giovedì 11 dicembre 2014

I rischi dell'autoconsolazione – scrittevolezze


Un commento della sempre ottima Anima di Carta mi ha dato lo spunto per il post di oggi, salvando (temporaneamente) alcuni film d'autore dal mio non troppo lucido giudizio.

Perché la scrittura come autoconsolazione è un rischio?
Anni passati a frequentare il mondo della scrittura professionale e amatoriale mi hanno convinto che uno dei motori, spesso inconsci, che spinge la gente a scrivere è il desiderio di autoconsolazione. Di primo acchito verrebbe da dire che questo non è un male. Strafogarsi di dolci per autoconsolarsi nuoce senza dubbio di più alla salute! E ci sono al mondo cose peggiori della cioccolata.
Autoconsolarsi con la scrittura, grazie al cielo, non fa male a chi scrive. Fa male, se mai, alla qualità delle storie.
Vediamo perché.

Il rischio Mary Sue
È il rischio più frequente e ovvio. Mi consolo della mia vita immaginandomi un personaggio alter ego che sia come me, ma senza i miei difetti. Come me, ma con i superpoteri. Diventa trasposizione la perfezione impossibile a cui si aspira. E, si sa, la perfezione è noiossima
Altre considerazioni sul rischio Mary Sue le trovate in questo post

Il rischio "Burattinaio"
Spesso nella vita reale ci troviamo in balia degli eventi e possiamo controllare davvero poco di quello che ci accade. Quando scriviamo, invece, siamo i re del nostro mondo. Decidiamo noi chi punire e chi salvare. Siamo come dei!
Al di là dell'ovvio delirio di onnipotenza che sta dietro a questo atteggiamento, spesso il burattinaio è portato a punire i cattivi e a premiare i buoni in modo eccessivo. I cattivi sono brutti, laidi e fanno una pessima fine. I buoni spesso sono sfortunati, ma candidi e belli come roselline e alla fine il fato arride loro com'è giusti che sia.

Il rischio sfogo
Non c'è nulla di più autoconsolatorio di una bella lamentela! E quindi a volte si scrive per sfogarsi, per raccontare della propria vita e dei propri drammi, semplicemente prendendo un personaggio che è tale e quale a noi, ma ha un altro nome.
Siamo davvero sicuri di essere così interessanti?

Il rischio "la vita che vorrei"
Magari riusciamo ad evitare la Mary Sue, ma ci consoliamo facendo vivere al nostro personaggio la vita che vorremmo. Certo, non vogliamo che soffra troppo! Vogliamo per lui il lieto fine e anche il principe azzurro e persino la reggia con piscina!
Alla fine, i nostri desideri sono spesso banali. Possiamo sognare in santa pace di vincere al superenalotto, ma forse non è il caso di scriverci un romanzo.

Perché la scrittura NON può essere autoconsolatoria?
La narrazione è ricerca e autoanalisi.
Non amo il mondo new age e rifuggo l'uso di termini che possano essere associati alla spiritualità spiccia, però, sì, la scrittura è, anche una ricerca interiore. È un viaggio nella penombra dell'animo umano ed è tanto più interessante quanto più riesce ad inoltrarsi negli interstizi delle anime. La prima anima che un autore ha a disposizione è la propria e non c'è gran che di consolatorio nell'andare a spasso nelle zone oscure del proprio animo. Se ne può uscire più consapevoli e tutto sommato più sereni, ma, in termini di autoconsolazione, la cioccolata è più efficace.
Come tutti i viaggi, inoltre, l'arrivo e il percorso sono sottoposti a infinite variabili. Si sa cosa si parte per cercare, non si sa cosa si trova. Come raccontavo nel post scorso, sono partita per scrivere storie fantasy disimpegnate, ho finito per scrivere di delitti andando a scavare nelle psicologie degli assassini.

La scrittura può essere consolatoria?
Per ragioni che mi sono rimaste oscure il libro del liceo con le poesie di Catullo era introdotto da un testo teatrale, un dialogo tra due personaggi (indovinate, uno era Catullo!). All'epoca mi affascinò parecchio. Una delle battute finali suonava più o meno così (cito a memoria e chiedo venia):
"Possiamo solo farci coraggio a vicenda, come facciamo noi due, parlando così e raccontandoci delle storie"
L'uomo ha da sempre avuto bisogno di storie per consolarsi, nel senso di farsi coraggio, riconoscersi nell'altro. Le mille e una notte raccontano che la narrazione allontana, ancor più della morte stessa, l'idea della morte. Le storie tengono in vita il re non meno di Sharazad, perché notte allontanano da lui il pensiero della morte. Attraverso le storie viene a contatto con l'umanità di Sharazad non meno che con quella dei personaggi, fino ad innamorarsi di lei.
Le storie consolano perché ci dicono, se non altro, che siamo tutti soli allo stesso modo e che il dolore è esperienza comune.
Le storie ci rendono consapevoli del nostro essere uomini (e donne) e di condividere con gli altri la stessa condizione umana.
In questo senso sono consolatorie. 
Non consolano l'autore, però, se mai lo sono nel confronto col lettore. Finché l'autore è chiuso nell'ottica di un'immediata autogratificazione è difficile che ciò avvenga.

Inevitabili  lodevoli eccezioni
"Scrivo un racconto immaginando una storia che farebbe star bene me se la leggessi adesso".
Ecco questo è un atteggiamento autoconsolatorio che può anche funzionare. Voglio gratificarmi attraverso una storia che mi scrivo da solo. La storia che vorrei leggere in questo momento.
Può funzionare, ma solo a delle condizioni.
Che l'autore ne sia consapevole
La scrittura è al 90% consapevolezza. Quando siamo a conoscenza di un rischio già automaticamente mettiamo in atto tutto quelle misure correttive che ci evitano di cadere in errore.
Che la storia non sia consolatoria per la presenza di Mary Sue, autore burattinaio et similia
In questo momento mi andrebbe di vedere un film disimpegnato d'azione in stile anni '80. Indiana Jones, per intenderci. Se non avessi la febbriciattola, le tesine da scrivere e i compiti in classe da correggere, potrei decidere di sfruttare questo mio desiderio estemporaneo per creare una storia con un certo tono e un certo ritmo. Dovrei però stare attenta a non creare un clone, non usare le Mary Sue e tutto il resto. Dovrei lavorarci duramente, ma, in effetti, potrei.

Le mie storie autoconsolatorie sono gli apocrifi di Sherlock Holmes. Lo so io, lo sa l'editore e lo sa Sherlock Holmes, quindi c'è il giusto grado di consapevolezza.
Sono consolatorie perché, per come la vedo io, una storia in cui all'inizio abbiamo un investigatore tossico e sregolato e alla fine abbiamo un apicultore sessantenne con un certo grado di saggezza è una bella storia a lieto fine. Quello che sta in mezzo può anche essere orribile, ma so quale vecchiaia attende i miei protagonisti, quindi nulla può angosciarmi davvero.
Scrivo di Sherlock Holmes quando sono stressata (ad esempio in questi giorni). Quando sono più tranquilla, invece, parto per esplorare luoghi più oscuri e insicuri.

Voi cosa ne pensate? Ritenete che l'autoconsolazione in scrittura sia un rischio?

13 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  2. Mi è piaciuto questo post perché, per quanto tu rifugga la new age, è molto spirituale.
    Natalie Goldberg, autrice del volume "scrivere zen" che cito spesso nei miei post, sostiene che la scrittura è uno strumento di evoluzione e di crescita per il suo autore e che, almeno agli inizi, ha un valore auto-consolatorio.
    Questa cosa va accettata ed assecondata: se c'è dell'energia repressa è giusto che esca, è una forma di pulizia interiore. Arriva un momento, però, in cui il "salto di qualità" avviene spontaneamente: lo scrittore si è liberato e può narrare con un misto di coinvolgimento e distacco. Le filosofie orientali parlano di "muta testimonianza": come il maestro di arti marziali vive le sue mosse con consapevolezza, senza auto-giudicarsi, così deve fare lo scrittore, imparando, pian pianino, a guardare i propri scritti dall'esterno.
    Una volta che si cresce, la scrittura può avere un valore auto-consolatorio, ma deve essere separata dal "lavoro" vero e proprio: si può scrivere un diario e parallelamente un romanzo, ad esempio.
    Per quanto mi riguarda, personalmente io ho smesso da tempo di usare la scrittura come un'auto-consolazione. è una cosa che riguarda prevalentemente i miei scritti giovanili.
    La scrittura porta ad una ricerca interiore, dici bene. A volte diventa un modo per comprendere me stessa, questo sì: in fondo anche il personaggio che meno mi somiglia è nato da me, quindi c'è qualcosa del mio inconscio che si è riversato in lui. Se lo capisco fino in fondo, anche io evolvo e cresco.
    Per farlo però devo rileggere le cose a distanza di tempo. Nella stesura del romanzo mi concentro sui dettagli tecnici e sull'emozione che la storia mi genera. Poi capita magari di parlarne con qualcuno... e a quel punto... bam! Mi si spalanca un mondo!

    P.S. Sono fiera di aver ucciso Mary Sue! :)
    P.S. II Se hai tempo e voglia, sul mio blog c'è un articolo che si intitola "una verità interiore che trascende l'autobiografia", credo (anzi, è molto probabile) nella categoria "scrivere zen". e che parla anche di questo.
    Probabilmente l'hai già letto, ma ripescarlo dopo aver scritto questo post potrebbe essere interessante.

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    1. Il tuo commento è molto interessante, come sempre. Non so se mi riconosco al 100% in quello che scrive la Goldberg. Per come la vedo io la scrittura deve sempre, anche agli inizi, essere comunicazione, più che auto consolazione. La scrittura personale, come quella di un diario è proprio un'altra cosa, non è che abbia meno dignità o sia un passaggio intermedio. Si possono scrivere diari tutta la vita senza sentire mai l'esigenza di scrivere un romanzo e viceversa (mai scritta una riga di diario se non per compito scolastico).
      Invece è inevitabile quello che dici sui personaggi. Io cerco di lavorare con consapevolezza a monte, quando me li vado a cercare. E non è mai piacevole, come scrivevo nel post scorso, scoprire che nel più bieco assassino c'è una parte di me!

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  3. Considerato il numero di scrittori morti suicidi o alcolizzati direi che il rischio c'è...

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    1. Da questo punto di vista gli scrittori non credo siano messi peggio dei musicisti, degli attori o dei pittori. Il fatto è che chi sta in pace con se stesso e con il mondo difficilmente si dà a forme artistiche. L'arte (intesa nel senso più lato), temo, nasce dalla consapevolezza e dalla non accettazione della propria finitudine.

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  4. Sono contenta di averti ispirato queste riflessioni così interessanti :)
    Credo che in qualche modo la scrittura abbia sempre un fondo consolatorio, nel senso che ci fa evadere dalla realtà vera portandoci temporaneamente in un'altra tutta nostra. Forse ciò accade anche quando leggiamo, dopo tutto.
    In ogni caso, sono d'accordo sul discorso che fai riguardo alla consapevolezza, forse è proprio quest'ultima a fare la differenza tra comunicazione e auto-consolazione fine a se stessa.
    Grazie per la citazione!

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    1. La lettura è e deve essere consolatoria. Sono assai meno convinta che la scrittura debba essere auto consolatoria. Se leggo evado, vado in una realtà altra che, però, non è necessariamente più rassicurante della mia. È diversa e mi offre la possibilità, poi, di ragionare anche sulla mia vita guardandola da fuori. Se scrivo devo creare una realtà altra non necessariamente più rassicurante della mia e non è detto che il viaggio debba essere facile o piacevole. Interessante, sì, necessario, spesso, ma non facile.
      Non so se sono riuscita a spiegarmi.

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  5. Capisco piuttosto bene il "rischio Mary Sue" e trovo la scrittura come sfogo (parlo di scrittura professionale, quella che dovrebbero poi leggere dei poveri lettori) noiosa e spesso superflua. Però, in fondo, i più grandi non scrivono di personaggi che vorrebbero interpretare e non raccontano storie come fossero dei registi onnipotenti? Lo fanno tutti, da King a Martin. Forse ci piacciono anche per questo.

    Se soffro di qualcosa, sicuramente si tratta di delirio di onnipotenza. Sono il grande burattinaio, ma a differenza del tuo post, io preferisco punire i buoni. Che ci vuoi fare, ognuno ha le proprie devianze... ;)

    Sono un bambino davvero, davvero cattivo.

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    1. Di King ho letto solo IT e Le notti di Salem. Spero per lui che non si sia sentito autoconsolato da queste storie!
      A dire il vero ho scritto questo post pensando (anche) a IT. Quanto ha dovuto viaggiare King nei meandri oscuri della sua mente per scriverlo? Non credo che tale viaggio sia stata un'immediata fonte di auto consolazione. Qualcosa di necessario probabilmente sì, com'è necessario, spesso, tirar fuori le parti represse/nascoste/dolorose di noi. Alla fine ci si sente pure meglio ma difficilmente viene definito "piacevole" o "consolatorio" l'atto di tirarle fuori.
      Su Martin sospendo il giudizio in attesa del finale, ma, se è bravo come sembra, allora, alla fine, le necessità narratologiche avranno la meglio sul suo essere regista onnipotente. Come regista, in scrittura, non puoi tutto. Le storie hanno delle loro leggi di coerenza interna. Una volta messe in movimento sono, almeno in parte, come degli ingranaggi che funzionano da soli e, come autore, non puoi mai andare contro a tali leggi. Questo vuol dire, ad esempio, far finir male personaggi per cui si vorrebbe il lieto fine. Altro che onnipotenza!

      Per il fatto di punire i buoni, se la storia lo consente, perché no?
      Resta il fatto, ovviamente, che sei un bambino cattivo ;)

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  6. Ciao, io sono Mary Sue, piacere di conoscerti :=)

    Ehh, quanta scrittura depurativa dovrò ancora sgorgare prima che io possa librarmi nel vostro Universo di personaggi maturi e indipendenti... ma la gavetta va fatta!

    In psicoanalisi si dice che chi fa il chirurgo sceglie quel mestiere per sublimare un desiderio inconscio di aprire la madre e vederne le interiora.
    Considerando che lavori a scuola non mi soprende che invece di avventure fantasy ti escano delitti truculenti :)

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    1. Meglio un morto su carta che nella realtà!
      E adesso starò alla larga dai chirurghi!
      Mio marito invece è farmacista: per che cosa devo preoccuparmi?

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  7. Ciao Antonella, ti seguo anche se in questi mesi sono presa dalla scrittura (oltre che dalla famiglia) e aggiorno poco il blog e non passo a commentare gli amici, comunque eccomi qui: concordo abbastanza anch'io con quello che dici. La scrittura per me è comunicazione della mia visione del mondo, noi scrittori sentiamo un progetto dentro che vogliamo trasmettere. Ti lascio una frase di Nicola Lagioia che mi ha colpito: "Uno scrittore di prim’ordine non lotta con la sindrome della pagina bianca ma con i complicati, faticosissimi, talvolta insuperabili problemi che il progetto in cui si è già lanciato comporta. Abbiamo un’indole prometeica, e il problema non è mai spiccare il volo ma come sfracellarsi al suolo con un certo stile".
    La sindrome da pagina bianca può essere proprio il tentativo consolatorio della scrittura: quando cioè giriamo a vuoto o in tondo cercando di scrivere qualcosa in cui rispecchiarci (Narciso!) anziché coltivare un progetto che ci porti fuori di noi. Un abbraccio!

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