sabato 1 marzo 2014

Letture - La maschera di Apollo


Mary Renault

Sono infinitamente grata a Castelvecchi per il recupero di questi romanzi (La maschera di Apollo è del 1966).
Seguito ideale de Le ultime gocce di vino, inizia qualche decina d'anni dopo il termine del primo romanzo. Siamo ormai in pieno IV secolo a.C e la voce narrante non potrebbe essere più diversa.
Se ne Le ultime gocce di vino a farci vedere la storia con i suoi occhi era un ragazzo ateniese, pieno di ingenuità e di ideali, qui a tenerci per mano c'è Nicerato, smaliziato attore tragico.
Un po' divo, un po' avventuriero, un po' sacerdote, Nicerato osserva gli eventi da un lato col distacco che il suo essere attore girovago permette, dall'altro con la profonda comprensione dell'animo umano che la lunga frequentazione col teatro greco gli dona, ma anche con il disperato desiderio di trovare ancora qualcuno che creda agli ideali di un tempo, un eroe reale che sia pari a quello delle tragedie.
Il fascino maggiore del romanzo sta in questa continua dialettica interna tra disincanto e speranza, tra il voler essere cinico, ma spiare l'agire degli dei nel mondo, considerare i filosofi dei sognatori senza domani, ma sperare che quegli stessi ideali prendano una forma concreta.
Tutto questo ci conduce con naturalezza attraverso alcune delle pagine meno note della storia greca (chi non è fresco di studi classici faticherà a ricordare i complicati eventi che ebbero luogo a Siracusa nella prima metà del IV secolo). Mary Renault ha il talento, proprio dei grandi scrittori di romanzi storici, che consiste nel dare consistenza concreta e una tangibile umanità anche a quei personaggi che ci sono parsi tanto distanti e freddi nei libri di scuola. Platone, gli accademici, Dione acquisiscono contorni netti e le loro motivazioni appaiono immediatamente riconoscibili, si soffre, con loro o per loro, facendoci anche dimenticare, magari, l'antipatia che avevamo provato per loro a scuola.
Come sempre la ricostruzione storica, per quanto datata, è impeccabile. Dal mio punto di vista ad affascinarmi maggiormente è stato tutto il mondo del teatro greco, di cui l'autrice riesce a rendere la commistione, che certo doveva esserci, tra sacralità e "glamour ante litteram". Le rappresentazioni teatrali erano al contempo celebrazioni sacre e veri e propri kolossal, con effetti speciali, impresari e divi.
Altrettanto interessante mi è sembrato il fatto che Nicerato, con un'educazione fatta quasi soltanto di opere teatrali, riesca a dialogare alla pari con filosofi e politici, dal momento che la tragedia greca è, in effetti, una delle "macchine interpretative" più potenti che l'uomo abbia mai creato.

Alla luce di tutti questi ragionamenti, stride ancor di più la quarta di copertina che l'editore ha voluto allegare al romanzo, facendomi chiedere che genere mai di lettori volesse attirare.
Cito testualmente: "... ma sopratutto è la storia di un amore impossibile... Dione trascina l'attore, perdutamente innamorato di lui, nel vortice della spietata lotta per il potere."
Ecco, forse sarà il caso di avvisare il lettore che "l'amore impossibile" non c'è proprio, in nessuna accezione del termine.
Il rapporto tra Nicerato e Dione è sì, il filo rosso che attraversa il romanzo, ma non è una relazione sentimentale. È un rapporto fatto di reciproca simpatica, ideali condivisi e un certo grado di idealizzazione, ma è una storia del tutto intellettuale.
È quindi il caso di ribadire che il lettore, prendendo in mano questo romanzo, si troverà di fronte a un'elegante prosa d'altri tempi, tantissima filosofia, palate di letteratura tragica, una buona dose di politica antica, un certo numero di "amori greci" com'è naturale aspettarsi da un divo del teatro dell'epoca, ma nessun "amore impossibile con vortice di passione". Nessunissima sfumatura di colore del tipo che viene inteso oggi. 
Certe scrittrici non ne avevano proprio bisogno.

giovedì 27 febbraio 2014

Visioni - The following



Io: – Credo di essere ingrassata
Alunni: – Non vogliamo fare la verifica di storia...
Come risolvere questi problemi? Una fatina volenterosa deve essermi passata vicino e zac... Influenza intestinale per me e Nik (grande festa per gli alunni, immagino).

Eccomi dunque qui, quasi cosciente, dopo due giorni di digiuno forzato e essere riuscita a buttar giù quel tanto di riso in bianco da avere l'energia per postare. Nel periodo di coma a farmi compagnia c'è stata la prima stagione di The Following.

A parte l'influenza, ci sono buone ragioni per guardare questa serie?
Una sola, Kevin Bacon.
Kevin Bacon è perfetto, col suo fare da angelo caduto, per dare vita a Ryan Hardy, un agente FBI maledetto (o che si crede tale) convinto di causare la morte di tutti coloro che gli stanno intorno. Non che abbia tutti i torti, dato che Joe Carroll, un serial killer che Ryan ha catturato, è ossessionato da lui al punto tale da mettere su una vera e propria setta al solo scopo di distruggerne definitivamente la vita (e, di conseguenza, anche a tutta una serie di altre persone, tra cui la ex moglie, di cui Ryan è innamorato).
Come si diceva, Kevin Bacon è perfetto per dare credibilità a un personaggio al limite. Purtroppo le buone notizie si fermano qua.
La credibilità è, in effetti, il vero punto dolente della storia.
Con un po' di sforzo si può credere al serial killer dalla personalità magnetica che dal carcere riesce a mettere su una setta di invasati capaci di infiltrarsi più o meno ovunque che ha come unico scopo aiutare il loro capo a scrivere una sorta di "romanzo perfetto" con Ryan nell'involontario ruolo dell'eroe. Quello a cui non si può credere è un FBI che brancola nel buio, si fa mettere nel sacco da ragazzini psicotici, non riesce a localizzare cellulari, né a identificare i sospetti e quando ben li ha identificati, permette che vadano e tornino da casa loro senza problemi. Per non parlare del fatto che un serial killer evade di prigione due volte nel giro di pochi giorni con una semplicità disarmante.
Ryan Hardy è sempre il primo (spesso l'unico) ad arrivare nei luoghi chiave è palese che sia l'unico ad avere delle idee (non sempre buone, ma pur sempre idee) eppure tutti o quasi vogliono estrometterlo dalle indagini per le più svariate ragioni, salvo poi coprirlo quando davvero si mette a torturare i prigionieri.
Ecco The Following è una serie che può essere godibile, a patto di dimenticare la parola credibilità. Le puntate hanno un ritmo serrato e la follia di Carroll e dei suoi seguace è palpabile, tutti possono essere uccisi e nessuno è davvero al sicuro.
Se siete bloccati in casa con la febbre e le capacità mentali ridotte al minimo è l'ideale.
In altre circostanze non saprei. 

PS: nel mentre su Skye sta andando in onda la seconda stagione, ne ho visto qualche puntata e mi sempre persino più improbabile della prima...

lunedì 24 febbraio 2014

Scrittevolezze - La maledizione dell'eroe porta sfiga


Sto recuperando, a pezzi e bocconi, la prima stagione della serie tv The Following.
Ad attirarmi è stato lo scoprire che si tratta di una serie thriller a vocazione metaletteraria. Vi è, infatti, uno scrittore serial killer che, con l'aiuto dei suoi seguaci (i following del titolo), allestisce una sorta di trama allo scopo di torturare psicologicamente la sua nemesi, l'agente (ormai ex) dell'FBI che l'ha catturato, Ryan Hardy.
Non è ancora il momento di recensire la serie. Dopo pochi episodi mi è però chiara una cosa, il protagonista, Ryan Hardy, appartiene di diritto alla schiera degli eroi porta sfiga.

Costruire un eroe porta sfiga è facile. Basta mettere quella che è tutto sommato una brava persona e iniziare a fargli capitare intorno tutta una serie di disgrazie e vedere come reagisce. Il buon Ryan, scopriamo nei primi episodi, è orfano, ha un fratello morto nell'attentato dell'11 settembre e tutte le persone a cui si affeziona tendono a fare una brutta fine.

Quanto è vecchio l'archetipo dell'eroe porta sfiga?
È antico.
Il primo che mi viene in mente è Edipo.
Edipo è un bravo ragazzo, intelligente e sensibile. Quando un oracolo gli rivela che il suo destino è ammazzare suo padre e sposare sua madre, decide di andarsene di casa, per non correre il rischio di compiere una simile empietà, ignorando di essere stato adottato. Poco dopo, in una banale rissa, si trova per caso a uccidere un uomo che, ovviamente, è suo padre, ma Edipo non lo sa. Il ragazzo prosegue il suo viaggio e incontra la Sfinge che sta tormentando la città di Tebe. Edipo è sveglio e ben intenzionato e sconfigge con l'arguzia la Sfinge. I Tebani gli offrono la corona e la mano della regina vedova, che ovviamente è sua madre, ma Edipo non lo sa.
L'uomo a questo punto fa di tutto per governare bene Tebe, ma in città scoppia la peste. La causa? L'empietà (involontaria) di Edipo. Quando la verità viene a galla la moglie/madre di Edipo, sconvolta si uccide. Edipo si acceca, ma questo non basta ad evitare che i suoi due figli maschi si ammazzino a vicenda e che una delle figlie femmine, Antigone, finisca così male da meritarsi una tragedia tutta sua. Tutto questo avviene nonostante il fatto che Edipo sia un personaggio ben intenzionato, la disgrazia, tuttavia lo avvolge come un mantello. Inoltre, come ogni eroe porta sfiga che si rispetti, Edipo sopravvive, sempre più segnato nel corpo e nella mente, fino a che la rovina non raggiunge il suo culmine.

C'è un'altra caratteristica, tuttavia, che accomuna Edipo a Ryan Hardy di The Following. Si tratta in entrambi i casi di eroi porta sfiga usati con consapevolezza. L'Edipo di Sofocle è una tragedia tutta giocata sul confitto volontà/destino. Edipo cerca l'empio che ha portato la rovina sulla sua città, fino a capire che il colpevole è lui stesso, nonostante abbia fatto tutto per cercare di sfuggire al suo fato e comportarsi nel migliore dei modi. Ryan Hardy, senza volerlo paragonare a un eroe greco (che Apollo e Dioniso protettori del teatro mi perdonino), fin dall'inizio dice "chi mi è vicino muore" e si sente vittima di una maledizione.

Il problema nasce quando "la maledizione dell'eroe porta sfiga" viene usata come espediente narrativo a buon mercato, generando effetti paradossali fino alla comicità involontaria.
Tutti abbiamo riso della Signora in Giallo, che ovunque andasse inciampava in un omicidio. Negli anni '90 seguivo il telefilm E.R., ambientato in un pronto soccorso dove accadeva ogni sorta di disgrazia e quasi tutti i medici che ci lavoravano finivano, prima o poi, per fare una pessima fine, tanto da far pensare che quell'ospedale fosse il luogo più maledetto d'America. Mi viene in mente anche l'uomo ragno, che già è orfano, lo zio viene ammazzato dal criminale che lui ha lasciato andare, zia e donna dei suoi sogni vengono più volte rapite senza un motivo particolare, il migliore amico si trasforma in un super criminale e via così. 
Insomma, volendo si può mandare avanti una trama a suon di disgrazie, ma bisogna farlo in modo consapevole, in caso contrario si rischia di scadere nell'inverosimile.

A voi vengono in mente altri "eroi porta sfiga"? Ne avete mai usati?

sabato 22 febbraio 2014

Scrittevolezze - Personaggi dal destino segnato


Con il primo fiore spuntato nel mio giardino possiamo tornare a parlare di Scrittevolezze.

Si sente o si legge, a volte, nelle interviste agli autori, che questo o quel personaggio ha preso una strada che l'autore stesso non si aspettava ed è corso, magari, verso un finale che non era quello che era stato progettato per lui.
Così come lo si sente raccontare è tutto molto romantico, con personaggi dotati quasi di vita propria che fuggono al volere del loro autore per cercasi un destino autonomo.
La verità, temo, è molto meno fiabesca, ma non meno affascinate.
Autori e personaggi sono ugualmente prigionieri dei vincoli narratologici.

Avevamo già discusso qui della frase di Saramago sulla "duplice forza della necessità e della fatalità" che si stringe sul personaggio.
La prima regola a cui autore e personaggi devono sottostare è quella della COERENZA INTERNA
Se ho costruito bene un personaggio, questi ha un suo passato, un suo mondo interiore, un suo modo di vedere la realtà e quindi un suo modo di prendere le proprie decisioni. Posto in determinate circostanze non può imboccare una a caso tra tutte le strade possibili, ma avrà solo un numero limitato di scelte che può compiere in modo coerente. Ho già fatto l'esempio, credo, di Lucia che non avrebbe potuto, per com'era stata costruita, sedurre l'Innominato e neppure tentare di scappare. La buona Lucia non è proprio il tipo di ragazza a cui viene in mente che potrebbe salvarsi da sola..

I vincoli della coerenza interna, però, non sono gli unici che gravano su una storia.
Ci sono anche questioni di tono e di ritmo.
Se scrivo un romanzo per ragazzi, con un pubblico di riferimento di bambini sui 10 anni con come protagonista un orfanello insicuro che pian piano prende coscienza delle proprie possibilità e si affaccia alla vita con maggiore consapevolezza posso alla fine farlo morire tra atroci sofferenze per una mera casualità o perché ha fatto un errore banale? Ovviamente posso, ma probabilmente finirò per traumatizzare il mio pubblico di bambini (e farmi odiare dall'editore).
Sul vecchio blog avevo già fatto questo esempio.
Nella saga di Harry Potter, alla fine del penultimo volume, il professor Piton, personaggio ambiguo, uccide il preside Silente sotto gli occhi di Harry. A ben vedere ci sono indizi sia per credere che Piton sia un traditore bastardo, sia per pensare che abbia solo eseguito gli ordini di Silente stesso.
In ogni caso è un uomo morto.
Nel mondo reale, colpevole o innocente, al buon Piton rimarrebbero un bel numero di opzioni. Scappare ai Caraibi con i risparmi di Silente e godersi la vita, ad esempio. Il poveretto, però, è in una storia che ha un preciso tono e un preciso ritmo. È una storia di formazione che ha per protagonista un adolescente e Piton ha ucciso Silente proprio sotto gli occhi del suddetto adolescente.
Se è colpevole toccherà a Harry vendicare l'amato preside e quindi Piton potrà solo morire per sua mano.
Se è innocente, considerato il suo passato non troppo limpido, sta compiendo un cammino di redenzione. Dopo aver sacrificato il suo buon nome uccidendo una persona per ordine della vittima stessa, potrà completare il suo percorso solo sacrificando la sua stessa vita.
A prescindere da tutto, anche dal carattere del povero Piton, dalla fine del sesto libro, il professore di pozioni è un morto che cammina.

Nella vita le cose sono ben diverse. 
Nel libro Nelle terre estreme (da cui è stato tratto lo splendido film Into the wild) un giornalista ricostruisce la vicenda reale di un ragazzo che, fuggito di casa, è andato a rifugiarsi in mezzo alla natura selvaggia. La cosa più straziante della vicenda è che il ragazzo è morto poco dopo (si presume) aver preso la decisione di tornare a interagire con gli uomini e la sua morte, per di più, è dovuta a una serie di circostanze sfortunate, dal momento che il ragazzo era tutt'altro che sprovveduto.
Se la vicenda fosse stata pura fiction, il protagonista de Nelle terre estreme avrebbe avuto più chance di sopravvivenza o almeno una morte più epica (infatti il film si impegna molto in questo senso).

Vita e letteratura, tuttavia, non sempre coincidono. 
Quando un autore decide tono e ritmo di una storia ne rimane vincolato anche suo malgrado. Dopo aver creato Sherlock Holmes come un eroe quasi indistruttibile (o quantomeno danneggiabile solo da se stesso) Doyle poteva farlo ammazzare davvero da un Moriarty qualsiasi? No, il pubblico ha percepito la cosa come inconcepibile, anche perché contraria al tono, al ritmo e alla coerenza interna delle storie che Doyle stesso aveva creato. E quindi Sherlock Holmes è tornato a Londra, malgrado il proprio autore e nessun lettore se ne è lamentato. A ben vedere, il ritorno di Sherlock Holmes è molto più coerente che l'idea di una sua morte in fondo a una cascata.

Quindi a volte i personaggi ben costruiti (quelli fatti male sono molto più "maneggevoli") sfuggono al controllo dei loro autori e raggiungono finali imprevisti. Non sono davvero dotati di vita propria, ma perché la coerenza con la psicologia del personaggio, il tono e il ritmo di una storia devono prevalere perfino sulla volontà dell'autore

mercoledì 19 febbraio 2014

Aiuto, sono un robot!


Ultimamente ho tirato un sospirone di sollievo. Sono tornata a essere un appartenente al genere umano, ma non so quanto durerà.
Perché, in effetti, potrei essere un robot.
In molti blog o siti per convalidare commenti o l'invio di moduli mi viene chiesto di riscrivere delle serie di lettere o di numeri dalla grafia distorta, i temibili "captcha" per "dimostrare di non essere un robot".
Negli ultimi giorni ho visto più spesso serie numeriche e, in questo caso, nessun problema, la mia umanità è subito lampante a me e alla macchina con la quale devo interfacciarmi.
Con le serie di lettere, invece è un disastro. Ho scoperto che se chiedi per pietà di dartene di più comprensibili per più di un tot di volte, il sistema decide d'ufficio che sei un robot. Fuori. Se sbagli oltre un certo numero di volte non so cosa succeda al sistema. A me è passata la voglia di lasciare il commento e me ne vado mortificata.
Certo, se sono un robot ho seri problemi di progettazione, essendo soggetta a sbalzi d'umore e reazioni emotive con una frequenza davvero imbarazzante per una macchina.
Sono solo dislessica. 
A più di trent'anni, con un romanzo pubblicato e vari racconti all'attivo, le lettere per me sono ancora dei buffi disegnetti senza alcuno significato intrinseco. Buffi disegnetti dalle forme strane che la mia mente non riesce a incasellare. Le parole, nel loro insieme, hanno significato, ma non le singole lettere, dato che le confondo a livello grafico e non le distinguo da quello fonetico (percepisco ogni parola come un suono unico, non frazionabile).
Non è poi un dramma, come a volte ancora si crede. Leggo molto più velocemente di mio marito, che già legge veloce, perché riconosco le parole come insieme e non come somma di parti. Faccio ancora molti più errori di ortografia di quanto sia normale per una mia coetanea, un numero inconcepibile per una classicista laureata che scrive ogni giorno e per di più insegna lettere. In generale, la tecnologia mi aiuta, con correttori ortografici e programmi di scrittura. 
Quando non si convince che io sia un robot!

A questo punto non mi restano che le accorate preghiere.

Non so quanto siano efficaci i captcha contro i veri robot. Da che è nato questo blog non li ho mai attivati e i commenti spam inviati casualmente si contano sulle dita della mano di un monco. E poi, suvvia, il vostro blog non è un incrociatore imperiale con a bordo i piani della Morte Nera. Abbiate pietà!

So che esistente, voi che credete che la dislessia sia la malattia di chi non ha voglia di studiare. Mettete alla prova i sedicenti dislessici con i captcha. Poi potrete, a vostra scelta, o ricredervi o convincervi che c'è un'invasione aliena che usa come testa di ponte dei robot apparentemente indistinguibili dagli esseri umani (eh, sì, allora ne faccio parte).

lunedì 17 febbraio 2014

La fine dell'era glaciale - venerdì 21, Briga Novarese


Sono un'archeologa in disarmo.
Nonostante questo cerco di tenermi aggiornata almeno sugli argomenti che mi sono propri. In particolare il periodo che più ho studiato è stato quello del difficile passaggio tra paleolitico e neolitico, ovvero tra una società di cacciatori/raccoglitori e una di coltivatori/allevatori. In questo passaggio cruciale si inserisce la fine dell'ultima era glaciale, con tutti i suoi perché e i suoi come climatologici e ambientali. È stato il più grande sconvolgimento climatico che l'uomo abbia mai vissuto e se è vero (non è detto che lo sia) che il clima stia cambiando in modo drastico e inarrestabile, forse è il caso di capire cosa è accaduto allora per avere un'idea di quello che potrebbe capitare. Perché di clima non si può parlare con un orizzonte misurato in anni o decenni, ma in secoli e millenni.

Di tutto questo parleremo

VENERDì 21, ORE 21.00
BIBLIOTECA DI BRIGA NOVARESE 
(Presso il nuovo Centro Polifunzionale)
LA FINE DELL'ERA GLACIALE
Dal passato indicazioni per il futuro?

Prometto paleopalinologia a palate, oscillazioni dei livelli marini e una o due cose terrorizzanti a cui si va in contro quando il clima cambia davvero (e a cui di solito si tende a non pensare).

Ma dal momento che mi dicono che oggi è la GIORNATA NAZIONALE DEL GATTO potevo forse lasciarvi senza una foto del Persiano scattata per l'ocasione?


sabato 15 febbraio 2014

Visioni - Monuments Men


Di questo film ho letto che è magniloquente, manicheista e compiaciuto.
Può essere, non lo so.
Il fatto è che a me l'arte commuove. Mettetemi una Madonna di Michelangelo rapita e sarò più in ansia che per un bambino scomparso. Aggiungiamoci che di film che cercano di raccontare il valore dell'arte (non la vita di un'artista o la storia di un'opera, ma proprio il valore universale dell'arte) ce ne sono pochi. Spolveriamo tutto col sorriso del bel George e capirete come io sia stata presa all'amo sin dal primo fotogramma.
La storia è semplice e, per lo più, nota. Hitler vuole far razzia delle migliori opere d'arte d'Europa, ma dà ordine di distruggerle in caso di sconfitta. In più i bombardamenti rischiano di distruggere le bellezze architettoniche. Dato che i "giovani storici dell'arte" sono già al fronte, viene organizzato un manipolo di attempati storici dell'arte che hanno il compito di segnalare quali monumenti non possono essere distrutti (cosa su cui però il film si sofferma poca) e di recuperare le opere "rapite" prima che i nazisti, ormai prossimi alla sconfitta, le distruggano.
Improbabilissimi come soldati, i nostri mettono però in campo tutto il loro amore per l'arte, anche se questo significa rischiare e, eventualmente, perdere la vita.
Poi certo, i bombardamenti distruttivi sono solo quelli dei tedeschi. Un tedesco con un minimo di umanità non si vede neppure con il binocolo. Gli americani sono bravi e buoni e restituiscono tutte le opere d'arte, mentre i russi, cattivoni, se le tengono loro.
Tutto questo è innegabile, così com'è innegabile, però, la simpatia di questi professionisti attempati e panciuti che con divisa e fucile in spalla si improvvisano soldati per salvare quadri e statue.
In un momento in cui il concetto di "bene comune" è così difficile da far passare e l'arte non merita che pochi spiccioli nel bilancio statale, questa storia manicheista e compiaciuta mi ha commosso.


PS: il mio racconto con protagonista femminile è tutt'ora fermo (anche perché non ho avuto il tempo materiale di scrivere). Però me n'è venuto in mente un'altro. Con una bellissima figura femminile. Che però è scomparsa e non appare mai in scena.