LA CARTIERA
Dedicato a mio padre
Che queste storie le
Ha viste davvero.
Lasciate che ve lo dica, voi della carta non sapete niente, niente. Per voi sono solo quelle pagine piene di parole e di immagini che si acquistano dalle sei del mattino nell’edicola della piazza o i fogli gialli adesivi su cui annotare “comprare farina e mezzo litro di latte” e poi lasciare a sedimentarsi sullo sportello del frigorifero. Ed è carta, certo, quella su cui scarabocchia vostro figlio e quella appallottolata che si trova dentro le scarpe e le borse quando sono nuove, per mantenerle della giusta forma. Posso ammettere che sappiate riconoscere la carta, quando ve la trovate davanti, ma non ne sapete nulla. Forse vi hanno detto che prima quei fogli bianchi erano alberi, forse siete stati anche fermati, ai lati della strada, per firmare una petizione contro l’abbattimento delle foreste e costretti a comprare, per sentirvi più puliti, quei brutti quaderni dalle pagine grigie fatti di materiale riciclato. Eppure di tutto quello che può succedere tra l’albero e il foglio voi continuate ad ignorare tutto e, vi assicuro, ce ne sono di cose possono succedere.
Io lavoravo in una cartiera, una fabbrica che produceva carta. Era il più grosso edificio della regione, grande come una chiesa, il cui campanile, però, mandava fumo e non suono di campane. Non era brutta come le fabbriche di adesso, la cartiera, se ne stava vicino al fiume, di un bel color mattone e al mattino intorno a lei era tutto un via vai di gente e risate di bambini. Sì, perché mentre gli adulti lavoravano, i bambini andavano alla scuola della ditta, imparando a leggere e a scrivere sui fogli che facevano mamma e papà. E la carta in cui erano avvolti i panini che le mamme preparavano loro e i tovaglioli per pulirsi le mani e i fazzolettini e gli aeroplanini con cui giocavano, tutto veniva dalla grande fabbrica, anche le pagine dei romanzetti rosa che le ragazze leggevano di nascosto e la scatola di cartone dentro cui dormiva il gatto.
Io ero elettricista addetto alla manutenzione e la notte dovevo controllare le macchine fossero a posto, in modo che il mattino tutto potesse mettersi in moto e Frr… Pumf… Pumf… potessero arrivare i tronchi, tonnellate e tonnellate di tronchi per essere sbriciolati e sminuzzati e mescolati e incollati e pressati e sbiancati fino a diventare i candidi fogli pronti a correre sotto la punta delle penne e delle biro e delle matite di tutto il mondo. Di notte però non c’erano rumori, la luce della luna filtrava dalle grandi finestre sui macchinari, giganti addormentati, e io mi sentivo uno gnomo che andava da loro a massaggiare un muscolo o a togliere una spina dalle dita perché all’alba potessero tornare a masticare e a sbriciolare legna. C’era il vecchio Tom, il capo dei manutentori del turno di notte, che diceva che non avevo poi tanto torto, lui del resto con i macchinari ci parlava. Avevano tutti un nome e giuro che l’ho visto, starsene lì, con le mani in tasca a chiacchierare col metallo per allontanarsi e lasciare dietro di sé quell’ingranaggio che proprio non voleva saperne di funzionare rimettersi lentamente in moto. Non bisognava farli arrabbiare però, i macchinari. Tutti ancora ricordano ancora il mattino in cui Teddy non si presentò alle sei a fare relazione. Quella notte era solo lui di turno in quel reparto e nessuno sapeva spiegarsi cosa potesse essere successo. Quando però la produzione fu avviata, le urla degli operai, più forti del tumpf tumpf delle macchine ci richiamarono tutti a vedere la cellulosa che stava uscendo rosa. Tutto fu bloccato, congelato il grande processo produttivo, ma di Teddy non si trovò nient’altro, solo quel rosa gentile della cellulosa.
Alla moglie fu consegnata una medaglia, alla presenza del direttore, dei proprietari e del sindaco, tutti con il capello in mano e la voce bassa. E noi a guardare di sbieco le macchine come grossi cani diventati di colpo feroci. Tom non volle più parlare con loro per mesi.
Ma adesso che sono passati tanti anni posso dire, finalmente, che quella storia di Teddy, a me non ha mai convinto. Tutti sapevano che si era sposato solo perché lei era rimasta incinta e da anni ormai, si vedeva con una ragazza dell’altra valle, un peperino dai capelli rossi che aveva il cervello fino e aveva studiato da maestra. Una volta avevo sentito dire a Teddy quanto sarebbe stato bello lasciare tutto e sparire, scappare in America e ricominciare. Ricordo che si era a novembre, quando scomparve, e a novembre, dalle nostre parti, si ammazzano i maiali e la nonna di Teddy era famosa per il sanguinaccio che preparava… Mi dissero, una volta, che la ragazza coi capelli rossi non abitava più con i genitori, era partita per non si sa dove due mesi dopo la scomparsa di Teddy. Per dimenticare, si diceva. Ma altri giuravano di averla vista sorridere, mentre salutava i genitori.
Fosse come fosse, per qualche tempo non fu più la stessa cosa fare il turno di notte. Io, tuttavia, non avevo tanta paura dei macchinari, no, ciò che temevo davvero si trovava nei magazzini. Nei magazzini c’erano i topi. Ebbene, direte voi, che cosa c’è di strano? Tutti i magazzini hanno i loro topi. È vero, ma questi erano speciali. Nei magazzini c’era quasi esclusivamente cellulosa e i topi si erano abituati a nutrirsi di quello, dieta variata, saltuariamente, dalla plastica che avvolgeva la carta già preparata per la spedizione. Quest’alimentazione peculiare aveva formato una nuova razza di topi, grossi e grassi ratti completamente grigio cellulosa, di un colore stinto, quasi da fantasma. Erano completamente grigi, compresi occhi e lingua e soprattutto erano grossi. Giuro di averne visti alcuni che facevano almeno un metro e dieci di lunghezza dal naso alla coda. Il problema, con i topi, era che questa loro dieta evidentemente così corroborante, non doveva soddisfare troppo il palato, così, ogni qual volta trovano qualcosa che non fosse cellulosa o carta o plastica vi ci si gettavano. Spesso interi reparti si bloccavano perché un ratto incauto aveva rosicchiato questo o quel cavo. A volte ne trovavo i cadaveri fulminati con ancora il filo tra i denti. A volte, tuttavia, andando a cercare l’origine di un guasto, mi capitava di trovare loro, vivi e vegeti, e con tutta l’aria di considerarmi una piacevole variante alla carta e alla cellulosa. E allora a calci e a pugni si cercava di venirne fuori e al diavolo il guasto! Quando Ben, che aveva sostituito Teddy, finì all’ospedale per un morso al calcagno, si cercò una soluzione. Alla fine, però, quelli che arrivarono non furono prodi guerrieri armati di ratticida e fiamme ossidriche, come si sperava, ma gli studiosi dell’università di Pavia. Erano giunti chissà come a conoscenza dei nostri ratti e non vedevano l’ora di poter studiare in quali mutazioni esattamente si incorresse nel mangiare solo carta, cellulosa e plastica. Si asserragliarono nel magazzino per quasi una settimana con gabbie ed esche per emergerne, finalmente, scarmigliati ed esultanti, con una coppia di topi imprigionati. Comunque, in attesa dei risultati della ricerca, ci fu consigliato di non disturbare la popolazione di queste “interessanti creature”. Da quel giorno si decise di estrarre a sorte a cui toccasse andare nel magazzino. Ma non dovemmo preoccuparcene a lungo. Poco dopo la partenza degli studiosi di Pavia, iniziò a piovere.
La cartiera oggi Fonte: Ecomuseo Valle Olona |
Piovve ininterrottamente per giorni e giorni e l’acqua filtrava dal soffitto, andando a gocciolare sui macchinari, filtrava nel magazzino, andando a bagnare la carta pronta, penetrando dai buchi che i denti dei topi lasciavano negli imballaggi. Piovve per settimane e le strade erano impraticabile e gli operai e i bambini non potevano più confluire nella grande fabbrica che sembrava un chiesa. Piovve così tanto che una notte il fiume si arrabbiò. Ruggendo, uscì dagli argini e investì la cartiera, ruppe le vetrate e penetrò dentro, rubando tutta la carta del magazzino, annegando i topi e infiltrandosi con fango e pietre negli ingranaggi delicati dei giganti inermi.
Quando infine il fiume si fu placato e il sole tornò a farsi vedere tutti accorsero al capezzale della fabbrica. C’era fango dappertutto e ricordo un grosso tronco, con tanto di radici attaccate, proprio in mezzo al pavimento. Tom camminava gravemente da un macchinario all’altro indirizzando loro solo qualche parola, ogni tanto, ma non ci volle molto perché sentenziasse che erano tutti annegati.
Questa fu la fine della cartiera. Si dice che il proprietario si uccise, altri dicono che fu ucciso dagli eredi, altri ancora, forti del fatto che nessun corpo fu mai ritrovato, asseriscono che fuggì in sud america con gli ultimi soldi. Chissà forse adesso è in società con Teddy. Quello che è certo è che la fabbrica chiuse, tutti ci trovammo a dover cercare un altro lavoro e il bambini un’altra scuola. E quando aprivamo un panino incartato, ci pulivamo le mani in un tovagliolo di carta, quando sfogliavamo una rivista o si vedeva un aereo di carta volare, vi giuro, non era più la stessa cosa.
Tanto tempo fa, mi è stato detto che in questo racconto c'erano tante buone idee fantasiose, ma erano troppe e inverosimili. Peccato che fossero tutti aneddoti raccolti di prima mano dalle persone che hanno lavorato nella fabbrica. Oggi è un edificio in disuso, si trova al bordo del fiume Olona, in provincia di Varese e un bel sentiero gli passa a fianco. Potrebbe essere recuperato in mille modi, ma al momento è fatiscente e pertanto pericoloso, al punto che questo autunno un ragazzo entratovi incautamente ha avuto un incidente mortale.
A voi è mai capitato che una storia vera fosse giudicata troppo fantasiosa?
E' un racconto un po' strano, con una certa magia di fondo, ma secondo me non c'è niente di totalmente inverosimile. Per esempio, una storia come quella di Teddy non è comune, ma ci sono stati dei casi in cui effettivamente è successo che qualcuno si fingesse morto. Ti dirò quindi che secondo me è una bella trama, che non mi ha dato per niente la sensazione di essere campata per aria (oltre a essere scritta bene).
RispondiEliminaAl massimo, se me lo permetti, ti contesterei l'incipit: non è vero che non so niente della carta :P ! Abitando a poca distanza da Fabriano, ho visitato più di una volta il museo della carta, dove illustrano la storia di questo materiale e del metodo di produzione. Inoltre, un amico che avevo una volta era figlio del proprietario di una fabbrica di cartone, che non è proprio carta ma non è nemmeno tanto distante. Avendola visitata molte volte, so come sono quei posti :D .
Tu credi di conoscere la carta! Se incontrassi davvero il mio ipotetico vecchio lavoratore ne uscirebbe, credo, una discussione piuttosto accesa.
EliminaCome autrice, invece, ti do ragione
;)
Bah!!! A me è piaciuto molto. Neppure "Cent'anni di solitudine" è verosimile, ma resta comunque un bel romanzo.
RispondiEliminaIl leggere poi che sono i racconti delle persone che ci lavoravano lo rende ancora più bello. Le storie raccontate da persone care di tempi passati, acquistano un che di fiabesco che toccano corde emotive e danno più spessore al racconto.
Io non sono un editore e non ne ho le competenze, sarà che mi piace il fiabesco ma da lettrice l'ho letto volentieri e aggiungerei al racconto anche la postilla ^___^
Ovviamente a me non è mai capitata una cosa simile, scrivo favole che non ricevono neppure risposta, ma sono testarda e continuo a scriverle per diletto ;-)
Non era un editore, nulla di così serio, questo è un vecchio esercizio narrativo di quando frequentavo un master.
EliminaA me piace ascoltare i racconti di chi ha vissuto esperienze diverse dalle mie. Mi piace proprio quel tono fiabesco dato dalla lontananza al mio presente. Nel caso specifico, dato che si trattavano di racconti (rielaborati) di mio padre, però, mi ero un po' inalberata al consiglio di non mescolare presunti morti e topi mutanti...
Cara, vecchia carta rivoluzionaria... A me il racconto è piaciuto e non l'ho trovato per niente inverosimile. A quanto pare siamo state sulla stessa lunghezza d'onda, stavolta, per quanto riguarda i topi nei post!
RispondiElimina:)
Eliminaw i topi
Un week- end con i topi, il mio (mi riferisco anche al post di Cristina).
RispondiEliminaA me è piaciuto molto il tuo racconto, a maggior ragione se dici che hai tratto spunto da storie vere. Secondo me, tu hai una bellissima capacità narrativa che potrebbe ben adattarsi al genere favolistico. Hai mai provato a scrivere favole? Ma poi, il bello di uno scrittore è riuscire a mescolare elementi reali a elementi di pura fantasia in modo da fare sembrare vera ogni cosa, anche se potenzialmente strana o assurda. Qua ci sei riuscita alla grande.
Bello il we con i topi!
EliminaLe favole invece le vedo come il frutto di una tradizione, qualcosa di tramandato da generazioni e preferisco lasciarle ad altri.
Mi è piaciuto molto leggerlo e non mi sembra che ci siano troppe idee! Inverosimili, chi se ne importa? E' un racconto, se la musica delle parole funziona può parlare anche di efelanti e noddole. Mi è sembrato realismo magico (già Anna Maria Fabbri nei commenti ha citato Marquez) e non ci vedo contraddizioni col fatto che derivi dai racconti degli ex lavoratori. Se proprio c'è del lavoro da fare, è un po' di taglio sulla forma, quello di ordinaria amministrazione, ma secondo me il tema e la struttura vanno bene sulle proprie gambe. (Non ho mai scritto cose verosimili, quindi me ne lavo le mani).
RispondiElimina:)
Elimina