sabato 24 febbraio 2018

La fontana della felicità – parte prima, racconto inedito


Il racconto che vi propongo oggi nasce da un concorso in cui bisognava scrivere un racconto secondo questa indicazione: "la pozione della felicità esiste, è economica e non ha effetti collaterali".  Il racconto non è entrato nella selezione finale, perché ha, in effetti, una struttura anomala. Tuttavia a me non dispiace neppure così com'è. È, in effetti, anomalo ed eccentrico da qualsiasi parte lo si guardi. Spero comunque che possa essere una lettura piacevole.

LA FONTANA DELLA FELICITÀ

Ormai era, per tutti, La città della felicità, e quasi nessuno ricordava che il liquido che sgorgava dalla fontana della piazza non era stato né voluto né cercato e neppure era stato facile far continuare a vivere una città intera intorno a una felicità inesauribile. 
Era accaduto un paio di secoli prima, quando la locale squadra di calcio invisibile, sport molto in voga in cui giocatori e pallone, unti con uno speciale olio, continuavano a diventare visibili o invisibili in modo casuale, aveva vinto la coppa continentale. Un gruppo di studenti di alchimia aveva voluto festeggiare trasformando l’acqua della fontana in un liquido che desse un blando e transitorio stato di euforia. Avevano agito d’impulso, ubriachi, senza pensare di tener traccia del processo. Riavutisi, non avevano idea delle formule utilizzate, né era stato possibile, lì o altrove, replicare l’esperimento. Di certo c’era solo che la fontana al centro della piazza ora era un arcigno Nettuno armato di tridente i cui destrieri marini sputavano però la pozione della felicità.

Che un’intera città di cittadini felici fosse un problema era parso subito chiaro al consiglio cittadino, riunitosi d’urgenza un paio di mesi dopo, quando era diventato evidente che gli effetti di una bevuta non erano poi così transitori.
Di sicuro ai soldati doveva essere impedito l’accesso alla fontana. Soldati felici non combattono, dividono il rancio col nemico e smontano i proiettili per riutilizzare la polvere pirica per fabbricare fuochi artificiali. Da principio i padroni delle fabbriche avevano pensato che operai felici fossero più docili, come già si stava sperimentando con le mucche. Gli operai, però, checché ne pensassero i padroni, non erano mucche. Operai felici non organizzavano rivolte violente, non sabotavano le macchine. Smettevano di presentarsi al lavoro, tornavano in campagna, riscoprivano l’attitudine per la musica o l’arte, in allegria formavano cooperative e decidevano di mettersi in proprio. Gli studenti si applicavano già poco se spinti dall’ambizione, dal desiderio di accedere a una professione o di non scontentare i genitori, quindi nella speranza di una felicità futura. Regalando loro una felicità presente si avrebbe avuto un’enorme massa di allegri fuoricorso sfaticati. In breve ci si rese conto che l’economia della città e in definitiva quella del mondo, era basata sull’infelicità.
Il consiglio cittadino, quindi, si vide costretto, per la prima volta nella storia, a normare la felicità, vietandola ai più per il bene di tutti. Il clero si dichiarò d’accordo con l’intervento legislativo, giacché non c’era religione che non si basasse sul dare una risposta all’infelicità terrena. Alcuni teologi obiettarono che in realtà un dio benevolo si augura per i suoi adepti la serenità. A livello pratico, tuttavia, era innegabile che l’infelicità aiutasse il culto. 
Da quel momento, quindi, la fonte fu accessibile a tutti gli animali e agli uomini e alle donne sopra i settant’anni o ai malati gravi, previo certificato di un comitato di medici indipendenti. L’idea dei legislatori era che la vecchiaia e la malattia avrebbero cessato di essere inevitabili disgrazie, trasformandosi in condizioni indispensabili per la felicità.

Nelle intenzioni degli illuminati legislatori la fonte sarebbe stata gratuita per tutti coloro che avevano i requisiti per bere. Nei fatti rimase gratuita, ma l’intera economia della città iniziò a basarsi su di essa. Giacché la pozione se non consumata in loco perdeva efficacia e non era possibile confezionarla in alcun modo, sorsero alberghi e locande di lusso, compagnie di trasporto e agenzie di viaggio. Di fatto, se non si aveva la fortuna di nascere nella vicinanze, solo gli anziani o i malati più ricchi potevano accedere alla felicità. Anche solo visitare la città divenne un piacere esclusivo che pochi potevano permettersi. In tutto il continente si favoleggiava della Città della felicità, dove gli uccelli non cantavano, giacché i canti sono espressione di territorialità e conflitto, e passeri, merli, fringuelli e pettirossi erano troppo intenti ad accoppiarsi in una gioiosa promiscuità per perdere tempo a farsi la guerra. Dove le mucche si recavano da sole al pascolo e persino al macello, troppo felici per pensare a fuggire e un branco di lupi usciva dai boschi per giocare con i bambini. Dove si levavano i canti allegri dei vecchi e degli invalidi, che terminavano i propri giorni sfidandosi in gare di poesia e morivano per lo più d’infarto mentre facevano l’amore. 
Per la maggior parte delle persone, vecchie o malate che fossero, tuttavia, la felicità rimaneva un sogno elusivo da cui erano esclusi.

Per Horace Saltarospo, settantaquattrenne magnate dell’acciaio, misantropo e gottoso, non parevano esserci problemi di sorta nell’accesso alla felicità. Era lui che non voleva saperne.
– Felicità la chiamano, ma non è altro che una forma di demenza – era solito dire.
Aveva tutta una serie di esempi a sostegno della sua tesi. Il vecchio Mangiasalice aveva passato la vita ad accumular ricchezza, ma dopo aver bevuto alla fontana aveva dato tutto in beneficienza e ora viveva in un sottotetto con la fiamma della sua giovinezza, una ex cantante che gli anni avevano trasformato in un’orribile megera guercia. Veriglio Troncamolle era stato il campione indiscusso di briscola alchemica del circolo del carbone e ora giocava per lo più con i bambini, nel parco della sua villa adesso aperto al pubblico, senza preoccuparsi di vincere o perdere.
– Ma il tuo vecchio amico, il professor Prunus, continua a lavorare e i suoi studi sull’alchimia quantica sono più mirabili che mai – obiettava l’unico nipote di Horace, Melagro.
– Quello era già matto anche prima e i matti è meglio averli felici – chiudeva la questione Horace.
In realtà anche Melagro era più che convinto che la felicità donata dalla fontana non fosse che una qualche forma di demenza, ma sapeva anche che gli uomini che avevano bevuto erano più generosi e inclini agli affetti famigliari. Senza alcuna attitudine, né desiderio di lavorare, tutta la sua strategia di sopravvivenza si basava sulla generosità dello zio e sulla possibilità di essere il beneficiario di un lascito testamentale. Allo stato delle cose, aveva più probabilità di successo chi cercava la pentola d’oro al termine dell’arcobaleno. Tuttavia Melagro era certo che se lo zio avesse bevuto si sarebbe trasformato in un amorevole vecchietto, pieno di riconoscenza per quel nipote che tanto aveva avuto a cuore il suo benessere. Bisognava quindi, in qualche modo convincerlo.
– Sono stati fatti degli studi medici accurati, zio. Il quoziente intellettivo non cambia dopo aver bevuto dalla fonte. 
– Sono le azioni delle persone che hanno bevuto che mi preoccupano, non la loro intelligenza. Adalfonso Sanguinetti ora dice che gli abiti sono inutili convenzioni e va in giro nudo. Non sono arrivato alla mia età e alla mia posizione per mostrare a tutti il mio deretano.
– Ma non c’è davvero nessuna condizione che ti farebbe cambiare idea, così, solo per mera ipotesi?
Il vecchio ci pensò su.
– Se sapessi di avere una malattia mortale e dolorosa, allora sì, forse, preferirei una felicità artificiale alla realtà dei fatti – disse infine.
Si grattò ancora un orecchio, pensieroso e poi tornò a leggere la lettera dei sindacalisti che gli intimavano di alzare i salari dei minatori, prendendo delle note su come indirizzare i propri avvocati per avere la scusa, proprio da quella lettera, per ridurli.
Horace Saltarospo godeva di ottima salute. Persino la gotta, sospettava Melagro, non era reale. Ogni tanto il vecchio zoppicava perché ci si aspettava che un ricco possidente ne soffrisse. La malattia era legata al suo status e quindi era giocoforza necessario averla o mostrare di averla. Si poteva però convincerlo di essere con un piede nella fossa? Si consultò con la servitù dello zio e saltò fuori che non c’era nessuno che non avrebbe barattato il proprio tirannico padrone per un vecchietto gioioso e bonario. L’idea di avere un sorriso e, ogni tanto, un giorno libero aggiuntivo in caso di eventi eccezionali, come il matrimonio del figlio o il funerale della madre, solleticava tutti. Un aumento di stipendio neppure osavano sognarlo, ma vedere anche un poco alleggerito quel regime di totale tirannia era un obiettivo per cui erano giustificate la frode e l’inganno.
Iniziò quindi la cameriera, al mattino, col chiedergli se avesse dormito bene. Il vetturino insistette per portarlo fin sull’uscio dell’acciaieria, negandogli l’abituale passeggiata. Con quella brutta cera era meglio che non si esponesse alla pericolosa brezza di tarda primavera. Il cuoco insistette per cucinare in bianco per non gravare il suo stomaco. In breve, tutti si sforzarono di essere oltremodo gentili e accomodanti, come si fa con chi è molto malato, nel vano tentativo di alleviarne le sofferenze.
In capo a due giorni Horace sentì la necessità di vedere il proprio medico, che non trovò nulla di preoccupante, salvo i normali acciacchi dell’età. Constatò, tuttavia, l’aspetto non proprio roseo del paziente, dovuto alla preoccupazione che tutte quelle premure gli procuravano. 
Nonostante i giorni di assoluto riposo prescritti dal medico, il comportamento degli abitanti di casa Saltarospo non cambiava. Tutti continuavano a trattare il vecchio Horace come se ogni minuto potesse essere l’ultimo. Anche i conoscenti occasionali, vedendo le attenzioni che la servitù gli dedicava e sapendo che ben difficilmente il vecchio avrebbe potuto meritarsele, presero a trattarlo come se fosse moribondo. Di sera, Horace leggeva avidamente i testi medici della propria biblioteca, ormai convinto di avere qualcosa di talmente grave che il medico non osava rivelarglielo. La lebbra, scoprì, si manifesta all’inizio con un poco di cefalea e uno strano formicolio alle mani. La maggior parte dei tumori non hanno come sintomi iniziali che un generale senso di stanchezza. Di fatto, ad esclusione di patologie prettamente femminili, poteva avere qualsiasi cosa e persino un alluce valgo, in determinate condizioni, poteva rivelarsi fatale.
Melagro si insinuò lieve nella paranoia del vecchio commentando che quello stato d’ansia era già di per sé un morbo che rovinava le giornate dello zio. Passare le nottate a spulciare le enciclopedie mediche sentendosi addosso la rosolia dell’asino non era un comportamento meno strano di quello dei suoi coetanei felici e di sicuro meno appagante. Il problema non era tanto la malattia, quale che fosse, ma la presa di coscienza della propria mortalità che avvelenava quegli ultimi, ma potenzialmente ancora felici, giorni.
Il tempo passava, le attenzioni della servitù aumentavano, Horace si sentiva sempre peggio, fino a che anche il medico iniziò a preoccuparsi, ad ascultarne cuore e polmoni con un viso grave, indispettito per il fatto di non trovare niente. Convinto anch’egli che Saltarospo fosse affetto da un qualche oscuro ed elusivo male, finì per pronunciare le fatidiche parole di resa:
– Non ho idea di cosa abbiate, ma so per certo che se foste felice stareste meglio.

A quel punto non c’era più nulla da fare, a Horace Saltarospo non restava che rassegnarsi alla felicità. Fu organizzato il viaggio, occasione anche per rivedere il vecchio compagno di studi, il professor Prunus. Melagro non stava più nella pelle, pregustava la vacanza, la possibilità di vedere le meraviglie della città e la fine delle ristrettezze.
Alla decisione del vecchio fece seguito una festa privata nell’area della servitù e anche nelle fabbriche e nelle miniere Saltarospo il diffondersi della notizia diede vita a balli improvvisati e abbracci incontenibili. Era opinione di tutti che la felicità, persino quella altrui, non potesse che portare del bene. Nel caso specifico, poi, c’era la ragionevole certezza che la situazione non potesse peggiorare.

– Continua e finisce settimana prossima –

2 commenti:

  1. Proprio vero, l'economia è proprio basata sull'infelicità, le persone felici sono consumatori distratti...aspetto il seguito

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  2. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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