.
La storia nasce a Viterbo, visitata nell'estate del 2016, durante una colazione in Piazza della Morte, mentre mi si spiegava l'origine del nome.
Ha perso il ballottaggio per essere inviato a un concorso, ma ritengo possa avere un suo fascino, come dire, funereo...
Buona lettura a chi vorrà seguirmi.
NEL REGNO DI SORELLA MORTE
A lato della strada c’era un carro rovesciato. Una pietra sporgente aveva rotto una delle ruote posteriori proprio sulla curva e il mezzo era scivolato oltre la scarpata, nel campo dove la segale che nessuno aveva raccolto stava marcendo. Anche parte del carico stava subendo la stessa sorte. I proprietari avevano staccato i cavalli e recuperato solo alcuni dei sacchi che trasportavano. Uno giaceva ancora nel fango semi aperto, lasciando intravedere delle pelli che andavano imputridendosi. Nessuno le aveva portate vie, come nessuno si muoveva lungo la strada o per i campi, su cui solo i corvi volavano.
Solo un pazzo si sarebbe messo in viaggio nel regno di Sorella Morte, pensò Ruggero, stringendosi nel proprio mantello.
Lanciò un ultimo sguardo al carro abbandonato e poi spronò il cavallo. Il cielo di novembre era carico di nubi e prima di notte forse avrebbe preso a piovere.
Arrivò a un villaggio. Solo un cane smagrito attraversò la sua strada, degnandolo appena di un’occhiata opaca. Una porta era aperta e all’interno si intravedevano dei cadaveri gonfi, che nessuno aveva osato spostare. Ruggero fece aumentare ancora l’andatura al cavallo, mentre si portava alle narici il sacchetto contenente pepe e chiodi di garofano, ammesso che servisse a qualcosa.
La peste era arrivata l’anno precedente, portata dalle navi provenienti dall’Oriente. Non era la prima epidemia che Ruggero aveva visto nei suoi venticinque anni di vita. Non vi era anno in cui sorella Morte non mietesse le sue vittime, ma non aveva mai fatto le cose tanto in grande. Alle prime notizie del diffondersi del morbo, aveva lasciato l’università di Parigi per raggiungere sua madre nella campagna laziale, curando di evitare le città. Ora dei suoi amici e dei suoi maestri un terzo, forse più, era morto. Matematici, letterati, musicisti, persino medici. La peste non si curava di chi portava con sé, assassini, bambini e asceti, l’umanità era stata unita dal lutto. Con l’arrivo della bella stagione le cose erano sembrate migliorare, i decessi erano via via scemati, i contagi diminuiti. I contadini erano tornati ai campi che non era stato possibile arare, i pastori avevano cercato le greggi disperse, chi si era rifugiato in campagna si era timidamente riaffacciato in città, scoprendo interi quartieri spopolati. Ognuno dei medici aveva attribuito il merito della propria sopravvivenza a un qualche ritrovato di sua invenzione, così come i venditori di amuleti, i predicatori, gli astrologi e gli alchimisti. Con l’autunno, però, sorella Morte era tornata, chiedendo il suo tributo a chi era sopravvissuto alla prima ondata e facendosi beffa di ogni medicamento, cianfrusaglia, rito o preghiera. L’unica cosa che sembrava funzionare, come in qualsiasi altra epidemia, era l’isolamento. Partire in fretta, chiudersi in qualche roccaforte isolata e ben rifornita e attendere che la marea cambiasse. L’esatto contrario di quello che stava facendo lui.
Giffredo era convinto di essere ormai immune dal morbo. Di ritorno da Costantinopoli, si era ammalato al suo arrivo a Venezia, uno dei primi a farlo su suolo italiano. Nelle sue lettere aveva attribuito a quello la propria sopravvivenza. Si era ammalato in una città ancora fiorente, non piagata dalla paura. Ora, ai primi sintomi della malattia, tutti i parenti abbandonavano la casa del malato, neppure i preti osavano avvicinarsi ai letti dei moribondi per impartire i sacramenti né si trovavano notai abbastanza coraggiosi da raccoglierne le ultime volontà. Forse, molti di loro avrebbero potuto guarire, ma venivano abbandonati a loro stessi, troppo deboli per alzarsi dal letto e raggiungere acqua e cibo. Giffredo, al contrario, aveva avuto denaro e autorità per soprintendere alle sue stesse cure. Forte della propria autorità di medico erudito, aveva tenuto nascosti i bubboni che avrebbero fatto identificare il morbo, impartendo ordini ben chiari nonostante la febbre e la debolezza. Conoscendo il proprio fratello, Ruggero era convinto che anche sorella Morte, alla fine, si fosse rassegnata ad ubbidire. Se neppure la peste aveva avuto ragione della sua volontà, di certo non sarebbero state le lettere di Ruggero e di sua madre, madonna Giuliana, a convincerlo a desistere dai suoi intenti. Sicuro di essere ormai immune dalla malattia, si era messo in viaggio, ostinato a raggiungere la villa di famiglia prima dell’inverno. Tuttavia non era mai giunto alla tenuta alle porte di Tivoli.
E io, che quanto a idiozia non voglio essere da meno, sto percorrendo la strada a ritroso, senza neppure l’illusione dell’immunità alla malattia.
Dubitava di riuscire a raggiungere Viterbo per la notte. Le strade erano in pessime condizioni. Da che il papa aveva lasciato Roma per Avignone, il Lazio si era trasformato dal centro del mondo a una periferia ignorata dai potenti e la peste non aveva che peggiorato una situazione già precaria. I sentieri erano invasi dal fango. Nei boschi, gli alberi caduti intralciavano il cammino e più di un ponte dall’aspetto instabile aveva convinto Ruggero a lunghe deviazioni per cercare un guado. Il suo cavallo era più esausto di lui e reclamava una pausa. Al prossimo villaggio avrebbe chiesto ospitalità o, forse, si sarebbe limitato a entrare in una delle case spopolate dal morbo, per dividere il proprio riposo con i fantasmi dei proprietari.
Sospirò, bevendo un sorso dalla borraccia, un preparato di sua madre, a base di latte e spezie, che a suo dire avrebbe rafforzato l’organismo. Da anni madonna Giuliana era consapevole di aver perso il controllo dei propri figli e non aveva obiettato alla sua decisione di partire, ma in ognuna delle piccole cose che aveva preparato, il decotto, l’aceto con cui gli aveva raccomandato di aspergersi le mani prima e dopo essere entrato in un edificio infetto, Ruggero vedeva la sua preoccupazione. Per la prima volta, pensò alla possibilità che rimanesse sola, vedova, con i figli inghiottiti dalla peste, ultima esponente di una famiglia che aveva perso ogni influenza con la partenza del papa, in una tenuta sempre più trascurata, come un bel fiore lasciato ad appassire in un vaso sbeccato.
Il suono di voci umane lo fece sobbalzare. Nella campagna desolata suonava irreale e fuori posto, quanto il canto di una sirena nel deserto. D’istino, proprio come si fosse trattato del canto di sirene, Goffredo si diresse in direzione delle voci.
Un sentiero che si dipartiva dalla strada principale conduceva a una fattoria isolata davanti a cui sostava un carro. Nell’incerta luce del crepuscolo autunnale, dall’edificio uscirono due figure dagli abiti scuri che reggevano un corpo. Solo in quel momento, Ruggero si rese conto che il carro era già carico di non meno di cinque cadaveri le cui membra pallide si intrecciavano l’una con l’altra.
– Non temete, messere, siamo frati, intenzionati solo a dare cristiana sepoltura a questi fratelli – disse una delle figure.
Ruggero prese un respiro. D’istinto, si era portato la mano al collo dove portava un medaglione raffigurante san Sebastiano. Alla fine persino a lui erano riusciti a vendere un amuleto.
Con uno sforzo, riportò la mano al pomo della sella e si impose di assumere una posa rilassata.
– Che il Cielo vi benedica per la vostra opera, fratelli – disse. – Sono un viaggiatore smarrito, quanto dista Viterbo? O conoscete forse un luogo prima della città in cui possa trovare riparo per la notte?
– Siamo fra Domenico e fra Ottavio del monastero di san Tommaso di Viterbo – disse uno dei religiosi. – Per oggi abbiamo terminato i nostri doveri. Stiamo per fare ritorno in città, anche se arriveremo dopo i vespri. Molte delle strade non sono più percorribili, ma possiamo mostrarvi la migliore, se avete la pazienza di stare al passo del nostro carro.
Ruggero guardò con diffidenza il macabro carico. Nessuno sapeva con certezza come si diffondesse il morbo, ma stare vicino ai malati o ai cadaveri era in cima a tutte le liste delle cose da non fare. D’altro canto era quasi buio e sia lui che il cavallo erano esausti. Passare una notte all’addiaccio poteva avere gli stessi effetti nefasti della peste.
– Ne sarò felice – disse.
Con la sera che avanzava, se non altro, quasi non si vedeva cosa il carro trasportasse e si poteva quasi immaginare, quasi, che quelli che spuntavano non fossero arti umani irrigiditi, ma rami contorti. Fra Ottavio era un uomo arcigno e taciturno che in altri vesti avrebbe messo soggezione, ma fra Domenico era a suo modo affabile. Ruggero era riuscito a dare uno sguardo alle sue mani, illuminate dalla lanterna che faceva loro luce. Giffredo gli aveva insegnato che si poteva capire tutto di un uomo guardandone le mani. Ogni attività lasciava il suo segno specifico in fatto di calli o cicatrici. Le mani dei conciatori erano segnate irrimediabilmente dalle sostanze caustiche che utilizzavano, quelle degli artisti mantenevano a dispetto di ogni lavaggio macchie di colore, gli scrivani avevano dei calli dovuti al prolungato utilizzo della penna e tracce ormai indelebili di inchiostro. Le mani di fra Domenico gli dicevano che non disdegnava di usare la zappa, anche se le macchie erano lasciate dall’inchiostro. Tra la zappa e il calamaio, supponeva Ruggero, c’era la preghiera. Tuttavia, nonostante l’istintiva simpatia, il giovane non pensava che si sarebbero trovati d’accordo su molte cose, se avessero approfondito la reciproca conoscenza.
– L’umanità aveva bisogno di una punizione per i propri peccati, anche se piange il cuore sapere che il Signore ha dovuto arrivare a tanto per ricondurci sulla retta via – commentò il frate, mentre passavano accanto a un’altra fattoria abbandonata.
– Quindi pensate che la pestilenza sia un bene? – fece l’errore di chiedere Ruggero.
– Tutto ciò che viene da Dio è un bene e qualsiasi evento naturale, per quanto possa risultarci sgradito, viene da Dio, quindi sì, la peste è un dono. L’umanità aveva bisogno di vedere la potenza del Signore e di toccare con mano la propria fragilità. Da quando l’epidemia è cominciata non si contano le conversioni.
Fra Ottavio non disse nulla, ma annuì convinto. Ruggero preferì non interloquire. La medicina era il campo di suo fratello, ma concordava con lui nella ricerca di una causa più terrena per il morbo. Tutti sapevano che dove l’aria è insalubre, ad esempio vicino alle paludi, ci si ammala di più quindi qualcosa doveva aver liberato il miasma nell’aria, causando l’epidemia. Poco prima che si manifestasse il male, un terremoto aveva scosso l’Europa, dalla longobardia al cuore dell’Impero, la terra di era fratturata in più punti. L’ipotesi di Giffredo era che l’aria malefica racchiusa nel sottosuolo fosse fuoriuscita da quelle crepe. Di certo Ruggero preferiva quest’ipotesi all’idea di un Dio che per provare la propria potenza arrivava a uccidere un terzo e più dei suoi fedeli, senza far distinzione tra il peccatore e il giusto. Meglio cambiare argomento, prima di trovarsi accusato di eresia. Descrisse suo fratello, nella speranza, per quanto labile, che i frati lo avessero incontrato, ma i due non ne avevano notizia. Del resto Giffredo non era famoso per frequentare uomini di chiesa.
– Se la peste lo ha colto durante il viaggio, il suo corpo potrebbe essere ovunque. Anche in una delle nostre fosse, mescolato a decine d’altri – commentò fra Domenico, come se parlasse del tempo. – Vi sono casi in cui la malattia ha un decorso rapidissimo, al mattino si sta bene e alla sera si è il Cielo o all’Inferno.
– Lo so bene, ma aveva indosso documenti sufficienti a identificarlo e una lettera indirizzata a nostra madre, madonna Malaspina.
Ruggero ritenne meglio non esporre la teoria di Giffredo sull’immunità ottenuta dopo la guarigione, né fare parola dell’involto che trasportava.
– Se è volontà di Dio, lo ritroverete vivo. Se è morto cristianamente e voi seguiterete in una retta condotta, lo ritroverete invece nel regno del Signore. Là nessuno vi separerà.
Ruggero represse un grugnito. Se fra Domenico avesse saputo quali erano gli interessi dei fratelli Malaspina, avrebbe di certo detto che si sarebbero riuniti all’Inferno. Per fortuna, erano alle porte di Viterbo.
— Continua –
Non vivo molto distante da Viterbo. Devo informarmi. E domani mi leggo il tuo racconto. Stasera sono troppo stanca e non me lo godrei fino in fondo.
RispondiElimina:)
EliminaPrima di sera passa da me, c'è una sorpresa.
RispondiEliminasinforosa
Passata!
EliminaGrazie mille!!!
Ma nella foto è la Danse Macabre il cui testo ha ispirato ballo in fa diesis di Branduardi? Non leggo bene.
RispondiEliminaMolto avvincente il racconto, mi fa sentire come quando da piccina rileggevo in continuazione la parte sui monatti dei promessi sposi!
La danza macabra era una soggetto molto dipinto dal 1300 in poi, di questa ti posso dire solo che viene da wikipedia e quindi la posso mettere sul blog, non so se Branduardi si sia ispirato a un dipinto particolare.
EliminaE, vedo che non ero l'unica bimba con un certo qual gusto per l'orrido!
Trovata.... A me piace molto quella canzone, quindi mi ero documentata sull'origine del testo e ho scoperto che lo ha preso da una danza macabra:
EliminaAnche la storia del testo del brano di Branduardi è interessante e degna di essere raccontata. A Pinzolo, piccolo comune in provincia di Trento, c'è la chiesa di san Vigilio, risalente al X secolo e ampliata nel XVI secolo. Nella facciata destra della chiesa vi sono numerosi affreschi, proprio sotto la gronda, è raffigurata una danza macabra, realizzata dal pittore bergamasco Simone Baschenis da Averaria tra il 1519 e il 1539, la sua firma è visibile come la data in cui fu terminata l'opera, il 25 ottobre 1539. L'affresco è alto 2 metri e lungo 22 metri e vi è raffigurato un corteo che procede da destra verso sinistra. Si tratta di 18 personaggi, ciascuno trafitto da una freccia e accompagnato da uno scheletro, che procedono danzando verso la morte, rappresentata da uno scheletro seduto su un trono e con una corona che suona la cornamusa conducendo la danza, a significare l'assoluto dominio su tutti gli uomini, di qualsiasi condizione, della morte. Ogni personaggio rappresenta una determinata figura sociale: un papa, un cardinale, un vescovo, un sacerdote, un imperatore, un duca, un cavaliere, un ricco avaro, un giovane vanitoso, ecc. Proprio sotto la morte e i due scheletri che la accompagnano si trova un'iscrizione contenente le parole con cui la morte si rivolge agli uomini.
Questa la trascrizione del testo con le parole con cui la morte di Pinzolo ammonisce gli uomini :
Io sont la morte che porto corona
Sonte signora de ognia persona
Et cossi son fiera forte et dura
Che trapaso le porte et ultra le mura
Et son quela che fa tremare el mondo
Revolgendo mia falze atondo atondo
O vero l'archo col mio strale
Sapienza beleza forteza niente vale
Non e Signor madona ne vassallo
Bisogna che lor entri in questo ballo
Mia figura o peccator contemplerai
Simile a mi tu vegnirai
No offendere a Dio per tal sorte
Che al transire no temi la morte
Che più oltre no me impazo in bene male
Che l'anima lasso al judicio eternale
E come tu averai lavorato
Cossi bene sarai pagato
Come si può notare il testo delle prime due strofe di "Ballo in fa diesis minore" riprende i primi versi delle parole della morte di Pinzolo, mentre la terza strofa, opera di Branduardi, conclude la canzone e segna, a differenza delle danze macabre medioevali, il trionfo finale dell'uomo sulla morte.
Wow!
EliminaCon branduardi che addormenta la pupattola tutte le sere ovviamente conosco a memoria la canzone, ma non pensavo che Branduardi si fosse ispirato a un dipinto in particolare. Grazie davvero!!!!
Ecco la fonte, è un blog ma sono andata a cercare il quadro ed è tutto vero!! http://gianfrancomarini.blogspot.com/2011/09/danza-macabra-sciarazula-marazula-e.html?m=1
RispondiEliminaLeggendo questo racconto viene da canticchiare il ballo in fa diesis un po' come Fiume Sand Creek nell'altro tuo racconto...!