venerdì 2 ottobre 2015

La pietra di fratello Anselmo – racconto

Non posso promettere di pubblicare ogni venerdì un racconto. Non ne scrivo abbastanza. Ogni tanto, di venerdì, quando potrò, però, posterò un racconto inedito.

Questo La pietra di fratello Anselmo è stato scritto molti anni fa, per una manifestazione legata alle olimpiadi di Torino. È ispirato a una chiesa Torinese e, in particolare, a un campanile, unica sopravvivenza di un edificio preesistente, un monastero fondato da monaci fuggiti dalla Val di Susa quando, nell'Alto Medioevo, gli arabi passarono di lì.
Fu letto a Torino davanti a una platea di parenti di noi poveri autori (stile saggio scolastico) e di qualche signora volenterosa. 
Per diverso tempo si è parlato di una pubblicazione, senza che mai si concretizzasse nulla. Ormai sono passati quasi dieci anni e ritengo di poterlo postare senza problemi.
Si tratta del mio primo racconto scritto pensando a una fruizione orale e, pertanto, ci sono particolarmente affezionata.

LA PIETRA DI FRATELLO ANSELMO

    Saraceni in Val di Susa! Era una un’idea semplicemente assurda, da lasciare con la bocca spalancata e gli occhi strabuzzati, che era stata poi l’espressione dell’abate, quando arrivò la notizia. Arrivavano i Mori. La sua prima reazione fu una risata. I saraceni, nei racconti, giungono per nave, a spazzare le coste. Sono gente d’onde, loro, di sabbia e di deserto. Cosa mai potevano venire a fare in questa stretta frattura tra le alpi frustata dal vento? Qui, dove gli alberi se ne stanno avvinghiati alle rocce come se avessero paura di essere spazzati via dall’aria o dalla neve che, quando le va di cadere, scende a valanga, da perdersi o annegarsi dentro. Altro che deserto!
    Eppure la notizia sembrava fondata. Arrivavano i mori. Salgono su dalla Spagna, da Cordoba e Grenada a cercare una via per la Francia. Forse lassù Carlo Martello saprà fermarli, qui si salvi chi può. Arrivano i saraceni con i turbanti e le spade ricurve, per distruggere e saccheggiare. Saccheggiare cosa, poi, se c’erano solo pastori vestiti di pelle e monaci infreddoliti nei loro sai? L’abate si sentiva improvvisamente piccolo e solo di fronte a queste immagini di invasione. O meglio, non era solo, e qui stava il problema. Tutto il monastero di Sant’Andrea doveva in qualche modo fuggire. Bisognava abbandonare quelle montagne, che pure sembravano così sicure e protettive, affilate come denti, e scappare in pianura, rifugiarsi a Torino.

    Rifugiarsi a Torino? Ma non se ne parla nemmeno. I mori qui non si sono mai visti e non arriveranno certo adesso. Questo fu il commento succinto degli anziani, mentre i novizi, invece, erano già pronti ad abbandonare la vita contemplativa e ad impugnar la spada. Che se la vedessero con loro, i saraceni. E le coppiette del paese che volevano essere sposate al più presto dall’abate, che, si sa, è un sant’uomo e se poi vengono i Mori chissà cosa può succedere, meglio non aspettare. E quelli che volevano farsi confessare, giusto per avere la coscienza a posto, nel caso di un incontro ravvicinato con le famose spade ricurve. E convincere il fratello erborista che no, non si poteva proprio stare lì a cavare le piantine dell’erbario una per una, attenti a non spezzare le radici, per poi trasportarle senza che fosse loro torta una foglia e ripiantarle nel nuovo convento. E non importava quanto tempo ci avessero messo ad acclimatarsi.

    Tuttavia, l’abate lo sapeva, con l’erborista e i vecchietti e gli innamorati in un modo o nell’altro si poteva ragionare, ma fratello Anselmo, quello sì che era davvero un osso duro.
     L’aveva praticamente ricostruita lui, la chiesa di Sant’Andrea, dopo che la nevicata di tre anni prima si era portata via il tetto e anche parte dei muri. Dire a fratello Anselmo che si doveva abbandonare la chiesa era peggio che sussurrare ad una madre di lasciare il figlioletto nel bosco. Fratello Anselmo non se ne sarebbe andato, venissero i mori, i berberi, i diavoli o che altro. Persino di fronte ad un ordine diretto del Padre Eterno avrebbe trovato da ridire. 
    
      Intanto le notizie si rincorrevano. I mori erano già a Chieri. Le vie di comunicazione stavano per essere bloccate. Due famiglie erano già scomparse, certamente erano stati presi dagli infedeli.    
    Allora l’abate ebbe l’idea. Se bastava una reliquia, una piccola, come il loro dito di Sant’Andrea, a far sentire la presenza di un santo, disse, non sarebbe bastata una pietra della vecchia chiesa per sentire presso di loro tutto l’edificio che stavano abbandonando? Sul momento fratello Anselmo rispose di no, non se ne parlava nemmeno.

      Intanto le notizie si inseguivano. I mori venivano in armata, su cavalli bianchi, con i leoni al guinzaglio. I monaci li appendevano a testa in giù, bucavano loro lo stomaco e li lasciavano così, a morire lentamente. No, non era vero, li arrostivano a fuoco lento; toglievano loro le unghie e la lingua; li obbligavano a baciare il corano e poi li legavano nelle loro stesse budella. 
     
     Fratello Anselmo non si sarebbe mosso neppure per un ordine preciso del Padre Eterno, però alle sue budella ci teneva. Girò intorno alla chiesa, una, due, tre volte, finché la vide. Era proprio sopra l’ingresso, tra l’arco del portone e il rosone, La Pietra. Era un lungo, stretto pezzo marmoreo con scolpita una decorazione vegetale. L’aveva scelto proprio Anselmo, durante la ristrutturazione. Proveniva dai ruderi di un vicino tempio romano diroccato. Il monaco ricordò che aveva passato tutto un pomeriggio a sceglierla. Era indeciso tra la pietra con le foglie e quella con la ninfa, ma, dopo un commento dell’abate, aveva dovuto ammettere che la ninfa non splendeva esattamente di virtù cristiane. Così aveva scelto la pietra con le foglie. Era importante avere nella propria chiesa un pezzo di un tempio. Significava la vittoria di Cristo sul paganesimo. Certamente avrebbero dovuto mettere un pezzo di tempio antico anche nella nuova chiesa, a Torino. E se non c’erano, a Torino, templi in cui approvvigionarsi? Certo in una città le altre chiese si erano già accaparrate i pezzi migliori e loro erano solo dei monaci profughi, con pochi mezzi. Sarebbe stato meglio, e teologicamente rilevante, far venire un pezzo di tempio pagano dalla stessa Roma, magari portato da un pio pellegrino. Ma per intanto era più facile portarsene uno dalla val di Susa.
     L’abate sospirò e diede la sua approvazione. Dieci novizi, tutta la notte, a lavorare per staccare la pietra. Un novizio a far da spola dal paese al monastero per portare notizie. Non era certo che si riuscisse a passare, l’esercito dei mori avanzava e, più pericolose ancora, c’erano le bande di predoni sguinzagliate per la campagna. Ogni minuto perso era un rischio in più. E fratello Anselmo abbarbicato alla facciata, lo scalpellino in mano, a staccare la pietra. 
       Non si poteva più aspettare. L’abate era pronto a salire lui stesso là in cima e sferrare al fratello un buon colpo in testa. Non aveva dubbi che persino Sant’Andrea lo avrebbe perdonato. 
         Ma ecco, proprio col primo raggio di sole… Caaade!! 
      E avanti di corde a tenerla, non che si rompa, per l’amor del cielo! E poi sacchi e paglia a proteggerla, sul carro, che gli scossoni, si sa, possono farne di danni. 

     E via veloci, per la strada secondaria, che la principale certo è già stata presa. 
     Via, via veloci, giù per la valle, verso la pianura. 
     Silenzio, che i mori possono essere ovunque! 
   Fratello Anselmo per tutto il viaggio appollaiato sopra la pietra, sopra al carro, che quella pietra era tutta la sua chiesa, che la chiesa era tutta la sua vita e guai a chi si avvicinava! Il fratello erborista procedeva a capo chino, offeso, aveva recuperato solo poche piante, lui, e le avevano pure tolte dal carro, per farci stare la pietra! E l’abate a chiedersi per tutto il tempo se ce l’avrebbero fatto o non convenisse, in fin dei conti, buttare nel primo torrente la pietra con al seguito fratello Anselmo.

     … La nuova chiesa di Sant’Andrea di Torino, che a conti fatti ormai avrebbe mille anni e tanto nuova proprio non sarebbe, non esiste più. Ma se da Piazza Solferino si prende via Cernaia e poi su per corso Siccardi, oltre piazza Savoia, fino a piazza della Consolata, si incontra un campanile medioevale. La chiesa e il monastero che vi stavano dietro non esistono più, sotituite dalla Chiesa della Consolata. Il campanile, però, nessuno l’ha mai osato toccare, è sopravvissuto ad infiniti piani urbanistici, quasi un’aura di inviolabilità lo proteggesse. 
     E se si guarda bene, proprio sulla facciata che da sulla piazza, non troppo in alto, una pietra bianca lunga e stretta spicca tra i mattoni. La decora un fregio di foglie.

14 commenti:

  1. Carino come racconto, si vede che è stato scritto per una fruizione orale. Ma la storia della pietra è veramente accaduta oppure è frutto della tua fantasia :) ?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il campanile c'è, la pietra pure. Adesso non vorrei entrare nel tecnico, ma inserire in un edificio religioso un pezzo preso da un tempio pagano aveva un preciso valore simbolico e quindi spesso, in caso di spostamento si "riutilizzava il riutilizzo" (i pezzi dei templi antichi non venivano usati perché più comodi, ma per simboleggiare la vittoria del cristianesimo sul paganesimo). Infine, i monaci che hanno costruito il campanile venivano davvero dalla val di Susa.
      Quindi diciamo che potrebbe essere vera, anche in assenza di una documentazione certa..
      Con la storia non si scherza mai, si gioca con i chiaroscuri.

      Elimina
    2. Un chiaroscuro molto credibile! :)

      Elimina
  2. Grazie, Tenar, per questo regalo! L'ho letto davvero volentieri... poi si parla di Medioevo e Storia, che per me sono come il nettare per le api.

    Potresti radunare tutti i tuoi racconti storici e farne un'antologia.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. :)!

      ... Sherlock Holmes a parte non sono poi molti (tra qualche settimana magari ne posto un altro nel blog) perché come sai non è così immediato scriverne, anche questo, che non è certo lungo, mi è costato un bel po' di tempo in documentazione. Temo ne verrebbe un'antologia troppo magra.

      Elimina
    2. ... Chissà, magari con il tempo ne avrai un bel numero. Piano piano si procede, come le formichine.

      Elimina
  3. Carino :)
    E ho appena visto la pietra bianca su Street View.
    Anche a Roma ho notato diverse inclusioni del genere. La prossima volta me le annoto e le fotografo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Spesso venivano usate pietre provenienti da luoghi anche molto distanti. Il top era da Roma. C'è una chiesa di Pisa le cui colonne vengono dalle terme di Caracalla. Ci si riappropriava della grandezza di Roma e in contemporanea si sanciva la superiorità della chiesa. Pura propaganda medioevale, insomma.

      Elimina
  4. Bello, brava. Ci sono due piccoli refusi (avrebbero fatto, da) ma la storia è intetessante e la scrittura molto scorrevole.
    Povero fratello erborista :-)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ah, i refusi... Per quanto uno rilegga, quelli la spuntano sempre...

      Elimina
    2. Appena ne schiacci uno altrove ne spunta un altro :-)

      Elimina