mercoledì 22 ottobre 2014

Di cadute, precarietà e perfezioni impossibili


Domenica pomeriggio a un certo punto ho deciso che c'era un limite alle nozioni che potevo stipare nella mia mente. Ho deciso quindi di andare a fare una corsa, complice la giornata quasi estiva e di ripassare in silenzio quando avevo imparato.
Risultato, non ho visto una buca nascosta dalle foglie e sono caduta.
Mi sono rialzata, sono tornata zoppicando a casa, mi sono medicata e, costato che i danni si riducevano a una (vasta) abrasione e a una botta sono uscita di nuovo.
Perché io sono così, cado, mi rialzo e persevero. È il mio modo di affrontare la vita, l'unico che mi abbia dato dei risultati.
Ieri sera sono rientrata dopo quasi tredici ore fuori casa. Il Persiano si sentiva trascurato. Come l'ho scoperto? Scivolando nella pozza di pipì che aveva lasciato in mezzo al pavimento. Va da sé che a impattare col granito sia stato proprio il ginocchio già abraso.
E io mi sono ritrovata per terra sul pavimento sporco a piangere come una bimba.

Più tardi, dopo essermi di nuovo medicata, aver pulito ed essermi finalmente nutrita mi sono domandata se semplicemente non stia chiedendo troppo a me stessa, in una ricerca di perfezione che è impossibile da realizzare.
La risposta che ho ottenuto è che questa richiesta di perfezione è esterna e non coinvolge solo me, ma gran parte della mia generazione precaria.
Per noi tra i trenta e i trentacinque il precariato è una realtà in gran parte prevalente e spesso passa l'idea che o sei perfetto oppure la porta è lì, tanto fuori c'è la fila pronta a prendere il tuo posto. Non importa quanto tu sia qualificato, sei comunque sostituibile, in un dentro o fuori che impone degli standard spesso insostenibili.
Sabato sera, nel piccolo gruppo di amici ognuno portava la sua storia. Dal lavoro non retribuito, fatto come investimento verso non si sa quale futuro al dirigente privo della minima elasticità mentale fino alla cosa più odiosa: il precario meno precario che, arrogandosi un piccolo privilegio, di fatto scaccia chi è sotto di lui nella scala dell'incertezza.
In quest'ottica la mia condizione è del tutto normale. Non mi posso ammalare, il corso ha un monte ore di assenza ammissibili che nega questa possibilità. Una collega incinta in pratica deve decidere la data del cesareo in base al calendario degli appelli dell'esame. Il fatto che qualcuno abbia dieci minuti di strada da fare e qualcun altro due ore è una variabile di nessun interesse. In base a un gran pasticcio nelle domande per i permessi allo studio, non possiamo usufruire di tali permessi e ci troviamo in una condizione di necessaria ubiquità che possiamo risolvere solo grazie all'eventuale buon cuore del nostro dirigente.
Io lo ribadisco, sono una privilegiata, grazie sopratutto a chi è venuto prima di me, ho un conto in banca che mi permette di lavorare per un anno part time, non ho figli piccoli che vengono trascurati (solo il gatto), un marito, suoceri e genitori collaborativi che mi permettono di ritagliarmi del tempo per lo studio. E nonostante questo le mie prestazioni sono ben lontane da quella perfezione che viene richiesta. Sono imprecisa al lavoro, perché stanca, priva del tempo necessario a fermarmi cinque minuti di più o per pianificare con cura le lezioni e nello studio, con una memoria ballerina che non riconosco come mia.
In quest'ottica di dentro o fuori quello che più mi disturba è la frammentazione della precarietà. Ognuno è precario a modo suo e, invece di fare fronte comune, ci si becchetta tra gruppi. Nella scuola, l'ambiente che io meglio conosco, ci sono i precari di prima fascia, abilitati e con diritto ad essere assunti a tempo indeterminato per scorrimento delle graduatorie, i precari di seconda fascia, abilitati, ma senza il diritto ad essere assunti a tempo indeterminato se non nel caso di vincita di concorso e i precari di terza fascia che non si sa se e a cosa abbiano diritto. Parte dei docenti al corso per docenti precari sono a loro volta precari, in un circolo vizioso che ha dell'assurdo.
Non mi sembra, però, che in altri ambienti vada meglio.
In ogni caso ogni gruppo ha le sue rimostranze nei confronti degli altri gruppi.

Il mio istinto, il linea generale, è, dopo uno sfogo, rialzarmi e ripartire eppure questa logica del dentro o fuori e del "c'è sempre qualcuno più precario di te pronto a prendere il tuo posto" inizia a starmi stretta. Non tanto per la mia condizione personale, ma per l'assurdo spreco di energie umane che comporta.
Sabato sera eravamo tutti sui trentacinque anni, tutti con almeno una laurea, quasi tutti con altri titoli (o altre lauree) e tutti con una grande passione per il proprio specifico campo. Tutti con le facce stanche e una demotivazione palpabile dovuta non tanto a un retribuzione insufficiente (anche su questo ci sarebbe da dire), quanto alla sensazione di inseguire degli insensati standard di perfezione.

Scusate la lunga riflessione. 
Sento tuttavia il bisogno di reclamare un diritto all'imperfezione che non è peccato mortale, ma presa coscienza della propria umanità.

Ci sono mattine in cui ti accolgono scorci come quello della foto e allora ci si rialza e si riparte. 
Ma ho l'impressione che farà ben poca strada chi è convinto che pausa o l'errore non facciano perte integrante del cammino.

16 commenti:

  1. Ecco qui esattamente come mi sento certi pomeriggi quando il nodo di una vita imperfetta nonostante tutti gli sforzi non va né su né giù... molto intensa, grazie!

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  2. Grazie per questo sfogo, toccante e condivisibile. Sembra la mia vita, e quella di tutte le nostre coetanee laureate che frequento.

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  3. Il mondo della scuola è il più importante e il più barcollante mattone della casa italiana.
    Mi dispiace molto per il tuo ginocchio e grazie di aver condiviso questo sfogo, fa bene dire le cose come stanno. Ho lavorato a scuola per due anni in Italia, ho visto gli insegnanti più bravi e più tremendi, il mostro della burocrazia, le liti tra genitori e insegnanti e direttori didattici e ausiliari e insegnanti di sostegno e educatori. Tutti avevano una cosa in comune: l'insoddisfazione negli occhi, una patina di disillusione che gli alunni respirano e percepiscono ogni giorno anno dopo anno. Io apprezzo la gente come te che ce la fa a sopportare una situazione del genere e riesce ancora a vedere uno scorcio di bellezza. Come dico sempre io, "barcollo ma non crollo!" Tu però non barcollare sempre sullo stesso ginocchio ;)

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  4. Molto condivisibile, vedo che le botte ripetute non hanno minato il tuo solito apprezzabile pragmatismo! Brava. Mi spiace molto per le cadute, per il resto io appartengo alla generazione precedente: quella che in fondo all'inizio della carriera lavorativa sembrava messa bene, ma tutto si è rivoltato contro. Quanto dici poi delle lotte interne, quelle davvero sono ovunque, non esiste solidarietà, fronte compatto cose così. Sulla perfezione, io sono perfezionista in molti campi, non in tutti, ma senza troppa ansia: controllo e perfezione sono illusioni e, soprattutto, il prezzo per raggiungerli di solito è del tutto sproporzionato. Un abbraccio solidale.
    Sandra

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  5. Mi dispiace davvero per questa brutta situazione (e per il tuo ginocchio). Questa precarietà che ormai è in tantissimi settori è allucinante e ci mette davvero a dura prova. Grazie per aver condiviso tutto questo, ti auguro che arrivi presto un periodo migliore, nel frattempo coraggio e soprattutto non chiedere troppo al tuo corpo (due messaggi non sono da ignorare...).

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  6. Sono un'ex precaria e un'ex disoccupata, ma sono anche una vittima del precariato, dal momento che quello altrui rischia di compromettere seriamente la mia vita privata portando a decisioni che nessuno avrebbe mai voluto prendere.
    Nelle prossime settimane avremo delle risposte. Per ora, si può solo aspettare e sperare che tutto ciò per cui si è lottato non vada in frantumi.

    L'ossessione della perfezione è qualcosa che sta condizionando profondamente anche la mia vita. A forza di "resistere", come mi è stato suggerito, mi sono provocata uno spostamento dell'osso mandibolare (nei momenti di stress, una persona "stringe i denti" nel vero senso della parola) che mi è stato messo a posto non meno di una settimana fa. E questo è solo l'ennesimo danno della situazione che sto vivendo.

    Mah, amica mia, verranno tempi migliori. Intanto, in bocca al lupo. Stasera guarderò sul mio libro di psicosomatica cosa rappresenta l'urto al ginocchio :)

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  7. E' una grande verità quella che chiude il tuo post. Non siamo bionici, perciò non vogliamoci male perché non siamo all'altezza di standard che altri hanno inventato senza farci partecipare e senza verificare se siano sostenibili. Ma credo anch'io che non andrà sempre così. Ti auguro intanto di vivere intensamente i lati positivi, come la scrittura, quel meraviglioso tramonto e quel meraviglioso (e permaloso!) gatto. Senza offesa per Nik, naturalmente.

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  8. Innanzi tutto grazie a tutti per le risposte, che ho trovato davvero molto preziose.
    Volevo anche rassicurarvi sul mio ginocchio, che è solo sbucciato, nulla di più, e sul Persiano che non ho ucciso seduta stante.
    Vedo che la mia sensazione di ricevere continue pretese di perfezione è condivisa. Lungi da me inneggiare a una qualsivoglia improbabile e improponibile rivoluzione, tuttavia io non credo che sia sbagliato o ingiusto rivendicare la propria umana fallibilità. Forse è il momento di farlo, non come resa, ma al contrario, come condizione necessaria per dare il meglio di sé. Se ci si trova con l'ossa mandibolare spostato, con la dermatite da stress piuttosto che con qualsiasi altro problema non si lavora certo né di più né meglio. Fare una pausa non significa fermarsi, solo che per continuare il cammino, specie se è faticoso o in salita, si stanno raccogliendo tutte le energie disponibili.
    @ Chiara: non so molto di psicosomatica, ma quando cadi, meglio il ginocchio della faccia!
    @ Grazia: la foto è stata scattata all'alba, prima di entrare a scuola. Come dicevo, sono comunque privilegiata

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    1. Una serena accettazione del proprio limite è indice di profonda maturità. Secondo la dottrina buddhista, il karma mette davanti delle prove che possono essere superate. La sofferenza è lo strumento con cui si arriva all'evoluzione. Riconoscere il momento in cui è giusto prendersi una pausa non è indice di fallimento ma di illuminazione.
      I dolori alle ginocchia (intesi in senso lato) indicano un eccesso di rigidità, una mancanza di flessibilità e di accettazione. Questo sul libro, poi vedi tu :)

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    2. E allora il libro ha centrato il ginocchio in pieno!

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  9. Sai che ti capisco perfettamente. Tieni conto però che sei condizionata dal "superlavoro" che il corso ti costringe a fare e dalla conseguente tremenda stanchezza, ma hai la prospettiva che tra pochi mesi la situazione riapproderà a lidi più tranquilli. Se 'sta cosa va fatta, meglio ora, quando tutte le persone che hai attorno possono essere collaborative. E non si tratta di fare tutto alla perfezione, ma di sopravvivere -arrivando fin dove si può- al momento senza troppi danni, anche se poi quando ti volterai indietro quasi non riuscirai a credere di avercela fatta. Il problema è che in queste condizioni di "emergenza", il tempo che sparisce - per necessità- è proprio quello che solitamente si dedicherebbe a ciò che dà soddisfazione e permette di ricaricarsi davvero, e così si rimane imprigionati in un circolo vizioso, mentre si rincorrono doveri che lasciano frustrati perché non si riesce ad assolverli come si vorrebbe. E perché si è troppo stanchi. Ma finisce. E riprenderai a regalare le parole a tutte le idee che nel frattempo ti avranno affollato il cervello, come se un lungo respiro profondo ti riportasse a galla. E noi saremo qui contenti di leggere. :-)

    P.S: Ti puoi sempre sfogare sui nostri poveri PG, salvaguardando alunni e/o compagni di disavventura. E (aldilà di una maggiore sicurezza economica)la "qualità" del tuo posto di lavoro non migliora con la fine del precariato...
    Sono sopravvissuta io a suo tempo, ce la farai senz'altro anche tu.

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    1. Ma infatti, al di là della storia del ginocchio e del gatto, la mia voleva essere una riflessione più generale. Il mio periodo di stress è limitato nel tempo, invece la pretesa che tutti debbano essere perfetti perché "è così o c'è qualcun altro pronto per il tuo posto" mi sembra che sia ben più generale. È questa l'idea di base che un po' mi irrita, ben oltre l'aspetto autobiografico.
      Tenar

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    2. L'ho capito che il tuo voleva essere un discorso più generale, però non credo sia un caso se è uscito proprio in questo momento, proprio in queste condizioni. Quello che voglio dire è che secondo me la questione che tiri in ballo (la pretesa di perfezione) ha radici più antiche della crisi e del "precariato spinto" attuale, che certo ne hanno esasperato le conseguenze, anche perché hanno azzerato la possibilità di cercare alternative. Poi è vero che in alcuni ambiti il "o è così o avanti un altro" è diventato addirittura strumento di ricatto economico. Ma nel tuo ambito, aldilà -ripeto- della sicurezza economica, che è comunque questione di primaria importanza, le pretese non cambieranno con la fine del precariato, la qualità del lavoro sarà esattamente la stessa. E anche il sistema di reclutamento è contorto ed esasperante da un bel po' di anni.

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  10. Mi dispiace per il tuo ginocchio (e il gatto, che ha rischiato grosso), ma a quanto leggo ora va molto meglio! :-)

    Dal 2004 sono anch'io precaria per scelta, nel senso che avevo deciso di lavorare da casa perché il mio tipo lavoro mi permetteva di farlo, conciliando lavoro, famiglia e perché no? le mie passioni fra cui scrivere. Ora, non so se avrei il coraggio di ripetere la cosa, l'avevo fatto perché la persona che mi sta a fianco - il marito - mi aveva appoggiato e all'epoca avevamo le spalle parate economicamente. Ad ogni modo è una delle migliori decisioni che abbia preso: ero molto stressata e nevrotica. Non scrivevo più nulla perché avevo il cervello cotto.

    C'è da dire che, lavorando senza tutele, non posso mai ammalarmi, non posso mai fermarmi, non posso prendere ferie in determinati periodi dell'anno (tipo da settembre a dicembre). Viceversa, ho una detrazione fiscali esorbitante, che ammonta a 1/3 di quello che percepisco.

    Per quanto riguarda la perfezione, forse è una caratteristica di noi donne, ci sentiamo in obbligo di fare tutto, contemporaneamente e bene. Pretendiamo troppo da noi stesse!

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    1. Il gatto ha rischiato grosso davvero! È che zoppiccavo troppo per inseguirlo e catturarlo!
      Per il resto ammiro il tuo coraggio, non so se lascerei un lavoro sicuro (ammesso di averne mai uno)

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    2. caspita, per non riuscire a inseguire lo pseudo felino eri messa proprio un po' maluccio!

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