Il mio ricordo più triste legato al mio passato sportivo coincide con quello del mio miglior risultato.
Subito dopo la gara dei tremila ai campionati italiani a squadre, sotto un cielo che prometteva diluvio nell'autunno del mio primo anno di università. Ero arrivata settima, avevo fatto del mio meglio, che coincideva con il mio primato personale, eppure avevo negli occhi solo desolazione. La stessa che riconoscevo nello sguardo della ragazza arrivata quinta, che per altro era stata mia compagna di liceo (notare l'ironia di essere tra le prime dieci in Italia, ma comunque secondi nella propria scuola...).
Perché settima o quinta faceva poca differenza. Per entrare nel giro che contava davvero bisognava arrivare quanto meno terze. E non l'avevamo fatto, pur con tutto il nostro impegno. Il nostro tempo era finito. Ormai, per mantenere quel livello, bisognava scegliere, o lo sport o tutto il resto e, semplicemente, non valeva la pena di scegliere lo sport.
Lo sapevo anche prima, per carità, quel risultato era meglio del prognostico di partenza, eppure era comunque la fine, la fine di una carriera agonistica, per quanto minore, che comunque aveva caratterizzato tutta la mia adolescenza. E la consapevolezza mi metteva una tristezza infinita. Avrei continuato a gareggiare ancora per qualche anno, ma sapevo già allora che non mi sarei mai più qualificata per una finale nazionale.
Non ho nessun altro ricordo triste dell'atletica. Per anni, il momento di uscire per andare a fare allenamento è stato il più bello della mia giornata. Perché la pista di atletica è stata uno dei primi posti a cui ho sentito di appartenere.
Quanto ho iniziato ero alle medie. Ero più marginale che emarginata. Non ero bullizzata o presa in giro. Ero lasciata lì, a fare il soprammobile, con la sensazione di non capire quando i compagni mi parlavano e di non essere capita quando parlavo io. Loro leggevano Cioè e io, in quel periodo, l'epica medioevale. Al campo di atletica, per la prima volta, ho avuto la sensazione di avere il diritto di stare lì, di appartenere al gruppo. Sia pure di un argomento circoscritto, sapevo sempre di cosa si stava parlando. Persino le mie stranezze erano guardate con simpatia e valevano come quelle di qualsiasi altro.
Anche allora, tuttavia, ero consapevole che lo sport potesse essere un inferno. I più sfortunati, dal mio punto di vista, erano i figli dei campioni mancanti. Obbligati a forza da genitori che pensavano di saperla più lunga di tutti, allenatori compresi. Ragazzi che alle medie non potevano andare in gita perché non avrebbero potuto seguire la dieta imposta da papà, per dire. Poi c'erano gli allenatori tiranni. C'era una ragazza che in gara dovevo distanziare per forza, perché la sua allenatrice la insultava per tutto il tempo e quindi, se le stavo vicina, gli insulti li sentivo anch'io. Infine, c'erano le zone d'ombra più profonde, nelle quali non sono mai incappata direttamente, in parte per mera fortuna (allenatori sensati), fatte di farmaci presi sottobanco e infortuni trascurati, di cui pure ero consapevole.
Questa lunga introduzione per spiegare lo spirito con cui mi sono avvicinata a Trottole, che sapevo essere la storia autobiografica di una ragazza che ha vissuto il pattinaggio come un incubo (ovviamente non potevo perdermi, in questo periodo, la storia di una pattinatrice).
Ecco, forse è stato quello il mio errore di fondo, Trottole è la storia di un'adolescenza da incubo di cui il pattinaggio è solo una parte.
Per tutto il (ragguardevole) tomo non ho fatto che chiedermi perché mai Tillie non lasciasse uno sport che non le dava nulla. E che nessuno la obbligava a praticare.
Tillie esordisce dicendo di essere stata una campionessa di pattinaggio, ma, in tutta onestà, non è vero, o, meglio, lo è stata come io lo sono stata di atletica. Un'onesta praticante di medio livello. Non è quindi condannata dal proprio talento. Non è obbligata dalla famiglia, che anzi, vive in pattinaggio come un peso anche economico. Non è obbligata dall'allenatrice.
Semplicemente, il pattinaggio ha sempre fatto parte della vita di Tillie, è parte della sua identità. E quando capisce che in realtà quel mondo non le piace per niente (Tillie odia i costumi, non ammira nessun'atleta, trova umilianti le esibizioni) non riesce a staccarsi. E questo ovviamente non la aiuta. Alzarsi alle quattro del mattino, obbligata a due allenamenti al giorno non la aiuta a crearsi un giro di amici al di fuori dello sport, né ad andare bene a scuola.
La conosce bene quella sensazione di inseguire costantemente gli altri, non avere mai il tempo di fare tutto, di essere costantemente stremati (c'è stato un periodo in cui mi addormentavo ovunque, sopratutto nell'aula di scienze, più confortevole della nostra...).
A questo stato di costante spossatezza si aggiungono il bullismo, le molestie sessuali e le difficoltà di accettare e far accettare la propria identità sessuale.
Nulla di strano che Tillie viva in uno stato che forse è più esaurimento che depressione, avviluppata in una spirale di tristezza da cui di fatto potrebbe liberarsi, ma non ha la forza di farlo.
Il risultato è tanto più vero quanto più incomprensibile. Il disagio di Tillie è palpabile, ha la forza del racconto della vita vissuta e spesso si ha la sensazione che possa andare a finire molto peggio di come in realtà è andata.
Dall'altra parte si vuole urlare a Tillie di piantarla lì di pattinare. Perché, davvero, non ha alcun motivo per farlo (se non, forse, la sua unica vera amicizia). Nessuno la obbliga. Eppure è così, a volte gli adolescenti sono i peggiori carnefici di se stessi. Tillie si obbliga a pattinare così come un'anoressica si obbligherebbe a non mangiare, solo per non perdere la sensazione di avere un minimo di controllo su se stessi.
Ne risulta una lettura intensa e a tratti insostenibile che ben dà l'idea, però, di quanto disagio possano provare adolescenti sorridenti, ragazzine che apparentemente hanno tutto per essere felici. E sono bravissime a simulare la felicità.
È un memorial, una storia personale che, come tale, non può essere presa come paradigma per tutti gli adolescenti che praticano uno sport a livello agonistico. La migliore amica di Tillie, ad esempio, avrebbe ben altro da dire sul pattinaggio. Lo sport, come qualsiasi altra cosa, a quell'età può essere una salvezza o una rovina.
Quello di cui io, ex adolescente sportiva, non mi ero mai resa conto, forse, è che può essere una rovina anche senza genitori o allenatori fanatici, senza infortuni disastrosi o torbidi retroscena.
Le gabbie peggiori ce le costruiamo sempre noi stessi.
Non sono mai stata una sportiva e guardo storto l'accanimento agonistico di certi genitori che privano i figli di molto perché tutto non si può fare è lo sport ha sempre la meglio, d'altra parte il talento va allenato. Comunque lettura e tua esperienza di vita le ho trovate entrambe assai interessanti quindi grazie
RispondiEliminaCrescere da sportivi è un privilegio. Senza troppa retorica, si impara presto il senso della fatica, dell'impegno in relazione al risultato e a gestire bene il (poco) tempo libero. Se è una scelta. Se non lo è un incubo. A quanto pare può essere un incubo anche quando è una scelta e questa cosa non l'avevo considerata.
EliminaForse Tilli in quello sport che capisce di non amare trova la sua identità e fa fatica a staccarsene, liberarsi richiede sempre molto coraggio. Può accadere che una ragazza adolescente non abbia la forza di ribellarsi o di abbandonare la propria gabbia, spesso non la trova neanche da adulta.
RispondiEliminaSì, per Tillie lo sport è una gabbia auto imposta. Fa sempre tristezza vedere come spessio siamo bravissimi a rinchiuderci da soli e a impedirci di volare.
EliminaE' vero, esistono prigioni percepite come tali, da cui in realtà si potrebbe uscire, a volte facilmente; ma sono gli altri ad accorgersene, mentre noi non vediamo l'uscita. L'aiuto esterno è importante, ma non è semplice comunque.
RispondiEliminaSì, credo che questa storia descriva bene la sensazione di sentirsi in trappola.
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