"Stenderò il mio rapporto come se fosse una storia. Mi è stato insegnato, quand'ero bambino, sul mio pianeta natale, che la Verità è una questione di immaginazione" U.K.Le Guin - La mano sinistra delle tenebre
domenica 23 maggio 2021
Concerto di apertura Settimana della Musica 2021 – Con i ragazzi della sezione musicale dell'I.C. di Borgomanero
domenica 16 maggio 2021
La svolta degli audiolibri + Doppio Sogno – Piovono Libri
domenica 9 maggio 2021
La società dei gatti filosofi – racconto giallo – parte terza
Parte prima
TERZA E ULTIMA PARTE
– Lo studente – disse il mezzo bracco, tornato al cortile della propria casa.
– Sei sicuro? – chiese Ipazia.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva apprezzato le sue carezze.
– Come sono sicuro che la donna che ho fatto cadere ha tre amanti che usano tre profumi diversi – rispose piccato il cane.
I gatti accettarono in silenzio lo svelamento di quella verità.
– E ora cosa facciamo? Gli uomini sono come reclusi che guardano ombre sulla parete di una caverna credendo che quello sia il mondo. Come li porteremo sulla strada del Vero? – domandò Platone.
– Al diavolo gli uomini, facciamoci giustizia noi – soffiò Protagora.
– No, le leggi della città vanno sempre seguite, persino quando non è facile – dissentì Socrate.
– Noi siamo gatti, non soggetti alle leggi degli uomini – lo rintuzzò Protagora.
– Ma l’assassino è un uomo, soggetto alle leggi degli uomini ed è dagli uomini che deve essere punito – lo rintuzzò Socrate.
– Basta, litigare non serve a niente, qui serve un piano – si intromise Democrito.
– E come lo faremo, il piano? – si lamentò Epicuro, la cui scarsa energia era già stata messa a dura prova dagli eventi della giornata. – Non abbiamo la possibilità, da gatti, di consegnare il colpevole alla giustizia.
– Che poi la giustizia degli uomini non sempre è Giustizia, come la cicuta sta a dimostrare – ammise controvoglia Socrate.
– Abbiamo raggiunto la Verità, siamo usciti dalla caverna, non possiamo accontentarci di questo? – chiese Platone.
– Col cavolo che mi accontento! – arruffò la coda Democrito.
– Ma è nella filosofia, non nell’azione, che dobbiamo trovare la nostra consolazione – disse Seneca.
– Come no? E accettare di ucciderci se un imperatore ce lo ordina? – replicò secco il gatto nero.
– Come sempre, con la logica potremo uscirne – si intromise Aristotele, facendo sfoggio della propria autorità. – Quale può essere stato il movente del nipote?
– Solo uno, il denaro – rispose Parmenide a cui piacevano le verità assolute.
– Molto bene. E a chi altro sta a cuore il denaro di Alberica? – chiese Democrito.
– Agli altri eredi.
Lo studente, che di nome faceva Costantino, odiava quel giorno più che mai la vecchia zia morta. Il suo libretto universitario languiva, erano mesi che non vedeva inchiostro e con il cessare degli esami superati era cessato anche il flusso di denaro dalle tasche del padre alle sue. La zia non solo gli aveva negato ogni prestito, ma aveva ribadito la sua intenzione di lasciare tutto ai gatti. La dose letale di sonnifero nel the era stata solo giustizia e non ne provava alcun rimorso. Sopratutto alla luce degli ultimi eventi. Dei gioielli che secondo i precisi calcoli di tutti gli eredi la vecchia era in possesso non restava traccia. Costantino aveva rischiato l’ergastolo per duecento euro malcontati trovati in un cassetto, già preparati per pagare un’imminente visita specialistica, e due ninnoli. Considerato come stavano le cose, avrebbe dovuto prenderla a scarpate quella gattina bianca che era sicuramente una delle beneficiarie dei pingui conti in banca della zia.
Invece no. L’aveva vezzeggiata nell’appartamento della vecchia e ora, di ritorno dal funerale, era stato colpito dal fatto di ritrovarsela sullo zerbino di casa, tutta fusa e moine. Aveva un pelo serico, piacevole da accarezzare e verdi occhi adoranti. Forse, in fin dei conti, qualcosa dalla vecchia megera lo aveva ereditato e come lei odiava le persone, ma aveva un debole per i gatti. La bestiola lo guardò talmente adorante che fu impossibile per Costantino non portarsela in casa.
Nella casa del padre di famiglia una finestra socchiusa c’era sempre. I due bambini avevano un’età che permetteva loro di giocare con le maniglie, senza però la forza necessaria per richiudere poi per bene ciò che avevano aperto. L’uomo, che si chiamava Ernesto, non si stupì, quindi di trovarne una spalancata, quando rientrò dal funerale.
Era di pessimo umore. Sarebbe stato solo giusto se a pagare le esequie della zia fosse stata l’associazione a cui alla fine sarebbe andato tutto. E invece niente. Lo scapolo aveva esibito la suo status di disoccupato con l’orgoglio con cui si espone una medaglia al valore e lo studente il suo lavoro non ancora pervenuto con la stessa ostentazione. Quindi era stato lui a fare tutto, con la sola eccezione dei fiori che, almeno quelli, erano stati messi da associate ed ex alunni. Anche volendo andare al risparmio aveva dovuto accettare che la bara non potesse essere di cartone e che gli operai che l’avevano calata andavano pur pagati, per non parlare di quella maledetta lapide sulla tomba. Non c’era proprio stato verso di farla in plastica. Tutti soldi usciti dalle sue tasche. Difficile, in quel frangente, non pensare in maniera ossessiva ai gioielli della zia. Che da qualche parte dovevano pur esserci.
Un vecchio album di foto sporgeva appena dalla libreria. Non lo prendeva in mano da decenni.
Eccola lì, zia Alberica, con un gingillo diverso a ogni pranzo di famiglia. E che pietre. Agate e smeraldi e diamanti per decine di migliaia di euro. Quei gioielli dovevano pur essere da qualche parte. Cassette di sicurezza non ne risultavano. Dovevano essere ancora in casa…
Moglie e figli non erano ancora rientrati e Ernesto prese a passeggiare per casa, nel tentativo di raccogliere le idee. Sul frigorifero era appuntato, attaccato con un magnete, il numero di telefono di Costantino. Prima della dipartita della zia Ernesto neppure si ricordava di quel parente, aveva dovuto recuperare il suo numero di telefono da una comune conoscente e, prima di memorizzarlo nella rubrica del cellulare, lo aveva appuntato su un post-it. Strano, era sicuro di averlo buttato, quel post-it. Invece no, un po’ spiegazzato, ma giallo e ben visibile, capeggiava sul frigorifero. Costantino…
Sullo scapolo non c’era da fare affidamento, ma Costantino, sotto quel sorriso da bravo ragazzo, era un dritto. Forse i gioielli stavano in un nascondiglio a cui ancora non avevano pensato, ma mettendocisi in due… Senza che lo scapolo ne sapesse niente…
Sul tavolo, la moglie aveva lasciato uno dei suoi giornali femminili, aperto sulla pagina dedicata ai problemi burocratici. L’articolo iniziava con una parola assai minacciosa. Successione.
Se i gioielli ufficialmente non esistevano, pensò Ernesto, nessuno poteva far pagare loro la successione. A dimostrare la loro esistenza c’erano solo quelle vecchie foto.
Forse, pensò, poteva cavarsela da solo, anche se non sapeva proprio dove cominciare a pensare… Il post-it giallo era proprio in evidenza… Ma certo non poteva chiamare Costantino e parlare al telefono di come frodare il fisco.
Si rimise il cappotto e uscì di casa.
– Platone può dire quel che vuole, ma noi sì che sappiamo come funziona la mente umana – disse Gorgia, soddisfatto.
– Col cavolo che gli uomini tendono al bene, al denaro tendono e a poco altro – confermò Protagora.
– Tendono anche all’accoppiamento – riconobbe Democrito, anche lui soddisfatto.
Non c’erano che i sofisti per manipolare le persone.
Quella sera stessa, due ore dopo, Costantino fu dichiarato in stato di fermo e il caso della professoressa gattara morta riaperto.
Era capitato che, mentre Ernesto era nella casa dello studente per parlare dei gioielli scomparsi, fosse entrata nel salotto una gattina bianca con la zampina impigliata in una catenina d’oro. Curiosamente, la bestiola aveva scelto di saltare in grembo al padre di famiglia, che pure mal sopportava i gatti e lo dimostrava in ogni occasione. Era stato Ernesto, quindi, a disbrogliare la zampa della micetta, trovandosi in mano la catenella del battesimo della zia. Da lì a chiamare la polizia, più per togliersi di torno un competitore per la già magra eredità che non per un effettivo sospetto di omicidio, era stata solo questione di minuti.
Per quanto indaffarata, anche la polizia di paese sapeva trarre le sue conclusioni quando aveva una donna che, per quanto anziana, era stata trovata morta quando solo il giorno prima appariva in discreta saluto e un nipote trovato in possesso di un gioiello così personale della defunta. Due domande ben piazzate e lo studente era crollato. In mezzo alla confessione era anche riuscito a proferire un’invettiva contro la zia che, non paga di aver devoluto ai gatti quasi tutto ciò che aveva, si era mangiata anche i gioielli più preziosi.
Come c’era da aspettarsi, della vicenda si parlò parecchio in paese. Per ovvi motivi il più interessato alla questione era Ernesto.
– Certo che la tua famiglia è proprio terribile. La zia spilorcia e il cugino omicida – commentò sua moglie due giorni dopo, leggendo il giornale.
– Io mi chiedo piuttosto che fine abbiano fatto quei gioielli. Una parure di diamante mica evapora – mugugnò Ernesto, arrivando subito al punto che gli interessava.
– Sa che ti dico? – replicò la moglie. – Quel tuo altro cugino, il finto tonto? Secondo me, zitto zitto, i gioielli se li è intascati lui.
Ai gatti dei gioielli non importava nulla, ma apprezzarono la visione, dall’alto del tetto della centrale di polizia, di Costantino condotto fuori ammanettato e diretto in carcere.
– In fin dei conti non sempre la giustizia della città elargisce la cicuta ai giusti – commentò tronfio Socrate.
– Solo perché siamo intervenuti noi gatti, per gli uomini tutto è opinione – disse Protagora.
– Tuttavia la Verità esiste, perfetta e immutabile – chiosò Parmenide.
– Quanto hai ragione – annuì Platone.
– Non illudetevi, tutto muta – sussurrò Eraclito.
Democrito non disse nulla. La soddisfazione stava già cedendo il posto al rimpianto. Mai più notti nella cesta della biancheria sporca, né ciotole di latte al risveglio. Con un sospiro, socchiuse gli occhi color topazio. Proprio del colore della grossa pietra che chiudeva il suo collare. Quello di Ipazia era decorato con brillanti. Per Parmenide la vecchia signora aveva scelto l’ametista, che ben si intonava al suo pelo da certosino, mentre gli occhi blu di Aristotele erano ripresi dagli zaffiri. Tutti i gatti della colonia portavano il proprio nome ricamato sul collare con filo d’oro e d’argento.
– FINE –
Spero che la lettura filosofelina vi abbia intrattenuto un poco in questa primavera dai toni autunnali.
PS: tutte le immagini utilizzate a inizio capitolo sono state reperite in rete, contrassegnate come riutilizzabili a fini non commerciali.