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Ma andiamo subito al sodo
La cripta dei cappuccini, ovvero la palude della non scelta
Ogni libro parla in modo diverso a ciascun lettore. I buoni libri spesso comunicano sensazioni precise ai chi li legge che possono anche variare di molto da lettore a lettore.
A me La cripta dei cappuccini di Roth ha comunicato un profondo senso di depressione e di sfiducia nei confronti dell'umanità.
Una sensazione opprimente che, terminato il libro, si è insinuata nei miei sogni e nei giorni seguenti con uno strascico di malessere quasi fisico. Eppure, rispetto a tante altre opere, La cripta dei cappuccini non racconta nulla di così terribile e scioccante, non si sofferma sugli orrori della guerra, né sul disfacimento dovuto alla malattia, ma tant'è.
La cripta dei cappuccini è, o almeno certamente era nelle intenzioni dell'autore e così è stato percepito dagli altri lettori (quindi il problema sono io e non lui), una sorta di requiem per l'Impero Austroungarico.
Si seguono le vicende di Francesco Trotta, giovane esponente della nobiltà decadente di Vienna, per cui tutto è un gioco o poco più. Figlio di un'infanzia facile e protetta, come molti della sua generazione parte per la guerra con la leggerezza con cui si va in campeggio, non prima di essersi sposato con una donna che già il giorno delle nozze si accorge di non amare. Come ovvio la guerra non è un campeggio e sopratutto al rientro la sua patria, fonte di tutte le sue sicurezze, non esiste più, come il suo patrimonio di famiglia. Ritrova una moglie che non lo ama e non fa nulla per nasconderlo, che pure Trotta si incaponisce per riavere, la madre orami anziana e una montagna di debiti. Incapace di fare qualsiasi cosa, Trotta rimane impotente a guardare l'Austria che scivola inesorabilmente tra le braccia del nazismo.
Come ben segnalato dai lettori, il romanzo descrive superbamente l'ambiante della gioventù bene di Vienna di inizio secolo, vacua e annoiata, talmente abituata a i propri privilegi da non poter immaginare che possano cessare di esistere. Proprio per questo indiscusso valore letterario, per il suo offrire un dettagliato ritratto del prima e del dopo la Grande Guerra e il trauma che ha prodotto anche chi, oggettivamente parlando, non se l'è passata poi così male, avrei voluto amare questo libro.
Mi sono scontrata con i personaggi come il Titanic contro l'iceberg. Un violento desiderio di spaccar loro la faccia ha quasi ucciso qualsiasi altra considerazione.
Mio nonno materno è morto quando io ero troppo giovane per apprezzare la sua immensa cultura e la sua profondità di pensiero. Apparteneva a quel genere di uomini per cui era normale sapere la Divina Commedia a memoria e altrettanto normale raccontarla alla nipotina. Io ero troppo piccola, allora, per capire perché mio nonno dicesse che era l'ignavia il peccato che Dante considerava peggiore. Mio nonno cercava di spiegarmi come un uomo che ha pagato così duramente le proprie scelte non potesse tollerare chi rifiutava sempre di schierarsi e di scegliere. Ma io avrò avuto al massimo dieci anni e non capivo.
Ora sì. Se c'è una categoria umana con cui non riesco ad empatizzare è quella di coloro che non scelgono, si fanno trascinare dagli eventi, oppure scelgono a casaccio, in preda alla passione del momento, per poi ritrattare un istante dopo, come se ogni decisione fosse revocabile. Questi, ovviamente, non fanno poi che lamentarsi di come il destino si sia accanito su di loro, le circostanze, i parenti malvagi. Ora io posso capire il buttare via la propria vita seguendo un sogno sbagliato, un'illusione o che altro. Ma buttare via una vita piena di potenzialità per non aver saputo fare delle scelte, o averle fatte come per gioco mi sembra più che una bestialità, un insulto verso tutti coloro che queste potenzialità non le hanno (ecco, qui esce quella parte di me che chiamo "la Beghina" che può essere un pochino drastica e un filo bacchettona su certe cose, un filo proprio...). Vivere intrappolati nella palude della non scelta è, ai miei occhi, una delle cose peggiori che si possa fare.
Ora, tutti i personaggi principali di questo romanzo vivono nella palude.
Il buon Trotta dopo la guerra non fa che lamentarsi della scomparsa dell'Impero, in cui si viveva tanto bene, senza neppure fare lo sforzo di capire che quello che sta rimpiangendo sono i suoi privilegi di nobile e il suo benessere economico. Non fa nulla per cambiare le cose, rimane lì a piangersi addosso, uggiolando splendide frasi sul fatto che sarebbe stato meglio morire in guerra. Per assurdo mi ha ricordato mio nonno, quello di prima. Anche lui figlio di privilegiati, tornato dalla guerra, ovviamente la seconda guerra mondiale, per altro a piedi dalla Russia, ha trovato la famiglia sul lastrico e la ditta del padre fallita. Si è rimboccato le maniche, ha preso la seconda laurea ed è andato avanti, a memoria anche dei miei nessuno lo ha mai sentito rimpiangere il fascismo, anche se lui all'epoca stava oggettivamente meglio (e considerati alcuni inquietanti souvenir trovati in solaio la famiglia era ben introdotta nel regime). Insomma, non credo che il povero Trotta non avesse altra scelta se non lamentarsi e appassire.
Il personaggio in assoluto più perso nella palude, però, è la moglie, Elisabeth. Sposa un uomo che, è evidente, non ama. La prima notte di nozze, un po' per caso un po' perché sono due idioti, non succede quel che deve succedere e Trotta parte per la guerra. Quando torna, quindi, il matrimonio non è stato consumato ed è un peso per entrambi e persino la Sacra Rota dell'epoca darebbe l'annullamento, neppure i rispettivi genitori premono per farlo continuare, anzi. Nulla sarebbe più facile che reciderlo, ma sarebbe una scelta. La buona Elisabeth sta con una donna (tra l'altro senza nasconderlo a nessuno, con una naturalezza rara oggi, figuriamoci negli anni '20). Trotta non è certo il tipo da riprendersela con la forza. È lei che va da lui, dicendo di averci ripensato, di voler "provare" e si tiene per un po' sia il marito che l'amante (per altro vivendo con l'amante e andando in alberghi ad ore col marito). Solo quando l'amante se ne va Elisabeth sente un'improvviso istinto materno e chiede espressamente di farsi mettere incinta, salvo poi abbandonare figlio e marito al ripresentarsi dell'amante. Nessuna delle scelte di Elisabeth è ragionata né obbligata e io non riesco a provare un briciolo di empatia per una donna che potrebbe avere tutta la libertà del mondo in un'epoca in cui poche donne avevano quel privilegio e sembra non sapere che farsene della propria libertà. Gioca con la propria vita e con quella degli altri procurando e procurandosi (suppongo) solo dolore.
Come mi è stato fatto notare, l'antipatia istintiva che proviamo per alcuni personaggi, non basta a giustificare il senso di sconforto che questa lettura mi ha causato.
Il problema, quello vero, è che non solo questi personaggi sono assolutamente credibili, ma che vedo tanti Trotta e tante Elisabeth anche intorno a me. Persone della mia generazione o più giovani, figli di un'infanzia agiata che si trovano nell'età adulta in un mondo cambiato. Senza alcun tentativo di analisi, rimpiangono un passato mitico che forse neppure mai c'è stato. Non fanno nulla per prendere in mano la propria vita, o compiono scelte spinti dall'istinto del momento, convinti che tutto sia ritrattabile e poi cercano sempre all'esterno la colpa per la propria infelicità. Ieri gli ebrei o i socialisti, oggi i migranti o i rom.
Questo libro, che sì, è un gran bel romanzo, in caso contrario non avrebbe stimolato una simile riflessione, mi ha fatto vedere le persone che mi circondano come Trotta e i suoi amici, persi nella palude della non scelta, complici per lo più inconsapevoli di un inesorabile scivolamento verso gli orrori della seconda guerra mondiale.
Spero di sbagliarmi e che non siano questi, davvero, i tempi che ci aspettano eppure non sono stata l'unica dei lettori ad essere stata spinta su pensieri simili, anche se nessuno ha accusato la mia stessa botta di depressione.
Come mi è stato fatto notare, l'antipatia istintiva che proviamo per alcuni personaggi, non basta a giustificare il senso di sconforto che questa lettura mi ha causato.
Il problema, quello vero, è che non solo questi personaggi sono assolutamente credibili, ma che vedo tanti Trotta e tante Elisabeth anche intorno a me. Persone della mia generazione o più giovani, figli di un'infanzia agiata che si trovano nell'età adulta in un mondo cambiato. Senza alcun tentativo di analisi, rimpiangono un passato mitico che forse neppure mai c'è stato. Non fanno nulla per prendere in mano la propria vita, o compiono scelte spinti dall'istinto del momento, convinti che tutto sia ritrattabile e poi cercano sempre all'esterno la colpa per la propria infelicità. Ieri gli ebrei o i socialisti, oggi i migranti o i rom.
Questo libro, che sì, è un gran bel romanzo, in caso contrario non avrebbe stimolato una simile riflessione, mi ha fatto vedere le persone che mi circondano come Trotta e i suoi amici, persi nella palude della non scelta, complici per lo più inconsapevoli di un inesorabile scivolamento verso gli orrori della seconda guerra mondiale.
Spero di sbagliarmi e che non siano questi, davvero, i tempi che ci aspettano eppure non sono stata l'unica dei lettori ad essere stata spinta su pensieri simili, anche se nessuno ha accusato la mia stessa botta di depressione.
Hai fatto una bellissima analisi di questo libro (che non ho letto) ma nel leggerla mi sono sentita proprio come te, la non scelta, l'ignavia può essere fonte di grandissimi mali. Capisco quello che vuoi dire quando affermi che ti sembra di essere circondata da tanti Trotta ed Elisabeth che non scelgono per ignavia, è la mia stessa sensazione. Mi sembra e temo che oggi stiamo percorrendo lo stesso declino, ma spero di sbagliarmi; vorrei davvero essere smentita e vorrei essere stupita in positivo.
RispondiEliminaAnch'io spero di essere stupita in positivo. Lo spero con tutta me stessa...
EliminaCondivido e capisco il tuo disprezzo per l'ignavia.
RispondiEliminaConosco alcune persone che altro non fanno che lamentarsi di qualsiasi cosa, e invece di rimboccarsi le maniche e cercare di cambiare una situazione infelice stanno a crogiolarsi nel loro brodo, a borbottare con chiunque gli capiti a tiro di quanto è ingiusta la vita, le persone, lo stato, il mondo, la società in cui viviamo, il gatto del vicino e chi più ne ha più ne metta.
A volte provo persino a chiedere, con chi ho un rapporto più stretto, "E perché non provi a fare questo o quello, così si smuove la situazione?". Ma c'è sempre qualcosa che li frena, un ostacolo che a me pare sempre un'inezia. In alcuni casi sarà sicuramente perché io vedo la situazione da esterna, ma quando mi rendo conto che la stessa persona si comporta sempre in quel modo, allora capisco che è fatta così e basta.
Alla fine sono giunta alla conclusione che a queste persone piace lamentarsi. Non vogliono veramente fare una scelta, risolvere una questione, fare qualunque cosa. Vogliono rimanere nella palude, perché del prato non saprebbero che farsene, e forse questo per loro è ancora peggio.
Il problema sorge quando l'ignavia diventa pandemica e sono intere nazioni a impaludarsi, per poi finire in brutte, bruttissime situazioni...
EliminaLibro proposto dalla mia prof di tedesco ai tempi che furono, assieme a OPIONIONI DI UN CLOWN comprai entrambi lessi poche pagine del primo e m'innamorai di Boll. Mai più ripreso in mano.
RispondiEliminaSandra
Opinioni di un clown mi manca, chissà che con il gruppo di lettura non si rimedi?
EliminaQuindi, tu consiglieresti la lettura di questo romanzo? (che mi ha ricordato "gli indifferenti", di Moravia).
RispondiEliminaD'accordo su quanto dici a proposito della non-scelta. Proprio qualche giorno fa, a pranzo con una collega, parlavamo degli "ignavi", che nel mondo del lavoro sono coloro che si muovono come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlano. Senza posizioni, senza pensieri, pronti a obbedire. Questo ha voluto il sistema, e questo il sistema ha ottenuto. E tutti gli altri, cosa fanno? C'è chi prende decisioni drastiche, sorprendendo tutti, perché a forza di accumulare aspettative altrui è diventato una pentola in ebollizione: scoppia. E c'è chi, invece, continua a non agire. Perché la crisi, in fondo, è un alibi, che va a togliere il coraggio di osare.
Io recentemente, come sai, ho preso una decisione che mi fa paura. Non ne sono pentita. O meglio: a volte mi pento di non essere ancora più drastica.
Il cambiamento per me è indice di evoluzione e di progresso, quindi non comprendo perché alle persone faccia così paura...
Tutti i libri letti col gruppo di lettura hanno, secondo me, qualcosa da dire, sia rispetto al momento in cui sono stati scritti, sia offrendo riflessioni sull'oggi. Poi alcuni risultano più faticosi per svariati motivi, ma di sicuro ti consiglio questo.
EliminaPer il resto ovviamente concordo e mi spaventa quello che una gran massa di persone di questo genere può fare alla società
Lo metterò in wish-list, allora, insieme agli altri 42 romanzi. Tu mi hai fatto scoprire Scerbanenco, quindi mi fido. :-)
EliminaÈ un bel libro, ma, nonostante sia cortissimo, ho faticato sul finale (perché volevo prendere a randellate i personaggi). Donna avvisata...
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