sabato 22 ottobre 2016

Tendere la mano ad Anna Karenina – Racconto completo

In questo sabato così autunnale, tiro fuori dal cassetto un racconto di tanto tempo fa, che mi riporta a un interrogativo comunque mai risolto, esiste un punto di non ritorno oltre al quale la lettura diventa una scusa per non vivere davvero?
(PS: con la partecipazione involontaria di Alessandro Baricco).

TENDERE LA MANO AD ANNA KARENINA

Forse, . sempre, e per tutti, altro non è mai, léggere, che fissare un punto per non essere sedotti, e rovinati, dall'incontrollabile strisciare via del mondo. Non si leggerebbe, nulla, se non fosse per paura.

Un libro è un paravento. Sempre, ma sopratutto sui treni. Seguendo con lo sguardo le minute tracce nere d’inchiostro che sulla pagina si raggrumano in parole, Luca può evitare di posare lo sguardo sulle due anziane sedute davanti a lui. Può evitare di osservare i pori dilatati della loro pelle consunta, ricoperta da un fondotinta di scarsa qualità che finisce per evidenziare, invece di nascondere, le rughe. Non è costretto a osservare le macchie di caffè e tabacco sui denti ogni volta che le labbra colorare di un rossetto troppo acceso si aprono per far uscire refoli di un’alito che sa di stanze chiuse e pasti a base di cibi troppo cotti consumati in una solitudine sporcata dalle voci di quiz televisivi. Né deve ascoltare le parole che escono da quelle labbra, squallidi commenti astiosi sui protagonisti di una rivista di gossip abbandonata semiaperta sul bracciolo tra i due sedili.

Sui treni, per salvarsi, leggevano.

Il treno si ferma con un suono prolungato, lamento di una creatura troppo a lungo sfruttata e che si adagia sfinita nella campagna cercando un sollievo nella nebbia che sale. 
Nell’interno illuminato del treno c’è chi sbuffa, muove nervoso le gambe, qualcuno, al cellulare, sfoga il malumore su qualcun altro, lontano e senza colpa. Chi legge, ostinato, china maggiormente la testa per fare un bozzolo tra il mondo esterno e quello privato, segreto, formato da lui stesso e dal libro. 

- Credi che potremmo fare qualcosa, noi due insieme? - aveva chiesto Luise, con quella sua voce assonnata e dolce, come le labbra di una bambina impiastricciate di zucchero filato.
- Stiamo già facendo qualcosa, non ti pare? - aveva risposto Luca, accarezzando la sua pelle nuda e calda sotto le coperte.
- Essere qualcosa, allora, noi due insieme.
- No, non credo.
Strano. Perché lui lo sapeva, in ogni cellula intelligente del suo cervello era perfettamente consapevole che quel momento non si poteva conservare, esattamente come non si può conservare fissa un’immagine scorta da un treno in corsa. Quella splendida perfezione non era destinata a durare. Se l’avesse guardata troppo a lungo, avrebbe scoperto la meschinità perfino in Luise. Sarebbero stati solo una coppia tra le tante, due ciottoli portati via insieme da un torrente, costretti in un lento trascinarsi, abradendosi pian piano l’un l’altro, fino a che uno avrebbe sbriciolato l’altro o, forse, entrambi avrebbero finito per sgretolarsi.
Eppure, in quel momento, non c’era cellula nel suo corpo che non gli rivelasse una verità precisa. Che era nato all’unico scopo di addormentarsi in quel modo, con la sua pelle nuda a contatto con la pelle nuda di lei. 

Ormai dal finestrino si scorge a malapena la piccola porzione di scarpata ferroviaria illuminata dalla luce interna del treno. Solo una manciata di sassi grezzi dai lati netti e taglienti e poi il buio. Perfetta metafora della vita, pensa Luca.
Ancora uno scricchiolio, una vibrazione che attraversa tutta la struttura metallica, il brivido di una creatura ottusa che si ostina a voler avanzare, anche se non c’è un vero scopo nell’arrivare né una differenza sostanziale tra l’andare e il restare. Il treno, piano, riprende a muoversi.

- Verrai alla festa, almeno? - aveva chiesto Luise, mentre con gesti netti sistemava i lunghi capelli neri in uno chignon e imponeva ordine al caos.
- No.
- Perché?
- Non c’è niente di più ipocrita di una festa di addio. Piena di promesse che non saranno mantenute, scambiarsi numeri di telefoni che poi non suoneranno mai, abbracci per suggellare legami che si stanno già allentando.
- E questo in che libro lo hai letto?
- E perché dovrei averlo letto in un libro?
- Perché tutta la tua vita non è che una fuga. Tu leggi continuamente, lo fai per professione, naturalmente, lo fai per passione. Lo fai per porre una barriera alla tua solitudine. Eppure tu mi insegni che un libro non è mai lo stesso per due lettori.
- E questo cosa importa con la tua festa, o con noi due?
- Importa. In un libro sei sempre solo, circondando da personaggi e paesaggi che non puoi sfiorare... Per quanto tu possa tenderle la mano, non potrai mai salvare Anna Karenina da quel treno.
Quanto a noi, hai tempo fino alla festa.
- Per cosa?
- Per tendermi la mano e  chiedermi di restare.

Tutt'intorno ti sferraglia la tentazione di farla finita una buona volta e di rischiare a vederlo questo mondo di fuori, cosa sarà mai possibile che sia davvero così pauroso, possibile che non se ne andrà mai questa vigliacca paura di morire, di morire, morire, morire, morire, morire, morire?

Con uno stridio definitivo, il treno si arena, esausto, alla stazione. Come una balena spiaggiata che si svuota piano di sangue e di vita, ignara di quale scopo abbia avuto il suo secolare andirivieni per gli oceani, i vagoni si svuotano piano dei passeggeri. Alcuni urlano, impazienti, sbraitano contro un ritardo che ha superato di molto il tollerabile, i più rassegnati, lenti, incerti se sia necessario affrettarsi quando è impossibile determinare velocità e meta del proprio moto.
Luca si divincola tra le anziane grasse e le loro borse, tra i pendolari esausti che arrancano verso un’altra settimana di studio o di lavoro, tra chi arriva, o crede di arrivare, a qualcosa che abbia dato scopo al viaggio.

Fuori, Torino è irreale, avvolta in una nebbia che attutisce i suoni e i pensieri, rende indistinti i profili dei palazzi, addolcisce i ghigni delle prostitute in attesa fuori Porta Nuova, avvolge la sporcizia agli angoli delle strade, avviluppa chi dorme dentro un cartone in un angolo poco illuminato. Se si fermasse a guardarla, Luca scoprirebbe che Torino, smussata dalla nebbia, questa notte è quasi bella.
Luca corre. Lascia che i pensieri scorrano senza adagiarsi sui passanti infreddoliti, o sui tre cani senza padrone che gli dedicano un ringhio basso e senza eccessivo sforzo, o sulle vetrine buie dei negozi che a stento si lasciano immaginare dietro le grate. Solo il rumore dei piedi sul suolo freddo, il battere del cuore e il fiato che cerca, senza che un pensiero coerente debba aiutarlo, un ritmo che gli permetta di avanzare. Forse, questo è vivere.

Il locale è pieno di gente, eppure è vuoto. Sotto un tavolo che è già stato riempito da altri avventori, una carta strappata, rosa, con leziose decorazioni fucsia. Quello che resta di una festa conclusa.
Luca si guarda intorno, miope come un animale notturno in pieno sole.

Non si è salvato, sul treno, leggendo. Si chiede se c’è un libro che possa salvarlo, adesso, da una cameriera che, ansiosa, gli chiede cosa possa fare per lui, da una città improvvisamente bella, ma irrimediabilmente vuota. Si chiede se saprà mai se Luise avrebbe potuto salvarlo.

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