martedì 28 gennaio 2014

Scrittevolezze - Scegliere il proprio protagonista


Possiamo conoscere tutte le tecniche di scrittura di questo mondo, possiamo essere sapienti alchimisti delle trame, ma guardiamoci negli occhi, siamo scrittori (o aspiranti tali), non ingegneri. Non potremmo scrivere senza un profondo legame emotivo con la nostra opera. E di tutte le scelte emotive che uno scrittore si trova davanti, quella su chi dovrà essere il proprio protagonista è tra le più profonde e tra quelle che più influenzeranno il risultato finale. Cosa sarebbe accaduto, ad esempio, se la cicatrice a forma di saetta l'avesse avuta Neville e non Harry? Se l'anello del potere fosse capitato a Pipino e non a Frodo? Se fosse stato don Abbondio il protagonista dei Promessi Sposi? Avremmo avuto, semplicemente, un'altra storia.
Non è una scelta semplice. Ce lo dice anche un premio nobel, José Saramago, che nel suo Storia dell'assedio di Lisbona descrive proprio il momento in cui uno scrittore sceglie il suo protagonista:
"Raimundo Silva accetta quindi Mogueime come suo personaggio, ma ritiene che alcuni punti dovranno essere prima chiariti perché non rimangano malintesi che possano finire per pregiudicare, in seguito, quando ormai i legami di quell'inevitabile affetto che unisce l'autore ai propri mondi siano diventati indissolubili, per pregiudicare, dicevamo, la piena assunzione delle cause e degli effetti che dovranno stringere la duplice forza della necessità e della fatalità."

Ci sono alcuni punti di questa frase, a dir la verità un po' contorta e densa come lo sono sempre le frasi di Saramago, mi hanno sempre colpito.

L'INEVITABILE AFFETTO
Non possiamo non amare il nostro protagonista, sembra uno sciocchezza, ma non lo è. 
I nostri personaggi non siamo noi, non sono e non devono essere perfetti, faranno cose terribili. Forse li porteremo a vivere cose terribili. Ma se non li amiamo saranno morti agli occhi di chi legge.
Mi avventuro sempre con difficoltà nel territorio dell'emotività, io che sono così schematica e razionalizzante e che pure ho scelto la via della narrazione, che si dipana sulle paludi dell'inconscio e dell'irrazionale. Quindi con tutta la mia difficoltà di razionalista, affermare che la prima lezione che ho appreso da questo brano è quella dell'amore non è per me cosa da poco. Il protagonista di una storia è un altro da me che prendo in prestito, guardo il mondo con i suoi occhi, penso con i suoi pensieri. Se non lo amo sarà solo una fredda marionetta e non trasparirà alcuna emozione dalla pagina.
Non è così facile amare i propri personaggi. Lo è finché sono altri noi stessi o, peggio, sono i noi stessi che vorremmo essere, privi di difetti (o, peggio, con i superpoteri), ma questo genere di personaggi non funziona. I personaggi che funzionano sono persone vere, deboli e fallibili. Persone a cui urleremmo contro, che schiaffeggeremmo, che possono compiere un'idiozia dopo l'altra. E che tuttavia amiamo.

ALCUNI PUNTI DOVRANNO ESSERE CHIARITI
Questo è banale, ma, come tutte le cose banali, è la più facile a dimenticarsi. Del nostro protagonista non dobbiamo raccontare tutto, ma dobbiamo sapere tutto. Il brano di Saramago continua con l'autore che si domanda chi dica la verità e chi menta nella sua storia. Particolari che magari al lettore non interesseranno mai, che sono essenziali per l'autore. Ai personaggi in generale, ma al protagonista in particolare non è concessa alcuna intimità. Starà ai lettori e ai critici interrogarsi sui silenzi e suoi non detti di quel dato personaggio. L'autore deve sapere e, spesso, tacere. 

LA DUPLICE FORZA DELLA NECESSITÀ E DELLA FATALITÀ
Quanto è in nostro potere il destino dei nostri personaggi e del protagonista in particolare?
Semplificando possiamo dire che l'autore decide tutto sulla fatalità e nulla sulla necessità.
È una fatalità, e quindi una decisione di Manzioni, che don Rodrigo si invaghisse di Lucia. Tuttavia, il contesto storico, il carattere di Lucia e il suo contesto socio-economico rendevano una necessità il fatto che scegliesse di dire addio ai monti e di rifugiarsi a Monza piuttosto che, non so, andare nottetempo a uccidere don Rodrigo. Qui, di nuovo, è una fatalità, quindi una decisione di Manzoni, che Lucia finisca tra le grinfie dell'Innominato e una necessità che passi il suo tempo a pregare piuttosto che tentare di fuggire o di sedurre l'Innominato stesso. 
Una volta che abbiamo definito il carattere del nostro personaggio, la sua collocazione nel tempo e la sua situazione socioeconomica le azioni che possiamo fargli compiere non sono infinite. L'autore crea la condizione (la fatalità), ma come poi il personaggio possa reagire a tale fatalità è una necessità. 
Quindi, secondo me, hanno poco senso discussioni del tipo "uccideresti mai il tuo personaggio?". In date situazioni le possibilità di azione di un personaggio sono davvero poche e la volontà dell'autore conta fino a un certo punto. 
Ricordo quanto piansi da bambina per la morte di Lady Oscar. Presentato ai bambini in orario pomeridiano, fu forse il mio primo impatto con una storia "adulta". Ripensandoci oggi, che possibilità mai avrebbe avuto Oscar? Anche senza la tisi, consideriamo gli elementi narrativi. Oscar è di fatto il capriccio di un nobile, suo padre, che nel proprio delirio di onnipotenza pensa di poter sfuggire a qualsiasi regola e alleva la figlia come fosse un maschio. La donna in questione, però, ha un carattere forte e sa ragionare con la propria testa. Allo scoppio della rivoluzione, non può che schierarsi con i rivoluzionari. Ma quanto sarebbe durata, lei che era diventata così solo in quanto capriccio di suo padre? Lady Oscar è il classico personaggio che nasce già col proprio destino segnato, nessun espediente narrativo sensato avrebbe mai potuto regalarle un lieto fine, con buona pace di generazioni di bambine. Eppure sono convinta che la autrice l'abbia amata alla follia.


È difficile, quindi l'equilibrio che si crea tra autore e protagonista. Siamo noi autori che creiamo i nostri protagonisti, li ceselliamo fin nei più minuti particolari (anche se è meglio non rivelarli tutti), diamo loro concretezza e difetti. Li amiamo, perché sono nostri, anche se non siamo noi, ma non siamo del tutto padroni del loro destino. A volte diamo loro vita solo per raccontarne la morte.
È una responsabilità non da poco. Perché quando saranno su carta o su web saranno vivi agli occhi dei lettori che vivranno le loro emozioni. Del resto, quanta della nostra personalità la dobbiamo alle nostre letture e, in particolare, ai personaggi che abbiamo amato?

9 commenti:

  1. PS: un grazie alla papera che passeggiava vicino alla Scuola col Pontile, per essersi prestata a fungere da protagonista-esempio!

    RispondiElimina
  2. La papera protagonista è assolutamente adorabile. La protagonista del mio romanzo in uscita nasce come personaggio marginale e poi prende la scena, poi mentre scrivevo, sapendo già che lei sarebbe stata la protagonista, mi sono follemente innamorata di altri due personaggi, che hanno un ruolo importante, ma non sono i protagonisti. Ho dato loro maggior spazio, ma farli diventare protagonisti avrebbe significato stravolgere la trama e non era il caso. Fabio Genovesi che amo molto dice che del suo protagonista l'autore deve sapere tutto, anche il suo gusto preferito di gelato, anche se poi nel romanzo non lo dirà, ma lui lo deve conoscere. E io sono d'accordo. Mi è piaciuta molto la tua analisi. Grazie

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, concordo con Genovesi. Bisogna sapere tutto e dire solo lo stretto indispensabile.
      E anche a me è capitato che personaggi secondari di un romanzo diventassero magari protagonisti di racconti, perché avevano ancora tanto da dire e io ne ero innamorata (che poi il romanzo non ha mai visto la luce, qualche sparuto racconto, sì, così che il povero protagonista originario non ha mai avuto spazio, poveretto)

      Elimina
  3. Un equilibrio difficile, hai ragione. Per raccontare una storia è indispensabile un certo equilibrio tra affetto e distacco per il personaggio che abbiamo creato, per poter narrare delle sue vicende con intensità ma nello stesso tempo con l'imparzialità che va di pari passo al loro ineluttabile destino.
    In pratica, a volte so che qualcosa dovrà accadere al mio povero protagonista, eppure come "creatrice" faccio resistenza all'inevitabile svolta...
    I misteri e la magia della scrittura!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Un personaggio, sopratutto un protagonista, lo si deve amare anche se corre verso il baratro. In alcune storie ho fatto accadere cose terribili ai protagonisti e mi sono sentita un mostro (ma non ho addolcito la vicenda)

      Elimina
  4. Bellissimo post.
    È sempre un piacere leggerti, e c'è molto da imparare.

    RispondiElimina
  5. Mi piacciono tantissimo due cose che scrivi:
    "I personaggi che funzionano sono persone vere, deboli e fallibili. Persone a cui urleremmo contro, che schiaffeggeremmo, che possono compiere un'idiozia dopo l'altra. E che tuttavia amiamo."
    E l'altra: "L'autore crea la condizione (la fatalità), ma come poi il personaggio possa reagire a tale fatalità è una necessità."
    Come sempre vai in profondità e ti ringrazio, leggerti è illuminante!
    Un abbraccio!

    RispondiElimina