Un cinquantenne irrisolto, in crisi di mezza età, frequentatore abituale di prostitute, vorrebbe averne una a sua completa disposizione e si inventa di esserne innamorato. Lei ne farebbe volentieri a meno, ma i soldi di lui sono comodi. Seguono 300 pagine di film mentali con saltuari elogi della prostituzione minorile.
Questa, ridotta all'osso è la trama di Un amore, romanzo di Dino Buzzati, libro del mese del gruppo di lettura, che mi ha lasciato con poche certezze e molti "non lo so".
Non posso dire di essere un'esperta di Dino Buzzati, di cui ho letto Il deserto dei Tartari e molti racconti (alcuni li amo parecchio). Non avevo mai sentito parlare di questo romanzo. Un libro quasi dimenticato, prova ne è la copia che ho preso il prestito nella biblioteca del paese, riesumata dopo un certo lavoro di ricerca e che non era più stata data in lettura dal 1988.
"Non so" credo sia il commento che più mi è venuto alle labbra, leggendolo. La storia è quella che ho riassunto. 300 ossessive pagine nella mente di un cinquantenne irrisolto che vorrebbe a sua disposizione una giovane prostituta. Lei gli racconta un sacco di storie per coprire probabilmente una verità di estremo squallore di cui a lui non importa niente, lui continua a farsi improbabili film in testa su di lei, sulla vita che conduce, sulle sue motivazioni e in fin dei conti sui sentimenti che prova. Perché è ovvio che "amore", a dispetto del titolo ,non è il sentimenti che porta Dorigo a immaginare che per lei forse la cosa migliore sarebbe essere investita da un tram e finire mutilata (!) e che, d'altra parte, non lo spinge mai a fargli una proposta concreta che dia a questa ragazza almeno la speranza di una possibile vita diversa.
Il fatto di rimanere per tutte le 300 pagine (un po' più o un po' meno a seconda dell'edizione) nella testa non proprio centrata di lui nega a questo romanzo la possibilità di farsi davvero indagine sociale. C'è molta più Milano, città in cui è ambientato, molta più analisi di una società che cambia in Venere Privata di Scerbanenco.
Questa è la storia di un'ossessione che, però, non diventa neppure estrema come, per dire, in Lolila. Alla fine quella di Dorigo è una sbandata che sì, magari gli vale qualche commento di disapprovazione, ma nulla di più. Non ne compromette la rispettabilità sociale, né la vita professionale. Dopo l'ultima pagina può tranquillamente allontanarsi da lei, la cui vita è comunque appena un poco peggiore rispetto all'inizio della storia, trovare un'altra casa d'appuntamenti (così, bella, così pulita, così comoda, spendere così poco per avere una minorenne compiacente...) e riprendere a fare esattamente ciò che faceva prima dell'inizio della vicenda.
Quello che mi resta, davvero, della lettura sono due cose. La sensazione che di Dorigo in fondo sia pieno il mondo. Uomini a cui non importa nulla di creare un vero contatto umano con chicchessia, preferendone il mero utilizzo e le proprie fantasie. Uomini che neppure si rendono conto dei danni che fanno al prossimo. Uomini per cui, ho pensato, anche l'Inferno è un'inutile spreco di energia. Non so da quanta percentuale di gente così sia composta l'umanità. Se sono la maggior parte, allora hanno ragione gli antichi greci "la cosa migliore è non nascere affatto e, se nati, morire il prima possibile". Insomma, estinguiamoci subito e liberiamo il mondo dalla nostra inutilità.
L'altra è comunque l'apprezzamento stilistico.
Buzzati è un autore sperimentale e qui si butta nel flusso di coscienza, si lancia in costrutti grammaticali particolari, utilizza in modo alternativo la punteggiatura e la sintassi. Il risultato non mi è dispiaciuto. Certo, 300 pagine di film mentali improbabili sono comunque troppe, ma in generale scorrono via bene. Dorigo, se non altro, riempie la sua inutilità di belle frasi.
Non so, non l'ho capito, forse non conosco abbastanza l'autore o forse sono tonta io, quale fosse il fine di Buzzati, cosa lo abbia spinto a scrivere questo libro.
Il buttare la vita in attesa di qualcosa che non arriverà mai, in questo caso un amore, è un tema caro a Buzzati ma non mi sembra che sia questo o solo questo il punto. C'è qualcosa che mi sfugge, come se il romanzo stesso si fermasse sulla soglia di una potenzialità.
Quella di Dorigo per Laide è troppo debole per essere un'ossessione che valga la pena di indagare. Non c'è analisi sociale, perché tutto è filtrato dalle fantasiose elaborazione dell'uomo, al punto che Laide rimane inconoscibile per noi come per Dorigo.
L'interesse dell'autore pare quindi concentrato su Dorigo, un uomo che, dal mio punto di vista non meriterebbe certo un romanzo. Il fatto che comunque il lettore non scopra le conseguenze che questa sbandata avrà sulla sua vita, ammesso che ne abbia, lo rendono ai mei occhi ancora meno interessante. Non riesco a empatizzare con lui, non riesco a compatirlo, ma neppure mi fa arrabbiare. È una creatura del tutto inutile, che non incide nella vita di nessuno (alla fine Laide era nei guai prima, è nei guai durante e nei guai rimarrà anche dopo la fine di questa non relazione). E quindi non riesco a capire fino in fondo perché regalare tutta questa bella prosa alla descrizione dell'inutilità.
Qualcuno lo ha letto e mi offre una migliore chiave di lettura?
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