martedì 20 gennaio 2015

Di mille Oresti il disperato canto – parte 2/3


Qui la prima parte

Cassandra ha un lavoro d’impiegata in un ufficio al quarto piano da cui si vedono soltanto i cassonetti stracarichi d’immondizia al lato della strada. I colleghi la salutano a malapena e il principale non ricorda mai il suo nome. Nessuno dà credibilità ai suoi abiti grigi, senza marca. Ha un fisico minuto che sembra fatto per sparire nelle ombre delle stanze e dei pensieri. 
Alla sera Cassandra spolvera la sua laurea da cento dieci e lode e scrive articoli per una testata on-line, effimera piazza virtuale. Era convinta che il web, con il suo libero e infinito accavallarsi di voci, avrebbe potuto dare uno spazio a tutti. Non si è accorta che un infinito accavallarsi di voci produce una tempesta cacofonica dove i suoni si annullano, più impenetrabile dell’assoluto silenzio. 
Cassandra ogni sera scrive su un computer di seconda mano una precisa verità. Nelle criptiche quotazioni di borsa e tra i dati fluttuanti dei mercati fiuta tesori nascosti, pericoli e scandali in agguato. Come certi cani sanno avvertire un terremoto o un malessere del padrone un attimo prima che esso si verifichi, Cassandra vede una ricapitalizzazione o un crollo prima ancora che un solo centesimo si sia mosso. Ogni sera con caratteri chiari e frasi brevi avvisa i risparmiatori su ciò che è da fare e ciò che è da evitare. Ci sarebbe da diventare ricchi solo a prestarle ascolto. Ma le sue parole sono gocce su rocce aride e screpolate. Quasi nessuno le presta attenzione e i contatti sul suo sito calano invece di aumentare.
Domani Cassandra scoprirà che suo marito ha investito tutto in quell’azienda che, lei già sa, sta per dichiarare bancarotta, e glielo aveva anche detto mille volte – ma cosa ci poteva fare, per lui un uomo ha più istinto, in questo campo. E col mutuo della casa da pagare, la sera dovrà andare fare le pulizie a ore nella villa di un amico del suo principale, terzo o quarto marito di Clitemnestra, che allungherà le mani sulle sue curve così parche di desiderio. Basterà, però, per scatenare l’ira della nuova, gelosa moglie. E chi potrà dire davvero se è stato uno sbaglio, incidente o disattenzione, cosa è davvero accaduto, perché in quella bottiglia è stato messo acido e non detergente?
Non sapranno arrivare a una decisione i giurati, e neppure Cassandra, che in silenzio si chiederà chi davvero debba odiare per le mani e il visto rovinati. 
Sarebbe stato diverso per lei sapere che quel professore che le ha insegnato tutto era un dio in agguato? Forse Cassandra, già fidanzata, con la casa di cui ora il muto la imprigiona già quasi comprata, avrebbe rifiutato ugualmente la singola notte di piacere, preferendo la desueta virtù della fedeltà alle grasse mani generose del dio. Piangerebbe ugualmente, Cassandra, ma per il rimpianto, non per lo sgomento di non sapere quale errore abbia commesso. Forse riceverebbe perfino l’inutile dono dell’orgoglio nel sapere che è stata punita per essere rimasta fedele a se stessa.

Mentre Cassandra viene portata al pronto soccorso a sirene spiegate – l’acido è al lavoro e i medici a stento riusciranno a salvarle la vista  – Castore e Polluce stanno uscendo dall’ospedale.
Nessuno può dubitare che siano fratelli. Hanno uguali capelli dorati e uguali occhi di cielo, ma nelle mani – stessa dimensione, identico perfino in modo in cui le vene scendono e sotto la pelle si intrecciano con i tendini – stringono il verdetto della loro differenza. Uno di essi è già lambito dalla maledizione della mortalità e anche se nulla esteriormente lo dà a vedere – la sua splendente giovinezza lo renderebbe degno di una di quelle statue di efebi nudi che si mettevano in passato al centro delle piazze – il suo tempo ha iniziato a scorrere assai più velocemente di quello del fratello. 
Non era questo ad affliggerlo, non ancora, sicuro com’era che l’altro sarebbe accorso, solerte, in suo aiuto. E così è stato. Salvo poi scoprire, esami alla mano, che sono uguali i capelli, gli occhi color di cielo, sono identiche le mani e ogni minima cesellatura del corpo, ma nelle vene scorre sangue differente. 
Adesso a Leda, loro madre, andranno a offrire il verdetto della biologia, oracolo che non sbaglia. Gli occhi di lei, di un azzurro appena più intenso, color del crepuscolo nelle sere d’estate sopra il Mediterraneo increspato dal vento, si riempiranno di lacrime sgomente. Perché no, non c’è nessuna colpa a macchiare la sua anima, nessun uomo estraneo nel suo letto. 
Vedrà il figlio spegnersi ogni giorno, accartocciarsi il viso in una vecchiaia prematura e ingiusta, perché suo fratello non sa, non può sapere, come dividere con lui l’incerto dono d’una nascita divina. Intanto Leda si chiederà com’è possibile che lei abbia dimenticato un peccato, dal momento che un peccato, è insito nella sua natura proibita, viene compiuto perché viva nei ricordi e infonda chiaroscuri, pennellate conturbanti di non detti, a un presente altrimenti grigio.
 Ricorrerà Leda a uno psichiatra ipnotista per dare un senso al confuso arrotolarsi dei ricordi che a stento si coagulano in frasi spezzate – c’era un cigno, mi pare, ricordo un cigno. 
 Allora, forse, se è abile lo psichiatra e spietato nell’infilare la lama della consapevolezza nella nebbia dell’inconscio – e abile lo è di sicuro, il suo nome è Tiresia – ritroverà il ricordo di una sera, quando ancora era giovane e bella – ah, bella come solo possono essere le donne che fanno impazzire gli dei – e a volte andava in discoteca con le amiche, quando il marito faceva il turno di notte e lei non voleva stare sola coi silenzi di una casa ancora vuota di figli. Ricorderà il momento preciso in cui la bevanda, lasciata sul bancone incustodita per pochi brevi istanti, ha cambiato sapore. Poi neppure lo psichiatra riuscirà a rendere nitido il ricordo offuscato dalla droga. Una mano maschile posata sul suo polso, un bacio che in altri momenti avrebbe rifiutato, che in quel frangente sapeva di sale, pulito e aveva un retrogusto di ambrosia. Poi un corpo nudo di uomo con un tatuaggio a forma di cigno, piccolo, sulla scapola.
Cosa servirà questa consapevolezza se non le ridarà il figlio perduto, salvo farle guardare con altri occhi quello che le è rimasto? Non c’è nessuno che possa offrire oggi a Castore e Polluce un posto tra le costellazioni, né a Leda il conforto dell’orgoglio di avere una sera stregato un dio.
 Parte 2/3

Domani o dopo, salvo imprevisti, la conclusione.

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