sabato 4 gennaio 2020

Di fini e di inizi


L'Epifania, e quindi il rientro al lavoro, incombe su di noi. Pur con tutto l'amore che ho per il mio lavoro, non ho molta voglia di lasciare queste giornate graziate dal cielo, in cui siamo stati estremamente lacustri. Tra una gita e l'altra sono tuttavia riuscita a portare a termine il mio obiettivo natalizio, cioè terminare la stesura del "non più YA".

La fine di una prima stesura di un progetto lungo è qualcosa di strano.

Da un lato c'è il grato sollievo di essere arrivati in fondo. Scrivere richiede costanza, è una sorta di maratona, succhia tempo. Un romanzo (riuscito, non riuscito poco importa) è qualcosa che si costruisce un po' ogni giorno, spesso ritagliando tempo al sonno o ad altro. Si arriva in fondo esausti, con una parte della mente che grida "non voglio mai più scrivere" (dura poco, ma c'è). Con il sollievo infinito di un lavoro che è arrivato alla fine.

Dall'altro ci si sente vuoti. La revisione non è la stessa cosa. Per mesi questi personaggi hanno abitato la mia mente, hanno ossessionato il mio immaginario, hanno sovrapposto la loro realtà alla loro. Dato che la protagonista è una pianista ho ascoltato più classica per piano da luglio ad oggi di quanto abbia mai fatto in vita mia, ho letto articoli su articoli su compositori e sonate. A tratti, ho visto il mondo come lo vedrebbe lei. Poi di colpo ci si sente vuoti e soli. E una parta della mente pensa che non sarò mai più in grado di scrivere così, con questa intensità.

Alla fine di una prima stesura si è del tutto incapaci di giudicare in modo obiettivo quanto prodotto. A tratti pare bellissimo, la cosa migliore che abbia mai scritto, a tratti orribile e imbarazzate e degna solo di un rogo.
Non so se questo bipolarismo autoriale sia una malattia che affligge solo me o se sia comune, di certo a tratti è inquietante.

Alla fine di una prima stesura si inizia a guardare al dopo, e qui c'è IL GRANDE VUOTO. Non ho idea di cosa farne. Proprio nessuna. Il fatto che sia la prima cosa non di genere che abbia scritto amplifica la cosa. L'ipotesi "lo metto gratis in rete che magari qualcuno almeno lo legge" non è del tutto scartata, altro che grandi ambizioni editoriali.

Alla fine di una prima stesura si inizia a guardare quello che si è scritto per cercare di capire che cosa sia.
Il fatto che per me fosse un esperimento, la cui fase di pre produzione attiva è durata due giorni, lo rende più curioso e affascinante. 
Io stessa non so cos'ho scritto.
Di certo non è un YA. I romanzi per adolescenti hanno un lessico di un certo tipo, mentre la mia protagonista indulge in un modo di parlare che la distingue dai suoi coetanei, troppo volutamente ricercato. Frequenta la prima superiore e a volte i suoi ragionamenti partono da quello che sta studiando, con vere digressioni letterario/filosofiche. Infine credo che alcune tematiche siano presenti anche nei romanzi YA, ma non trattate in questo modo. I miei mondi, sopratutto quello reale, sono sempre brutti. La gente muore, si fa del male, fa del male con inaspettata crudeltà. Quindi no, non è uno YA.
Potrebbe essere un romanzo di formazione, a modo suo. Ma anche qui la cosa curiosa è che alla mia protagonista e al ragazzo di cui si innamora non capitano delle cose che li fanno crescere. Elaborano quello che è già capitato loro. Quindi più che sul crescere al massimo è un romanzo sull'accettare di crescere, sul ricordo e l'elaborazione del vissuto.
È uscito, e non era mia intenzione, un romanzo sulla ricerca della felicità. È una cosa che torna a più riprese, senza che fosse pianificato. Sul fatto che agli adulti piace pensare i giovani felici solo perché sono giovani, ma l'adolescenza è spesso la stagione della disperazione.

Vi lascio l'anteprima di un pezzo "musicale", ma che credo renda l'idea del mio modo di raccontare l'adolescenza.

Pensavo di voler suonare per non pensare. Ho provato la cosa più difficile che abbia mai osato desiderare di suonare. 
Vento notturno di Medtner. 
Che cosa ti urli, di notte, vento? 
Che cosa mi urla, dentro? 
Quale parte di me torturata e ferita non riesce né a parlare né a tacere? 
Vorrei farla mia, questa sonata, urlarla con le dita sui tasti. Far sentire le urla, anche se non lo fa. Non è una cosa gridata, la sonata di Metner, è sommessa, a volte sussurrata. È terribilmente complicata e involuta, ma con qualcosa che preme per uscire, che si fa ora dolente, ora giocoso, un dolore che si nasconde e non si vuole far riconoscere. Sembra che l’abbia scritta per me, oggi. Ma non è vero. O, meglio, non ce la faccio. È troppo. Troppo da improvvisare nella Bara, senza poter davvero evocare lo spirito del maledetto russo che mi indichi come muovere le dita sui tasti. Non posso suonare il mio dolore sulla musica di un altro, perché non ne sono capace. E allora lascio che siano le mie dita a scegliere. Qualcosa di meno alto e preciso. È brutto rendersi conto che non sei in grado di scrivere te stesso, ma che qualcun altro lo ha fatto. È ancora più brutto se non sei in grado di appropriartene. Ma io suonerò Medtner, un giorno. Lo suonerò come lo avrei voluto suonare oggi, con la voce della mia anima spezzata, con il sangue che cola dentro e non si fa lacrima, con i singhiozzi ingoiati e la normalità che ti avvolge e soffoca. 

Per chi volesse una parte della colonna sonora, il brano è questo

E voi come vi sentite a prima stesura completata?

10 commenti:

  1. La sensazione che provo è identica alla tua. Io spero di poter leggere il tuo non più YA del resto anche io mio è un non più - non vuoi avere un altro romanzo difficilmente ascrivibile in un grnere, vero? - mi ècon realtà già stato detto dalla editor, ma io non me ne sono curata.

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    1. Speriamo che entrambi questi romanzi trovino una giusta casa! Quanto alle calssificazioni in generi, inizio a non poterne più.

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  2. Stanca e sollevata per avere finito la parte più insidiosa del lavoro, quella che non sono mai sicura di portare a termine fino a quando non l'ho terminata davvero. Tutto sommato l'idea che la storia non arrivi a raccontarsi fino in fondo è più preoccupante delle questioni di pubblicazione. In un modo o nell'altro, è certo che il tuo non-più-YA lo leggerò.

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    1. Sollevata sì, anche un po' vuota, triste che il viaggio sia finito. Per la pubblicazione ormai non so, ho accettato che possa anche non arrivare e che il mondo, tutto sommato, vive bene anche senza le mie storie.

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    2. Lo penso spesso anch'io. Ed è vero.

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  3. Mi aggancio alla tua risposta a Grazia perché sono allineata. E buona ripresa per domani.

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  4. Di solito mi sento stanca, ma sono contenta di essere giunta alla fine, come una nave che arriva in porto dopo un lungo viaggio. Diverso è il caso della revisione: lì incendierei proprio la nave! Ho ascoltato il brano e, pur non intendendomene per nulla, l'ho trovato molto sofferto.

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    1. Ah, sì, durante la revisione mi fa tutto schifo, vorrei incendiare il testo e me insieme...

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  5. Purtroppo non lo so più da molto tempo, forse in piccolo posso dirti come mi sento a fine stesura di un racconto, ma non è la stessa cosa, mi rendo conto.
    Eppure, la sensazione di non voler lasciare così presto la storia e i suoi personaggi mi attanaglia tutte le volte.
    Ascolto molta musica classica anch’io, con un figlio che studia il pianoforte, riempie di emozioni straordinarie: spero che a te sia servita a impreziosire la tua ispirazione, anche se dallo stralcio del romanzo che hai condiviso sembra proprio di sì.

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    1. Dev'essere proprio bello avere in casa un pianista. Io mi limito ad ascoltare registrazioni che capisco solo in parte, ma che mi affascinano sempre.

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