mercoledì 11 marzo 2015

Scrivere scoperchia i tombini dell'inconscio – Scrittevolezze


... Quel sogno mostruoso (...) io l'ho fatto,
e l'averlo avuto un solo istante mi rende diverso da essi per sempre.
M. Yourcenar, Memorie di Adriano –

Quando leggiamo ci immergiamo nel vissuto dei personaggi e completiamo gli inevitabili buchi della narrazione con il nostro inconscio. Quando recitiamo ci immergiamo fin nel profondo di un'identità che non è la nostra. Quando scriviamo ci immergiamo fin nel profondo di tutte le identità presenti nella storia di cui siamo necessariamente parte e, allo stesso tempo, distaccati demiurghi.
Se già la lettura ha inaspettati effetti, la scrittura ancora di più ci trascina nel territorio incerto dell'inconscio dove possiamo fare l'incontro più spaventoso di tutti: trovarci nudi al cospetto del nostro io.
Per me ogni racconto, ogni narrazione è un viaggio dentro i territori grigi dell'anima. Tanto più riesco ad avventurarmi in territori ancora sconosciuti al mio io cosciente e tanto più quella narrazione sarà importante di me. Quasi sempre il grado di riuscita della narrazione stessa è direttamente proporzionale all'importanza del viaggio compiuto.
Se, come ho già avuto modo di raccontare, leggendo ho scoperto parti di me e attraverso delle letture ho capito cose essenziali della mia vita, ancora di più ciò accade quando scrivo. E, tuttavia, non è un'operazione priva di pericoli.
Io la visualizzo come una discesa nei sotterranei del mio palazzo mentale, che immagino enormi e ramificati come le fogne di Parigi. Al loro interno ci sono tombini che portano ancora più in basso, in oscurità limacciose e inesplorate. Toccandoli incautamente possono saltare e io non so, di volta in volta, cosa ne uscirà, quale mostro del mio inconscio mi toccherà affrontare.
Posso raccontarvi di alcune di queste discese e del perché secondo me è stato necessario compierle.


HIC SUNT DRACONES 

NELLE MIE STORIE GIRA BRUTTA GENTE
Il mio problema fondamentale, ciò che mi spinge a scendere nei sotterranei del palazzo mentale e che mi fa tremare di paura ogni volta, è che il mondo è pieno di brutta gente e se voglio raccontare anche solo una porzione di mondo, un'astrazione di mondo, dovrò capire le motivazioni profonde di tutti, dei protagonisti, degli eroi, degli assassini e degli squallidi. Dovrò pensare come loro, essere loro, per metterli in scena, anche solo per poterli sconfiggere.
È, del resto, una delle cose che più rimprovero a una certa narrativa, non avere il coraggio di scavare nel chiaroscuro. È molto più facile, molto più rassicurante mettere in scena un "cattivo" pazzo, o del tutto ripugnante, un mostro che è già nato tale, insomma, un altro da sé che come autori non ci metta in gioco nel profondo. Nella realtà dei fatti, tuttavia, l'Orco è spesso un membro della famiglia, gli assassini possono essere i vicini di casa e persona in apparenza normali possono, in determinate circostanze, compiere azioni terribili.
Per provare a mettere in scena questo genere di Male, quello che nasce in case apparentemente tranquille, in situazioni che sembrano "normali" devo entrare nella loro psiche, devo sentirli vivi, devo amarli, trovandoli dentro di me.
Questo, in assoluto, è il viaggio nei tombini dell'inconscio che mi pesa di più. C'è un racconto che sarà edito a brevissimo in cui ho messo in scena il personaggio più viscido e odioso che mi sia capitato per le mani. Non tanto scriverlo, quanto pensarlo, pianificare le sue azioni, guardare il mondo con i suoi occhi, sentire la sua logica mi ha fatto sentire sporca, contaminata.
A questa esperienza, più di ogni altra, ho pensato nel scegliere la citazione iniziale. L'idea di riuscire a immedesimarmi in modo totale con le persone che più mi provocano repulsione ogni volta mi spaventa, perché non posso non chiedermi quanto esattamente sia lontana da loro. La consapevolezza di quanto labile possa essere il confine rimane dentro. È un mostro dell'inconscio che non è facile addomesticare, una volta uscito dal suo tombino.


AI MIEI PERSONAGGI CAPITANO BRUTTE COSE
Ho già il mio bel carico di paure e di insicurezze, ma devo aggiungere anche quelle dei miei personaggi. Ogni volta che un mio personaggio soffre o ha paura devo cercare dentro di me una sofferenza, una paura simile e riviverla, rievocarla, tornare esattamente a quello che ho provato in quel momento per stare con loro e mettere su carta la loro esperienza.
A volte la scrittura, lo stile, leviga l'emozione e per il lettore l'esperienza non è e non deve essere traumatica quanto lo è stata per i personaggi e, di riflesso, per me.
Negli anni ho fatto capitare ai miei personaggi un sacco di brutte cose, difficile dire quali siano state le esperienze più traumatizzanti. La paura di perdere tutto per colpa di una malattia che lasci segni evidenti nel tempo credo che vinca. Nel mio tentativo di fantasy, Lord Corvo, il mio protagonista, che viveva in un mondo medievale dove la prestanza fisica era tutto, perdeva una gamba a causa di una ferita infetta. Accompagnarlo in questo percorso, cercare non solo di immaginare, ma di vivere quello che avrei provato io in una situazione simile è stato terrorizzante, eppure necessario. Non posso far provare a un personaggio nessuna emozione che non abbia provato io prima di lui, magari in un'altra situazione, e che non abbia rivissuto per lui nella stesura della storia.


EPIFANIE NON VOLUTE
Io le mie personali epifanie, i momenti di comprensione verso me stessa, li ho avuti più dalla lettura che dalla scrittura. Scrivendo sono andata volontariamente a cercare i miei abissi, accettando, più o meno, quello che veniva fuori. Mi è capitato, tuttavia, di ispirarmi più o meno inconsciamente a una persona di mia conoscenza per un personaggio e, di riflesso, essere folgorata da qualcosa che non avevo capito di lui/lei finché non l'ho messo in scena tramite il personaggio. Nei casi più drammatici, mi sono resa conto di qualcosa che forse l'interessato stesso non ha ancora capito/accettato o dei potenziali devastanti effetti di un comportamento. Una sorta di consapevolezza non cercata, come una confidenza non voluta. Un conseguente non banale problema etico: cosa dire all'interessato?
Non potevo certo dire a un amico:
– Sai, mi sono resa conto che un personaggio negativo (o che tu percepiresti come tale) ha dei tratti in comune con te e che potresti di conseguenza finire come lui?
La mia, dopo tutto, era solo un'intuizione dovuta alla mia immaginazione. Che poi i fatti non mi abbiano smentito non ha di certo aiutato a risolvere i miei problemi etici (sarà stato un caso? Non sono il suo guardiano/il suo psicologo...).
Scrivere regala nuove prospettive sulla realtà. Quello che appare ai nostri occhi da questi nuovi scorci non è, però, sempre rassicurante o voluto. E la consapevolezza, una volta acquisita, è un peso che va portato per sempre.


COME SI ADDOMESTICANO I MOSTRI DELL'INCONSCIO?

Non lo so di preciso, ma ci sono alcune linee guida che credo possano essere d'aiuto.
La tecnica è una corda di salvataggio.
Ogni volta che mi immergo nei sotterranei del mio inconscio so che lo sto facendo per una storia. So cosa mi serve (una paura, un personaggio oscuro, una situazione disturbante) perché è necessario all'economia della mia storia. Sarà perché ho praticato alpinismo, ma visualizzo questa consapevolezza come una discesa in corda doppia. Ho la mia imbracatura addosso, il caschetto sulla testa e so come rallentare o fermare la discesa, so come tornare indietro. Per quanti corridoi inesplorati ci siano lì sotto, io ho una missione da compiere, al termine della quale torno indietro.
Se poi mi rendo conto che il tutto si fa troppo disturbante cambio il tono della storia. Anche per me che scrivo cambia tutto se so che viaggio verso un lieto fine possibile. Uno degli ultimi racconti che ho scritto era per me (molto più che per il lettore) estremamente disturbante. Perché il protagonista era terrorizzato dall'inizio alla fine e si sentiva impotente di quell'impotenza drammatica che ti coglie quando non riesci ad aiutare chi ti sta a cuore. Ho inserito una cornice che diceva al lettore, ma anche a me, che comunque ce l'avevano fatta. Questo mi ha dato più distacco, perché, insieme al mio protagonista non vivevo una sofferenza presente, ma ne ricordavo una passata.
Mi chiedo sempre, prima di iniziare una storia lunga, fin dove posso spingermi. Le mie escursioni più terrorizzanti nell'inconscio fino ad ora le ho quasi sempre relegate ai racconti. In due casi, nel fantasy e nel thriller ambientato nell'antica Roma ho capito fin dall'inizio che i protagonisti avrebbero passato esperienze pessime e io con loro. Lo sapevo, mi sono chiesta se me la sentivo di affrontare il viaggio e ho preparato le reti di salvataggio necessarie.
Raccontiamo storie, viviamo e ci emozioniamo con i personaggi, ma non siamo le nostre storie e i nostri personaggi. C'è una giusta distanza necessaria da trovare per fare bene il mestiere del narratore.
Essere allo stesso tempo burattinai freddi e personaggi emozionati. Sapere che noi NON siamo i nostri personaggi.
Scegliere il momento giusto per ogni storia
Ci sono storie che posso scrivere quando sono stressata, quando sono da sola in casa e storie che è meglio di no. Storie da scrivere di giorno, per poi uscire, bere un caffè, comprare il pane, vedere che il mio mondo è ancora lì, intatto. 
Ci sono storie che è meglio non avere fretta di scrivere, aspettare il momento in cui saremo sicuri di essere noi a domare loro e non viceversa.
La riscrittura del thriller storico aspetta questo momento. Il manoscritto non fa certo la muffa tra i file del mio computer e il suo momento verrà.

Voi come ve la cavate con i tombini del vostro inconscio? Scrivere ne ha mai scoperchiato qualcuno?

16 commenti:

  1. Uno degli aspetti su cui ho dovuto maggiormente lavorare, dopo aver ripreso a scrivere, è stata proprio l'esigenza di guardare in faccia ciò che mi faceva paura o, semplicemente, mi disturbava. Molte scene erano fredde, scritte con il freno a mano tirato. Erano distanti, come se non mi appartenessero. Poi con il tempo ho imparato ad accettare tutto ciò che fuoriusciva dalla mia penna, anche ciò che mi sembrava sconveniente. Ma soprattutto ho imparato a comprendere che potevo (posso!) tranquillamente parlare di certe cose senza permettere loro di contaminarmi. Questa forse è la giusta distanza di cui parli anche se - ammetto - devo ancora macinare un po' di strada....
    Affrontare i temi scomodi diventa più facile se ne colgo il valore catartico. So che può essere brutto rendersene conto, ma se partoriamo determinate idee è perché qualcosa, dentro di noi, le sta rievocando. Per quanto ci sforziamo di essere (e probabilmente lo siamo) persone per bene, dentro di noi ci sarà sempre un trauma irrisolto, il ricordo di un momento di imbarazzo, un rancore represso che chiede di venire fuori. E qui, la scrittura, almeno nella sua fase puramente creativa, è meglio della psicanalisi. E costa meno. :)

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    1. Sul meglio della psicanalisi non saprei, non avendone mai usufruito. Forse a volta la mancanza di un mediatore può diventare un pericolo?
      In ogni caso la cosa interessante (è spaventosa?) è proprio quella che hai scritto: se partoriamo determinate idee è perché qualcosa dentro di noi le sta rievocando.
      PS: anch'io sto ancora lavorando sulla giusta distanza.

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    2. Io ero stata in psicanalisi da adolescente. Ora non lo sono più da almeno un "quindicennio", però ho i miei mediatori: la mia costellatrice, il mio master reiki, altri amici "illuminati"... certo non si tratta di un percorso strutturato, ma non sono abbandonata a me stessa. Forse è per questo che non mi spavento più di tanto per ciò che trovo dentro di me, ma cerco di scoprirne la causa. :)

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  2. Probabilmente il prossimo romanzo che dovrebbe uscire è quello in cui certi incubi personali sono confluiti con più forza. Il risultato è un libro che amo, a cui sono legatissima, e che allo stesso tempo mi fa star male, a volte. Ma è catartico

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    1. Sì, è catartico e, suppongo, necessario. Storie che si amano e che fanno star male... Storie necessarie, per noi, ma anche per il lettore.
      PS: non vedo l'ora di leggerlo!

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  3. Dai miei tombini di solito i mostri escono a legioni... e ormai ci ho fatto l'abitudine!
    Per me però è quasi rassicurante quando escono, come se me ne fossi liberata. Anche se nessuno leggerà quel racconto o quel romanzo, provo una sensazione di sollievo, come se, esternando, li avessi esorcizzati.

    Del resto chi scrive deve anche, come dici molto giustamente, sperimentare quasi sulla sua pelle non tanto le sofferenze fisiche (quello sarebbe troppo) quanto le sofferenze morali. Se un mio personaggio sta per andare al patibolo, devo avere anche una pallida idea di che cosa potrebbe significare.

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    1. È bello vedere che non sono l'unica pazza che ha queste sensazioni! Sì, anche per me a volte c'è quasi sollievo e a volte ci sono racconti che vanno scritti, anche se poi non avranno alcun futuro editoriale, perché è importante mettere su carta determinate cose.

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  4. “Nessuna lacrima nello scrittore, nessuna lacrima per il lettore. Nessuna sorpresa per lo scrittore, nessuna sorpresa per il lettore.” - Robert Frost

    Per me non è catartico: certe cose le scrivo, ma di certo non le esorcizzo. Me le tengo lì e mi piace leggerle, a volte; in generale mi piace pensare che possano commuovere anche altri e non solo me.

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    1. dimenticavo... una volta ho scritto un post dedicato a un mio protagonista che ho fatto morire. per essere sinceri, l'ho "suicidato" :)
      una bella esperienza, per lo scrittore; scarsa ma con buone possibilità di crescita per lo scritto...

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    2. Ah... Io ho un paio di personaggi che hanno sfiorato il suicidio (uno l'hanno proprio ripescato al pelo) e devo dire che accarezzare quel genere di pensieri è stata tra le esperienze più spaventevoli in assoluto...
      Invece ci sono personaggi di cui si scrive la morte con un certo gusto...

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  5. Ah, l'inconscio di uno scrittore è sempre un buco nero dove perdersi! Io lo sostengo da sempre: scrivere scoperchia tombini e scopre caverne di cose non dette, di cose che nemmeno pensiamo possano appartenerci. Io, nel mio romanzo, ho creato un personaggio problematico che nelle pieghe del suo essere nasconde qualcosa di profondamente mio, ma ho enfatizzato molto perché volevo venisse fuori tutto quello che di me non si vede e che nessuno riuscirebbe mai a vedere. È bello e, come dice Chiara, catartico rincorrere paure, affrontarle quando scriviamo. In fondo è per questo che lo facciamo, no?

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  6. Io faccio in media due incubi ogni notte, se mi metto a scrivere i miei tombini ne vengono fuori degli horror da far invidia a Dario Argento.
    Mi ha incuriosito il punto in cui dici che attingi alle emozioni che hai provato per descrivere quelle dei tuoi personaggi: al contrario, io non riesco a mettere nero su bianco cose che ho provato in prima persona, forse proprio per la paura di aprire il vaso di Pandora! Allo stesso tempo però non mi sento avulsa dal mio inconscio mentre scrivo, e penso che col tempo produrrò contenuti sempre più sentiti.

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    1. Spesso quello che capita ai personaggi io (grazie al Cielo!) non l'ho provato. Però mi sforzo di rievocare una paura, un'emozione (non sempre negativa, sempre grazie al Cielo!) che ho provato in un'occasione in qualche modo analoga e mi sforzo di ricordare a cosa ho pensato, cosa ho provato, per poi trasferirlo al mio personaggio. Tutto ciò spesso non genera che un singolo termine, un'immagine da mezza riga, ma, insomma, penso che sia meglio di niente. Se non altro aiuta me a riprendere possesso del mio vissuto.
      Forse è perché attingo così tanto al mio mondo emotivo che poi vesto mille maschere. Non voglio che chi mi conosce riconosca il momento a cui mi sono rifatta per questo o quel passaggio.

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  7. Sull'orco hai ragione. Prova a leggere "La ragazza della porta accanto" di Jack Ketchum (se hai lo stomaco forte), ma in quel romanzo potrai scendere molto in basso nei sotterranei della cattiveria umana. Di quella che puoi trovare appunto nella porta accanto.
    Ti dico la verità: io non mi pongo tutte queste domande né mi faccio tutti questi problemi quando scrivo. Ma credo che le donne siano più introspettive dell'uomo, quindi penso sia normale.
    Sul problema etico non saprei che dire: potresti inserire la dicitura a inizio libro "Ogni riferimento a persone e fatti non è casuale" :D

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    1. Io ho notato che questo genere di problemi sorge con l'aumentare della lunghezza della storia, tranne casi particolari. Convivere per tanto tempo con determinati personaggi e scavare nel loro animo li fa nascere per forza.
      Forse le donne sono più introspettive, forse no.Tra i miei autori preferiti le donne sono circa il 50%, l'altra metà uomini. Alcuni, come Borges sono in effetti più celebrali, altri invece scavano per bene nei chiaroscuri dell'animo. Penso che costoro abbiano affrontato le loro belle discese nei sotterranei del loro io, per poter scrivere i loro romanzi.

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