventa sempre più, credo sia necessario far fiorire ragionamento e gentilezza, senza preoccuparsi troppo dei risultati. Non tentarci neppure sarebbe peggio.
Così, dato che lunedì ricominciano le lezioni (nel solito caos generale, nella mia scuola siamo una cosa come otto insegnanti per otto classi e riusciamo a malapena a garantire l'apertura su orario ridotto...), iniziamo con una piccola favola vera sulla cultura inutile.


PICCOLA FAVOLA VERA SULLA CULTURA INUTILE

Che una parte della cultura sia "inutile" non è una cosa che si dica da oggi. Prendiamo le lingue classiche, per esempio. Il latino ormai chi lo parla più? E il greco antico? Voglio dire, non è inutile da oggi, è inutile, all'atto pratico, già da un mille anni.
Dovevano pensarla così anche i superiori di mio nonno. Strano tipo, mio nonno. Erudito fino, appunto, all'inutilità, due lauree, una in lettere classiche, con una goffaggine congenita che ha trasmesso a figlia e nipote. Quando scoppia la seconda guerra mondiale ha appena preso la seconda laurea (lettere, appunto, dopo la prima, giurisprudenza, per far contento papà), non ha trent'anni, che fai lo mandi come soldato semplice? Al corso di allievi ufficiali mio nonno riesce a rompersi una gamba e a dare prova, parole sue di "scarsa attitudine al comando". Immagino lo sconforto dei superiori. Dove lo mandiamo questo? È inetto, pieno solo di cultura inutile. Mandiamolo dove fa meno danni possibile, dove non tornerà, probabilmente, che tanto, per le capacità militari che presenta sai che perdita... Mandiamolo in Russia!

Quindi mio nonno parte per la Russia, con il grado più basso che potevano dare a uno con due lauree, un attendente, una divina commedia, qualche libro di greco e latino, che non si sa mai. Arrivano là, lo guardano e lo piazzano a gestire un magazzino viveri. E lui fa quello che sa fare. Gestisce i (pochi) viveri e insegno greco e latino a chi vuole. Chi vuole sono anche soldati degli allora alleati tedeschi, perché mio nonno non sa il tedesco, ma il francese. A quanto pare, nel magazzino viveri, si imbastisce un'improbabile scuola di greco antico in francese per italiani e tedeschi...

Ora, come sia andata in Russia per gli italiani nella seconda guerra mondiale lo sappiamo tutti. Sappiamo tutti della sacca in cui gli italiani si sono ritrovati, della ritirata a piedi nella neve...  Quando le cose si sono messe male, il battaglione di mio nonno ha capito subito che non era cosa, che l'artiglieria pesante che bisognava a tutti i costi recuperare poteva anche rimanere lì e era il caso di scappare. A piedi. Nella neve della Russia. A un certo punto, non so quando, passa un gruppo di tedeschi su un mezzo motorizzato. Riconoscono mio nonno. Il professore. Sono carichi, non stanno andando dove si stanno dirigendo gli altri italiani del battaglione. Ma nella neve c'è il professore di greco antico. Si stringono, lo caricano su. Mio nonno esige che venga recuperato anche l'attendente. Il greco antico porta due uomini fuori dalla sacca da cui non è tornato quasi nessuno.

Non è proprio finita lì. Perché è comunque una rotta. Dove sono finiti gli altri non si sa. I tedeschi hanno altri ordini da seguire e una guerra da perdere per conto loro. Mio nonno e l'attendente vengono lasciati non proprio in mezzo al nulla ma quasi con tanti auguri.
Su come mio nonno sia tornato in Italia ho avuto solo racconti frammentari. Ci è arrivato dopo essere stato dato per morto. Ci è arrivato quando l'Italia era già nel caos.  Dopo aver attraversato l'Europa ancora in guerra con mezzi di fortuna. Ci è arrivato comunicando in greco antico e latino con le persone istruite incontrate qua e là, sopratutto preti. Ci è arrivato insieme all'attendente e quel poco che so di questa storia, la so perché ad ogni Natale, finché è vissuto, l'ex attendente ha regalato a mio nonno una bottiglia di vino pregiato. Dal momento che mio nonno non beveva, alla sua morte abbiamo ereditato una cosa come quaranta bottiglie da collezione (immolate, quelle ancora bevibili, da mio padre, che invece apprezza il vino e non il collezionismo in un numero ragguardevole di feste comandate).

Credo di aver fatto in tempo a conoscerlo anch'io l'ex attendente, ho un ricordo vago di un signore anziano, venuto in visita con una bottiglia il giorno di Santo Stefano, che mi ha raccomandato di studiare come mio nonno. Perché lui era stato salvato dal greco antico e dal latino. 

BUON ANNO SCOLASTICO A TUTTI QUELLI CHE LO STANNO PER INIZIARE, ALUNNI E PROF
BUONA CULTURA INUTILE A TUTTI
(Che sia davvero inutile, magari aspettiamo a stabilirlo quando abbiamo l'età per raccontare la nostra vita ai nipoti...)

lunedì 2 settembre 2019

Il mio racconto "Il mangiaocchi" su Giallo Mondadori Sherlock di Settembre


Questo mese in edicola trovate il nuovo numero di Giallo Mondadori Sherlock, Sherlock Holmes attentato al club Diogene e, in coda al romanzo, il mio racconto Il Mangiacchi
Vi si racconta di un misterioso individuo rapisce i vagabondi di Londra e ne restituisce i corpi privi di occhi.
Non posso andare più in dettaglio sulla trama, ovviamente. Quello che vi posso dire è che lo spunto per il racconto me lo ha dato un articolo apparso su Le Scienze, che mi ha regalato grande curiosità e un mese di appassionanti letture scientifiche su una cosa che avevo sempre considerato solo una leggenda metropolitana, e invece...
I miei racconti dedicati a Sherlock Holmes nascono spesso così, da approfondimenti su curiosità scientifiche, scoperte dimenticate, personaggi storici che meriterebbero di essere conosciuti meglio. Sono in primo luogo per me delle occasioni per dei viaggi nel tempo e ci tengo sempre a compiere il lavoro di documentazione nel miglior modo possibile. Purtroppo la macchina del tempo per la Londra Vittoriana non me l'hanno ancora regalata e quindi la perfezione assoluta non è possibile, ma per questo racconto in particolare (come tutti quelli che nascono da simili presupposti) garantisco per tutte le citazioni scientifiche, per quanto improbabili esse possano essere.

Non mi resta che augurarvi buona lettura...
Anzi, no. 
Questo racconto non approderebbe in edicola senza lo staff di Giallo Mondadori e senza l'insostituibile Luigi Pachì, il curatore della collana. Un grazie di cuore a tutti loro.