domenica 23 agosto 2020

Letture – Cannibali e re

 

Quando studiavo archeologia sentivo spesso dire che archeologi e antropologi studiano quasi le stesse cose, ma non si capiscono. Ora che sono un'archeologa in disarmo e leggo spesso di archeologia ne comprendo il perché. Immaginiamo un archeologo che studi un villaggio preistorico, saprà quante persone usavano ogni capanna e ogni tenda. Saprà dove andavano in bagno, troverà anche i loro rifiuti e ne starà estasiato perché così capirà cosa mangiassero e con che frequenza. Se trova il cranio di uno di loro arriverà a definirne i tratti del viso. Di quel dato individuo saprà quindi quanto era alto, cosa mangiava, di quali malattie soffriva, come si vestiva, con che oggetti è stato sepolto. Non saprà mai cosa pensasse, se si è sposato per amore o per costrizione, quali dei adorava, se non a grandi linee, cosa pensasse di loro. Non saprà se quel singolo villaggio avesse usanze comuni con altri, se fosse alleato o nemico, se riconoscessero già una qualche forma di autorità di tipo regale. In generale, sono domande a cui gli archeologi, sopratutto i preistoricisti, si fanno poco. Si innamorano del particolare. Di quell'accampamento di cui possono ricostruire la vita quasi passo a passo, di quell'individuo di cui quasi possono accarezzare il viso. Dell'uomo del Similaun l'archeologo guarda il DNA, la tecnologia dell'abbigliamento, lo stato di salute. Non sa e poco si chiede come si chiamano gli dei che adorava, se li adorava. L'antropologo, a quanto leggo, guarda invece il generale. Le costanti del comportamento umano. Agli occhi dell'archeologo è affetto dalla "sindrome della teoria del tutto".

Cannibali e re di Marvin Harris è, per certi versi, la massima espressione di questa "Sindrome della teoria del tutto". Un saggio di rara superbia che pretende di spiegare lo sviluppo di tutte le civiltà umane. E pur tuttavia è davvero un libro epocale.

È stato scritto negli anni '70, quindi è datato per quanto riguarda le basi archeologiche (che comunque rimangono sostanzialmente corrette) ed è figlio del dibattito culturale di quegli anni. Per interi capitoli l'autore dialoga con correnti di pensiero di quel periodo, in un gioco di rimando che risulta poco comprensibile nel 2020. E pur tuttavia è davvero un libro epocale.

È un libro epocale perché guarda lo sviluppo della civiltà umana con disincantato cinismo e parte da un assunto che credo sia in sostanza corretto. Una civiltà non cambia se non è costretta a cambiare e ciò che davvero costringe una civiltà a cambiare è la penuria di cibo. Quando una civiltà ha successo la popolazione aumenta e questo porta a un impoverimento dell'ambiente e quando si arriva a non avere più abbastanza cibo per tutti la civiltà collassa e/o si modifica.

Tutto ciò è estremamente semplicistico, ma spazza via qualcosa che ancora vedo in alcuni libri di storia,  l'idea secondo cui le civiltà si muovono sempre verso il progresso, spinta da innovazioni frutto del genio e che sono sempre delle migliorie rispetto a prima. Ancora l'anno scorso mi sono trovata davanti a un libro di storia delle superiori che magnificava l'introduzione del ferro come una scoperta e un progresso della civiltà umana trovandosi poi nell'imbarazzo, qualche capitolo dopo, di presentare gli opliti greci con la loro armatura in bronzo (per gli interessati, il ferro viene sviluppato quando per vari motivi risulta più difficile approvvigionarsi di stagno, metallo indispensabile per fare il bronzo. Per secoli un buon oggetto in bronzo rimane migliore di uno in ferro mediocre). Harris mette in evidenza un ovvio che però è necessario rimarcare, cioè che le civiltà cambiano solo quando sono costretti e che un poveraccio di fine ottocento, costretto a lavorare in miniera o in fabbrica fin dall'infanzia aveva un'aspettativa di vita inferiore a quella di un cacciatore raccoglitore preistorico e una qualità della vita inferiore.

Pur con tutte le criticità che questo saggio, letto oggi, ha, sono molte le cose che mi hanno colpito. 

Non c'è mai stato un "bel tempo antico". Ogni eden apparente ha il suo indicibile segreto. Harris, come molti antropologi (e archeologi) è affascinato dalle civiltà di cacciatori e raccoglitori e forse, potendo scegliere, vorrebbe essere nato in una di queste, magari all'epoca del mammut. Le civiltà basate sulla caccia e raccolta, in un ambiente non troppo ostile (dove ci siano prede grosse) e senza influenze esterne pare non siano male per accasarsi. Per la sussistenza pare basti lavorare circa 3 ore al giorno, per dedicare le restanti allo svago e alla socialità. Il tipo di vita seminomade sembra molto sano, nel senso che è difficile che si sviluppino epidemie (a meno che vengano portate dall'esterno, come accaduto col morbillo e il vaiolo tra i nativi americani). C'è un però. Nonostante una mortalità infantile non altissima, tutte le cronache e le osservazioni sul campo riportano che di solito in questi gruppi una donna ha al massimo due o tre figli. Il motivo è semplice, se la popolazione sale troppo si arriva ben presto ad esaurire le prede. Quasi tutte queste società praticano o praticavano infanticidi selettivi. La cosa mi ha molto colpito perché qualche giorno fa sono andata a trovare un caro amico in montagna, in un borgo sulle nostre valli. E lui ci raccontava che uno studio recente aveva trovato sotto quasi tutti le pavimentazioni del paese ossa di neonati. Da qui era partita la ricerca di un appassionato che ha trovato parecchie testimonianze che raccontavano come fino agli inizi del novecento le famiglie fossero consapevoli di non poter mantenere più di tre/quattro figli. Però "casualmente" moltissimi bambini morivano durante il parto o addirittura le donne non dicevano di essere incinte. Insomma, non sono le società di cacciatori raccoglitori (che ci sembrano così lontane da noi) ma anche le nostre società contadine (forse solo in ambienti montani particolarmente ostili, non saprei) si basavano sull'infanticidio. Ah, i bei tempi antichi...

Una gran parte del libro è spesa nel cercare di spiegare in termini "razionali" i tabù alimentari religiosi. Probabilmente Harris non ci azzecca su tutto, ma mi ha colpito la correlazione tra l'inaridimento del medio oriente e il tabù del maiale, animale che necessita di molta acqua. A un certo punto, secondo lui, l'allevamento del maiale poteva mettere in crisi l'intera società. Dovendo far economia d'acqua la cosa migliore era evitare che finisse ai maiali vietando il consumo della sua carne. Un discorso analogo viene fatto per le vacche indiane, che sono zebù, animali che resistono molto bene alla siccità. Come spieghi a un contadino affamato durante la siccità che se si mangia il suo zebù alla ripresa delle piogge non potrà più arare il campo? Rendi la vacca sacra. È ovviamente molto semplicistico, ma ho il sospetto che almeno una base di verità qua e là ci sia.

Un capitolo molto interessante è dedicato al dialogo con il femminismo degli anni '70. Harris si dilunga a spiegare come non ci siano prove dell'esistenza di una supposta (in quegli anni) ancestrale società matriarcale. Spiega, però, il modo molto brutale la nascita del sessismo. Se l'aumento spropositato della popolazione è qualcosa che si è sempre cercato di arginare e se l'infanticidio è stato spesso usato come metodo di controllo delle nascita, bisognava in qualche modo incentivare l'infanticidio femminile. Secondo Harris la guerra è "nata" (come guerra organizzata tra stati, volta a sottomettere l'avversario) come mezzo per rendere in qualche modo più preziosi i maschi, in quanto futuri guerrieri e quindi rendere più "facile" l'infanticidio femminile. Nonostante un certo numero di dati a supporto, tra le varie teorie proposte da Harris questa mi è sembrata particolarmente azzardata. Tuttavia mi ha affascinato lo sviluppo di questo pensiero. Se la guerra non è innata, ma è un costrutto umano, come pure la supremazia maschile, ne consegue che la violenza è in gran parte culturale, si impara. E, per tanto, si può imparare la non violenza e la parità. Ora mi trovo nell'assurda posizione di non condividere l'apparato teorico, ma di appoggiare le conclusioni pratiche: la via della cultura non violenta e paritaria è possibile.

Infine, beh, il libro si chiama "Cannibali e re". Quindi si parla di nascita delle monarchie, ma anche di cannibalismo. Questa è la parte più morbosa, affascinante e per certi versi convincente. Fa paura la lucidità con cui viene analizzata la società Atzeca. Non so, perché da archeologa preistoricista europea non la conosco così a fondo, se i dati siano corretti (probabilmente sì). Ebbene, se l'analisi di Harris è corretta non fanno paura gli atzechi, ma ciò che una società dominante messa alle strette può fare per sopravvivere.

Insomma, questo libricino (ma denso come il plutonio) è proprio un libro che va letto. Probabilmente urterà molte vostre convinzioni. È datato e contiene dati non sempre attendibili. Alcune conclusioni sono state già smontate dagli studiosi. Ma guardare la storia dell'umanità da un'ottica così cinica e distaccata almeno una volta nella vita va fatto. 

10 commenti:

  1. Questo titolo non mi è nuovo, ma non ricordo di averlo letto, è probabile che ne abbia già sentito parlare. L'approccio cinico non mi sconvolge più di tanto, credi sia molto realistico. Il mio professore di geografia economica delle superiori (bravissimo a mantenere alta l'attenzione della classe) ci spiegava spesso di come certe "tradizioni" derivassero da necessità economiche e, in un certo senso, di sopravvivenza. La questione delle vacche sacre indiane e del divieto della carne di maiale non mi stupisce. Un'altra considerazione molto cinica ma purtroppo vera riguarda la sovrappopolazione, in passato le guerre mantenevano il controllo ed evitavano l'eccesso di crescita della popolazione...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. È un saggio molto famoso, un mostro sacro dell'antropologia culturale, ma anch'io l'avevo sentito spesso citato ma non l'avevo mai letto per intero. Il discorso sulla guerra è molto interessante perché non è portato nel senso che intuitivamente daremmo ad esso. La crescita della popolazione è dovuta al numero delle donne fertili, non della popolazione generale e in guerra muoiono per lo più maschi. Però la guerra dà valore ai maschi e spinge le famiglie a preferire i figli maschi alle femmine, determinando una maggiore mortalità nelle bambine. Non so se sia un discorso sensato a livello di studi statistici (molto difficili da effettuare). Insomma, una lettura interessante.

      Elimina
  2. Condivido il discorso sullo "sguardo piccolo" dell'archeologia. E' il motivo per cui mi sono allontanata dalla professione dura e pura. Aggiungo che, proprio per questo amore del particolare concreto e per la paura di osare, scrivere per i musei è difficilissimo: in un caso mi è stato chiesto di scrivere "una cosa narrativa", e quando poi l'ho scritta (sempre attenendomi rigorosamente ai dati materiali, perché sono precisina anch'io) mi hanno risposto inorriditi che non potevo far parlare un personaggio antico, perché "non ci sono prove che abbia mai pronunciato quelle parole". E parliamo di uno dei maggiori musei italiani, non il Museo della Ciabatta Antica di Ripafratta.
    Chiusa parentesi, e scusate lo sfogo. Bella recensione :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ah, ti capisco! In effetti la sindrome dell'archeologo esiste eccome (anch'io sono sempre in difficoltà con la narrativa storica, essendone in parte affetta).

      Elimina
  3. Molto interessante! Io tra l'altro non faccio spesso letture che mi permettano di osservare la realtà da una certa distanza, perciò mi farebbe bene leggerlo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Beh, questo è proprio un classicone. Poi, nonostante la pretesa di spiegare tutte le civiltà umane (!) di per sé non sono neppure 200 pagine.

      Elimina
  4. Ciao, sono molto interessata all'argomento; visto che dici che questo libro è datato in alcuni suoi assunti mi consiglieresti qualcosa di più moderno?
    Questo di sicuro lo leggo ma vorrei sapere qualcosa delle teorie attuali
    Grazie
    Betty

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non sono un'antropologa, anche se leggo quello che mi capita sotto mano. Questo testo è degli anni '70 ed è un classico dell'antropologia culturale. Altrettanto classico, ma un po' più recente (sempre però datato) è "Armi, acciaio e malattie". Bisogna dire, però, che tendenzialmente quando arrivano al grande pubblico questo genere di saggi sono già un po' vecchi, molti studi non escono dal circuito universitario. Sono comunque interessati, basta dare un occhio all'anno di prima pubblicazione e accettare il fatto che alcuni dati nel mentre possono essere stati smentiti.

      Elimina
  5. Oh, FINALMENTEho scoperto di cosa parla questo strafamosissimo saggio che assolutamente tutti avevano letto tranne me - e che io, in base al titolo, non ho mai avuto nessunissima voglia di guardare 😄
    Grazie!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Invece sai che io ne sapevo pochissimo? A volte mi scopro davvero ignorante!

      Elimina