Propulsore in corno di renna, rinvenuto in Francia, datato a circa 14000 anni fa |
Se penso all'arte alla prima opera d'arte che mi muova qualcosa che potremmo chiamare commozione, la mia mente va all'oggetto della foto.
Siamo in un'epoca antecedente ai campi coltivati, prima ancora che l'Europa diventasse una grande foresta, quando dominava la prateria e la tundra e branchi di renna pascolavano sulle colline dolci di quella che ora è la Francia. Allora l'uomo poteva apparire un predatore come gli altri, armato con poco più del proprio braccio, giusto con qualche lancia dalle punte di pietra. Ma era già un uomo.
La prova è questo piccolo cerbiatto inciso nel corno di renna. Sta a decorare un propulsore, cioè uno strumento che serve ad aumentare la gittata di una lancia. Un oggetto d'uso comune, indispensabile per un cacciatore. Non si tratta, dunque, di un oggetto sacro, di un dono per gli dei né, per quanto possiamo capirci oggi, di un simbolo di ricchezza o di prestigio, ma di qualcosa di quotidiano. L'unica differenza, tra tanti altri propulsori rinvenuti è che questo è bello.
Forse chi l'ha realizzato si è fatto guidare dalla forma del corno, forse voleva farne un dono, forse, semplicemente, aveva del tempo da riempire in un'uggiosa giornata d'inverno e, dovendosi preparare un propulsore, lo ha voluto bello. Non è l'unico propulsore decorato, solo il mio preferito.
Non è neppure il più antico oggetto d'arte. I meravigliosi leoni di pinti di Chauvel sono vecchi di 30000 anni.
Grotta di Chauvel, Francia, circa 32000 anni fa |
Quello che mi colpisce, però, nel cerbiatto, è la sua inutilità. Le figure dipinte nel profondo delle grotte avevano quasi sicuramente uno scopo sacrale. Ho avuto la fortuna di visitare le ultime caverne dipinte aperte al pubblico e si percepisce, a distanza di più di diecimila anni, un senso di sacralità che ancora le pervade. Altro oggetti erano doni votivi o segni di potere. Questo non sembra avere alcuno scopo, se non abbellire un oggetto comune. Una spinta all'arte per l'arta, nella sua totale inutilità che è ciò che ci differenzia da qualsiasi altro animale.
La fulgente bellezza della natura ha sempre uno scopo funzionale. Non credo vi siano casi di prede o predatori rimasti incantati ad ammirare il tramonto e per questo diventati pasto o rimasti digiuni.
Via via che gli studi etologici progrediscono le differenze tra noi e gli animali si assottigliano e quelle che pensavano caratteristiche solo nostre non si dimostrano non più tali. Gli scimpanzé usano utensili preparati ad arte per scopi specifici e diverse popolazioni di orche hanno tradizioni culturali differenti, metodi di caccia specifici che si tramandano e affinano generazione dopo generazione.
Ma la spinta verso l'inutilità dell'arte, o di un gesto, come un'impresa sportiva, rimane una specifica umana. Fare qualcosa per il puro piacere di farlo o di averlo fatto. A volte neppure per piacere, quasi per necessità. Una spinta necessaria verso l'inutile è, in fin dei conti, quello che ci distingue da qualsiasi altra specie vivente di questo pianeta, una sorta di paradosso evolutivo.
Se penso all'uomo, o alla donna, che così tanto tempo fa ha scolpito nel corno di renna quel cerbiatto, posso immaginare poco, ma so che era un essere umano, consapevole della propria mortalità e che, almeno in parte, scolpiva quel corno per provare a se stesso la propria esistenza.
A Cartesio bastava essere consapevole di pensare per essere certo della propria esistenza, ma molti di noi, parrebbe da sempre, almeno da quando il nostro cervello ha raggiunto la sua forma attuale, constatiamo un giorno che c'è stato un momento in cui non siamo esistiti e che ci sarà un momento in cui non esisteremo più. E di questo frammento infinitesimale di tempo in cui abbiamo esistenza non abbiamo certezza. Cerchiamo un riscontro.
La volontà di rendersi immortali attraverso l'arte è un passo successivo e non scontato, è necessario avere un grande ego, per pensare di fare qualcosa di così importante da garantirci sempiterna memoria e anche una certa fiducia in un'umanità desiderosa di conservare e perpetuare il ricordo delle nostre opere.
Ma il fare oppure il compiere qualcosa ma che nessuno abbia mai fatto prima, il plasmare il non esistente ci dà una prova concreta della nostra esistenza, qualcosa di cui abbiamo bisogno nel momento in cui ci rendiamo conto che non siamo esistiti prima e che non esisteremo poi. Non tanto per lasciare un segno agli altri, ma per convincere noi stessi di non essere solo il sogno di una qualche divinità addormentata.
Si discute tanto, da sempre, di cosa sia il talento e di cosa ci spinga a fare quello che facciamo, sopratutto se quello che facciamo e in cui spendiamo energie è del tutto inutile per la nostra sopravvivenza, come il mio atto, in questo momento, di scrivere queste righe.
Ecco, secondo me è l'attitudine a cercare di fare qualcosa che nessun altro ha mai fatto prima per provare a noi stessi di esistere. Creare una decorazione in un oggetto d'uso, cantare una canzona che nessuno ha mai cantato prima, raccontare una storia che nessuno ha mai sentito, conquistare una vetta che nessuno ha mai raggiunto, dipingere qualcosa che non sia mai stato visto.
Essere i primi o plasmare qualcosa di unico e che come tale ci distingua da qualsiasi altro essere umano che calchi o abbia calcato questa terra. Prima che per l'ammirazione degli altri, per il riconoscimento di qualcosa, serve a noi stessi.
Questo non ha molto a che fare con l'essere molto bravi a fare qualcosa. Per me il talento è una spinta, piuttosto che un'abilità. Ciascuno di noi nasce con una qualche attitudine e da qualche parte questa spinta sarà incanalata. Non è detto neppure che ciò sia un bene. Il desiderio o la necessità di provare la propria esistenza nel fare qualcosa di unico può portare ad azioni molto stupide, addirittura pericolose. Più spesso e più banalmente, alla produzione di qualcosa che non ha valore se non per noi stessi.
La cosa che piuttosto mi incuriosisce è che questa spinta, presente fin dagli albori dell'umanità, non tutti la sentano o non tutti allo stesso modo. Prima dei diciotto anni, diceva qualcuno, tutti scrivono poesie. Poi, però, i più si incanalano su i binari di una vita che non deve più dimostrare a nessuno, neppure a loro stessi di essere tale. Non credo che sia per gretto materialismo, o, almeno non per tutti.
Forse, il cosidetto animo artistico deriva da un surplus di insicurezza. C'è chi già sa di esistere e chi non è sicuro, ha bisogno di provarlo costantemente a se stesso cercando di plasmare qualcosa che nessun altro prima di lui aveva plasmato. Atti di per se inutili.
Eppure, guardando il cerbiatto vecchio di quattordicimila anni almeno, so che è stato fatto da un essere umano e ho la prova, se non della mia esistenza specifica, dell'esistenza di altri esseri umani uniti da una sensibilità, da una fragilità, comune.
Anche chi non sente alcuna spinta all'arte (o allo sport o a qualsiasi altra espressione di unicità personale) riconosce se stesso e il proprio sentire in una canzone, un quadro, un libro, un'impresa e vi vede un riflesso della propria esistenza.
NOTA FINALE: il mio attuale stile di vita inibisce la scrittura di getto, perché è inevitabile stare a computer a pezzi e a bocconi e anche pensare tra un boccone e l'altro a quello successivo. Ma ieri sera volevo scrivere di tutt'altro e invece, mentre leggevo la biografia di Michelangelo, ho pensato al propulsore con il capriolo e ne è uscito questo sproloquio a cui poi oggi ho unito due immagini per renderlo meno incomprensibile. Non ha altro senso, suppongo, che rassicurarmi della mia esistenza.
Via via che gli studi etologici progrediscono le differenze tra noi e gli animali si assottigliano e quelle che pensavano caratteristiche solo nostre non si dimostrano non più tali. Gli scimpanzé usano utensili preparati ad arte per scopi specifici e diverse popolazioni di orche hanno tradizioni culturali differenti, metodi di caccia specifici che si tramandano e affinano generazione dopo generazione.
Ma la spinta verso l'inutilità dell'arte, o di un gesto, come un'impresa sportiva, rimane una specifica umana. Fare qualcosa per il puro piacere di farlo o di averlo fatto. A volte neppure per piacere, quasi per necessità. Una spinta necessaria verso l'inutile è, in fin dei conti, quello che ci distingue da qualsiasi altra specie vivente di questo pianeta, una sorta di paradosso evolutivo.
Se penso all'uomo, o alla donna, che così tanto tempo fa ha scolpito nel corno di renna quel cerbiatto, posso immaginare poco, ma so che era un essere umano, consapevole della propria mortalità e che, almeno in parte, scolpiva quel corno per provare a se stesso la propria esistenza.
A Cartesio bastava essere consapevole di pensare per essere certo della propria esistenza, ma molti di noi, parrebbe da sempre, almeno da quando il nostro cervello ha raggiunto la sua forma attuale, constatiamo un giorno che c'è stato un momento in cui non siamo esistiti e che ci sarà un momento in cui non esisteremo più. E di questo frammento infinitesimale di tempo in cui abbiamo esistenza non abbiamo certezza. Cerchiamo un riscontro.
La volontà di rendersi immortali attraverso l'arte è un passo successivo e non scontato, è necessario avere un grande ego, per pensare di fare qualcosa di così importante da garantirci sempiterna memoria e anche una certa fiducia in un'umanità desiderosa di conservare e perpetuare il ricordo delle nostre opere.
Ma il fare oppure il compiere qualcosa ma che nessuno abbia mai fatto prima, il plasmare il non esistente ci dà una prova concreta della nostra esistenza, qualcosa di cui abbiamo bisogno nel momento in cui ci rendiamo conto che non siamo esistiti prima e che non esisteremo poi. Non tanto per lasciare un segno agli altri, ma per convincere noi stessi di non essere solo il sogno di una qualche divinità addormentata.
Si discute tanto, da sempre, di cosa sia il talento e di cosa ci spinga a fare quello che facciamo, sopratutto se quello che facciamo e in cui spendiamo energie è del tutto inutile per la nostra sopravvivenza, come il mio atto, in questo momento, di scrivere queste righe.
Ecco, secondo me è l'attitudine a cercare di fare qualcosa che nessun altro ha mai fatto prima per provare a noi stessi di esistere. Creare una decorazione in un oggetto d'uso, cantare una canzona che nessuno ha mai cantato prima, raccontare una storia che nessuno ha mai sentito, conquistare una vetta che nessuno ha mai raggiunto, dipingere qualcosa che non sia mai stato visto.
Essere i primi o plasmare qualcosa di unico e che come tale ci distingua da qualsiasi altro essere umano che calchi o abbia calcato questa terra. Prima che per l'ammirazione degli altri, per il riconoscimento di qualcosa, serve a noi stessi.
Questo non ha molto a che fare con l'essere molto bravi a fare qualcosa. Per me il talento è una spinta, piuttosto che un'abilità. Ciascuno di noi nasce con una qualche attitudine e da qualche parte questa spinta sarà incanalata. Non è detto neppure che ciò sia un bene. Il desiderio o la necessità di provare la propria esistenza nel fare qualcosa di unico può portare ad azioni molto stupide, addirittura pericolose. Più spesso e più banalmente, alla produzione di qualcosa che non ha valore se non per noi stessi.
La cosa che piuttosto mi incuriosisce è che questa spinta, presente fin dagli albori dell'umanità, non tutti la sentano o non tutti allo stesso modo. Prima dei diciotto anni, diceva qualcuno, tutti scrivono poesie. Poi, però, i più si incanalano su i binari di una vita che non deve più dimostrare a nessuno, neppure a loro stessi di essere tale. Non credo che sia per gretto materialismo, o, almeno non per tutti.
Forse, il cosidetto animo artistico deriva da un surplus di insicurezza. C'è chi già sa di esistere e chi non è sicuro, ha bisogno di provarlo costantemente a se stesso cercando di plasmare qualcosa che nessun altro prima di lui aveva plasmato. Atti di per se inutili.
Eppure, guardando il cerbiatto vecchio di quattordicimila anni almeno, so che è stato fatto da un essere umano e ho la prova, se non della mia esistenza specifica, dell'esistenza di altri esseri umani uniti da una sensibilità, da una fragilità, comune.
Anche chi non sente alcuna spinta all'arte (o allo sport o a qualsiasi altra espressione di unicità personale) riconosce se stesso e il proprio sentire in una canzone, un quadro, un libro, un'impresa e vi vede un riflesso della propria esistenza.
NOTA FINALE: il mio attuale stile di vita inibisce la scrittura di getto, perché è inevitabile stare a computer a pezzi e a bocconi e anche pensare tra un boccone e l'altro a quello successivo. Ma ieri sera volevo scrivere di tutt'altro e invece, mentre leggevo la biografia di Michelangelo, ho pensato al propulsore con il capriolo e ne è uscito questo sproloquio a cui poi oggi ho unito due immagini per renderlo meno incomprensibile. Non ha altro senso, suppongo, che rassicurarmi della mia esistenza.
Sento molto quello che dici. Da piccola sognavo di regalare qualcosa al mondo che mi rendesse immortale: ora so che non lo farò ma non ne sento più il bisogno. Però mi sono resa conto di come queste attività inutili, disegnare, montare a cavallo, mi facciano sentire incredibilmente viva, mi tengano a contatto di qualcosa più antico e più vero di quanto non facciano i miei libri di scuola, guidare la macchina o andare a un aperitivo (per non parlare del rassettare la casa, cucinare o far la spesa). A volte mi sento molto infantile per questo; qualcuno mi ha detto che provare felicità e realizzazione nelle piccole cose quotidiane quali pulire e rassettare sia la sola strada giusta per equilibrio e realizzazione personali. Non so, magari è vero, ma preferisco ancora i pennelli o, in queste belle giornate, una sella e un paio di stivali...
RispondiEliminaAh, quanto vorrei essere di quelle persone che traggono piacere dal rassettare la casa! Cucinare mi piace, ma l'arte dell'inutile mi attrae molto, molto di più.
EliminaCiao Antonella, devo dire che anche io rimango sempre rapito dai manufatti di quelle epoche lontane. La ricerca del bello, il circondarsi di oggetti utili solo per esprimere la fantasia, danno il segno di quanto grande è l'uomo e quanta sia stata viva e vitale la voglia di emergere rispetto alla mera sopravvivenza.
RispondiEliminaNon c'è stato momento storico o luogo geografico, per quanto ostile, in cui l'uomo non abbia prodotto arte. Il richiamo dell'inutile, è evidentemente, parte della mera sopravvivenza.
EliminaAssolutamente vero.
EliminaMi piace l'idea che l'artista sia qualcuno insicuro della propria esistenza, e che quindi abbia nella sua arte l'unico modo per provare a se stesso che esiste davvero.
RispondiEliminaSai quando un pittore, uno scrittore o un musicista dice: "Faccio quel che faccio perché non posso farne a meno"? Ecco, penso che la definizione che ne hai dato sia quella che meglio rappresenti l'ineluttabilità dell'esistenza dell'artista, costretto ogni volta a cercare una nuova conferma.
Benvenuta Eleonora!
EliminaSì, se penso alle vite di molti artisti (ma anche sportivi), c'è una comune ricerca costante di conferma che, però, non riesce ad essere appagata da ciò che viene dell'esterno.
"Non ha altro senso, suppongo, che rassicurarmi della mia esistenza"
RispondiEliminaE ti pare poco? ;-)
Comunque è proprio così. L'arte e la ricerca di obiettivi non necessari alla sopravvivenza in senso materiale diventano, in effetti, tutt'altro che "non necessari". A volte osservo le anatre nel laghetto, o i gatti in strada, capaci di trascorrere intere ore senza l'assillo dell'alimentazione o dell'accoppiamento o quant'altro, semplicemente fermi e fissi: un'occhiata, una sgranchita, una spulciata, una nuova occhiata, una nuova sgranchita, una nuova spulciata... Molti (non tutti però) degli esseri umani che conosco sarebbero incapaci di trascorrere ore in questa inerzia senza farsi prendere dal nervoso o dal sonno. Per noi la sopravvivenza in senso materiale - del corpo - non basta, deve accompagnarsi a una vita interiore.
Non tutti, però, hanno voglia di dare forma a qualcosa di inutile, molti si accontentano di fruire (e non c'è nulla di male in questo). Tutti durante l'adolescenza sentiamo questa esigenza di esprimerci, ma poi ad alcuni passa (o viene incanalata altrimenti?), mentre al altri no. Mi chiedo se molti si coloro che non sentono l'esigenza di plasmare qualcosa di nuovo siano semplicemente più appagati dalla loro vita...
EliminaSe così fosse, fortunati loro. Io non so che darei per sentirmi più appagato della mia vita.
EliminaE' interessante pensare all'arte come a qualcosa di inutile, in effetti lo è. Non è essenziale, non è strettamente legata alla vita. Non esiste nessuno che è morto per mancanza d'arte. Penso che nella piramide (di non ricordo chi) dei bisogni dell'uomo sia all'ultimo o penultimo posto. Però, come hai sottolineato anche tu, pur nella sua inutilità l'arte a volte si sente come necessaria.
RispondiEliminaForse gli artisti che sono passati alla storia non lo hanno fatto con l'intento di non essere dimenticati. Credo che chi si dedichi all'arte in qualsiasi sua forma abbia semplicemente il desiderio di fare qualcosa di creativo, perché produrre arte è l'unica cosa che lo appassiona davvero. Il che nulla a che vedere con la bravura, o la professionalità, parlo anche di artisti dilettanti. Penso che, per chi ama fare qualcosa, sia scrivere, dipingere, creare siti web o cucinare, è indispensabile e quasi necessario a livello fisico. Certo un artista che non faccia arte non morirà, ma potrebbe ingrigirsi, vivere male, sentire che gli manca qualcosa.
Mi piace credere che l'arte, che pure abbiamo convenuto essere inutile all'umanità, sia essenziale invece per il singolo, e questa dualità mi intriga un sacco!
Assolutamente essenziale per gli artisti ed è questo, credo, che li rende tali.
EliminaE l'arte è inutile, ma ci ha sempre accompagnato, anche nei momenti in cui i problemi era ben altri, perché è tra le cose che rende l'uomo tale.
Quel manufatto è di una bellezza straordinaria. Mi ricordo ancora la mia insegnante di storia dell'arte al liceo, quando spiegava che anche nelle epoche preistoriche gli uomini decoravano le loro ciotole e scodelle con geometrie e colori. Non c'era nessuna utilità nel farlo in quando l'oggetto già assolveva alla sua funzione, cioè contenere del cibo o un liquido, ma provavano comunque il bisogno di renderlo "bello".
RispondiEliminaNon lo so.
RispondiEliminaIo scrivo, ma non credo che le mie cose rimarranno a lungo in circolazione, se mai ci finiranno. Eppure mi ci impegno, cerco di rendere le mie storie belle, e non solo stuzzicanti. Perché? Per sentirmi viva? Ad essere sincera, non credo. Forse perché e' un bisogno. Perché l'uomo aspira al Bello e ne ha bisogno. E se creo qualcosa di Bello e lo divulgo, e' per far godere anche agli altri il benessere che il Bello crea. Io non ho mai avuto reali bisogni di affermarmi. Certo, scrivo e voglio che qualcuno legga le mie storie, ma all'inizio l'idea era: scrivo affinché un giorno le mie figlie, leggendo le cose della mamma, si divertano. In un certo senso un'eredità, più che una prova della mia esistenza.
Un altro pensiero sparso, sulla scia dei tuoi: ci sono stati periodi in cui ho rischiato di non farcela. Non sono una che tende al pessimismo, e ancor meno alla depressione, ma ci sono stati periodi in cui le cose che dovevo affrontare hanno rischiato di schiacciarmi. In quei momenti il massimo bisogno che provavo non era tanto l'abbraccio delle persone che amavo, ma una cosa bella da tenere con me: un libro illustrato di un certo valore, un vaso comprato per due lire, ma che a me sembrava stupendo, una riproduzione di un quadro di Matisse: sciocchezze, ma che mi facevano stare bene. E' questo il compito dell'arte, secondo me: elevare lo spirito umano dalla sua miseria. Il bisogno del Bello e' sempre stato in noi, fin dall'inizio. E cercare di dargli forma, forse si', e' un modo per affermare il proprio ego e gridare al mondo e a se stessi "ci sono anch'io e sono capace di cose mirabili", ma forse e' anche e soprattutto rispondere a un bisogno non primario, ma comunque fondamentale dell'animo umano.
Innanzi tutto ti ringrazio per questo commento così articolato e stimolante. Penso anch'io che il desiderio del bello o comunque di qualcosa in cui l'animo umano possa rispecchiarsi sia un bisogno fondamentale, persino nei lager nazisti c'erano dei tentativi di produzione artistica, così come neanche la guerra ferma l'arte.
EliminaTu chiami il tuo desiderio di fare qualcosa di artistico un'eredità da lasciare, io una prova tangibile dell'esistenza, non credo siano cose così diverse. Piccolo o grande che sia è comunque il segno del nostro passaggio nel mondo.